Correva l'anno 1932

La visita a Corigliano Calabro dei Principi del Piemonte. Per leggere la cronaca dell'epoca, pubblicata dal Popolano, cliccare qui

1932-L'ultimo grande evento mondano al castello di Corigliano      

 Fischi per le altezze reali

 

L'ultimo grande evento mondano che si svolse nel castello di Corigliano fu il ricevimento organizzato dai Compagna in onore dei principi ereditari Umberto e Maria Josè, nella primavera del 1932. Nella intorpidita vita sociale e politica di quegli anni, l'avvenimento ebbe - come è facile immaginare - un rilievo enorme, suscitando fremiti di eccitazione e parossistiche agitazioni, con tutto un contorno di aneddoti che nel corso degli anni ancora oralmente si tramandano, assumendo la coloritura di vere e proprie leggende paesane. Allora nessuno poteva nemmeno sospettarlo, ma quella visita reale segnò anche l'inizio del tramonto per due famiglie che da secoli dominavano su Corigliano grazie alle loro ricchezze ed alla loro influenza sociale, i Compagna ed i Solazzi (poi d'Alife). Umberto di Savoia, principe di Piemonte, come sempre in divisa militare, e la giovane moglie, "alta e slanciata, dagli occhi chiarissimi o dai capelli ribelli", come la descrivono le cronache del tempo, arrivarono a Cosenza, in treno, alle 10,30 di sabato 28 maggio 1932, per una visita in Calabria che doveva durare cinque giorni e toccare le città ed i principali comuni della regione. Dopo un trionfale giro nella città bruzia, splendidamente addobbata per l'occasione, la comitiva raggiunse in treno Sibari da dove, proseguendo in macchina, si recarono a Favella, ospiti nella grande villa dei duchi di Bovino. Qui furono accolti da Maria Antonia Gaetani, ultima erede femminile del conte d'Alife, e dal manto (sposato nel 1899) Giovanni De Riseis, duca di Bovino. I due, che proprio in quel periodo stavano faticosamente liquidando tutte le loro proprietà per far fronte agli ingenti debiti accumulati negli ultimi anni, non avevano comunque badato a spese per "far bella figura" e rinverdire il loro prestigio sociale, sperando in una ormai impossibile rinascita economica. I preparativi erano stati sontuosi e accurati. Silvio Minisci, per esempio. aveva avuto l'incarico di invitare le più belle ragazze dei paesi albanesi, in modo da poter rendere omaggio alle altezze reali nei loro bellissimi costumi tradizionali. Ricorda il Minisci - ancora arzillo e lucido, nonostante i quasi novant'anni (l’articolo è del 1997)- mostrando le foto del- l'avvenimento:" Erano quasi tutte signorine di Vaccarizzo. Io le conoscevo bene. A quell'epoca avevo la macchina, un aspetto giovanile e prestante, mi piaceva divertirmi. Riuscii a convincere una trentina di donne a venire a Favella col loro costume più bello, ognuno dei quali aveva un valore di 4 o 5 mila lire. Si disposero sulle scalinate della villa, ognuna con un cesto di frutta in mano. Il principe Umberto e la principessa Maria Josè sembrarono contenti di quella spettacolare parata".Dopo la colazione, alle tre del pomeriggio, gli illustri ospiti raggiunsero Rossano, dove ebbero modo di visitare la chiesa di S. Marco e il Codex Purpureum. Da Rossano ci fu il trasferimento a Corigliano, con destinazione il magnifico palazzo Bovino, nel cuore del centro storico. Le strade - ricorda ancora oggi Lucia De Rosis - erano tutte decorate con fiori d'arancio e di pesco.Via Roma, da piazza S. Antonio all’ Acquanova,  era adorna di bellissime coperte di seta, color bianco, rosso e verde. La banda musicale suonava l'inno d'Italia, i carabinieri erano in alta uniforme e c'erano militari dappertutto". Leggiamo su un giornale dell’ epoca (Il Combattente, numero unico pubblicato per l'occasione): "Da ogni balcone, dal davanzale di ogni finestra, dal tondo di ogni più alto e minuscolo abbaino, dalla sommità di ogni porta e di ogni campanile, bandiere, vessilli, fiamme, pennoni dai colori nazionali e belgi s'innalzano e garriscono al vento... Tutta la mano d'opera è stata reclutata e i lavori non ebbero tregua neanche nelle ore notturne. Grandi tratti di strada sono stati riattati. Piazza Cavour e via Toscano sono state interamente trasformate, tutti gli edifici ripuliti e messi a nuovo. Eppure, nonostante la presenza massiccia delle forze dell'ordine e la solennità dell'avvenimento, nell'aria c'era tensione. Tutti sapevano che "qualcosa" poteva accadere, anche se - come regolarmente accadeva in quelle evenienze -i "sospetti" (socialisti,anarchici,comunisti, teste calde) erano stati prelevati dalla milizia e prdenzialmente "ospitati" nelle carceri cittadine. Ed in effetti la "provocazione" arrivò verso le sette di quello stesso pomeriggio, quando il corteo si mosse dal palazzo dei duchi per raggiungere il castello, dove i Compagna avevano in programma un ricevimento ufficiale in onore dei principi. Appena il corteo arrivò nelle vicinanze del castello una clamorosa salva di fischi accolse la macchina che trasportava Renzo e Piero Compagna. I fischi continuarono fino a quando la macchina di Umberto e Maria Josè varcò il ponte levatoio e l'agitazione fu grandissima, perché sembrava che la contestazione fosse diretta anche contro di loro. I militari si misero in allarme, ma non intervennero. Cos'era successo? Facciamo un passo indietro. L'immagine di casa Compagna in quei primi anni trenta non era più splendida come nel passato. La visita del principe Umberto che fu re nel 1891 aveva segnato il culmine della potenza della famiglia, una specie di consacrazione nel mondo della nobiltà italiana. In seguito, lentamente ma inesorabilmente, al declino economico si era accompagnato un appannamento sociale. Giuseppe Compagna (figlio di Francesco e fratello di Piero e Renzo) che dall'inizio degli anni venti risiedeva a Ravello, manteneva comunque un saldo rapporto di amicizia personale con il principe Umberto, per cui aveva colto al volo l'occasione della visita in Calabria per chiedergli una sosta, anche se breve, presso il castello di famiglia, in Corigliano, in modo da rilanciare il prestigio della casata. Piero Compagna, però, si comportò con superficialità. Avvisato della visita, infatti, incaricò dell'organizzazione della stessa due suoi impiegati dell'amministrazione, Guido Albamonte (detto "Pedone") e Francesco Pellegrino. Questi prepararono anche la lista degli invitati per l'appuntamento mondano più atteso: il ricevimento al castello per il pomeriggio del 28 maggio. In quella lista i due inserirono un po' tutti i notabili del paese, senza stare tanto a sottilizzare o a discriminare. I nomi contenuti nell'elenco - ovviamente - erano diventati subito di pubblico dominio. Ma quando, pochi giorni prima della visita, arrivò a Corigliano il comm. Nardi, con il compito di sovrintendere al cerimoniale, avvenne l'imprevisto. L'inflessibile Nardi, infatti , defalcò senza pietà dalla lista incautamente redatta da Albamonte e Pellegrino quasi la metà dei nomi proposti. "C'era stata - ricorda ancora Lucia De Rosis - una vera e propria corsa verso i migliori sarti del paese ad ordinare il frac o il thigt per lo storico avvenimento. Quando poi si seppe che non tutti potevano partecipare, gli esclusi si precipitarono ad annullare gli ordini o ad usare la stoffa per abiti più "normali". Il sarto Spezzano, che serviva la famiglia De Rosis, in quell'occasione annunciò trionfante ai suoi lavoranti: Forza ragazzi, che i tights nostri vanno." Ma non tutti accettarono tranquillamente l'esclusione. Tra questi l'avv. Giovan Battista Policastri, che era stato depennato per i suoi trascorsi liberali. L'avvocato non la prese affatto bene e, attribuendo ai Compagna la sua esclusione, organizzò la clamorosa contestazione. Renzo Compagna si ritenne offeso e sfidò a duello il Policastri. Questi si salvò (Renzo Compagna era un provetto spadaccino) solo perché, essendo mutilato di guerra, non potè, secondo il codice cavalleresco in vigore, raccogliere il guanto di sfida. Prima del ricevimento Umberto e Maria Josè avevano visitato l'ospedale civile, allora ancora in costruzione. " Dopo aver visitato la chiesa e il Romitorio di San Francesco - ricorda ancora la signora De Rosis - il corteo si fermò presso il canalicchio che si trovava vicino all'ospedale. Qui, una bellissima donna del popolo, una certa Lucia, si fece avanti e offrì un bicchier d'acqua a Maria Josè, affermando che se avesse bevuto avrebbe presto avuto un bambino. Poiché dopo un anno la principessa ebbe davvero un figlio, il principe Umberto si ricordò di quella donna e le inviò in regalo una discreta somma". Le conseguenze della visita furono rilevanti. I Compagna non perdonarono mai ai Coriglianesi lo"sgarbo" subito. E nel dopoguerra, quando decisero di lasciare C'origliano, il ricordo di quell'avvenimento certamente influì sulla loro decisione. Giovan Battista Policastri, invece, fu messo ai margini dai regime fascista. Ma questo fu per lui un titolo di merito nel dopoguerra quando, ripristinata la democrazia, fu nominato dal Prefetto di Cosenza primo sindaco di Corigliano. 
 (Rosanna Taranto ed Enzo Viteritti-Serratore 48/1997) 

 

Palazzo Solazzi

Un palazzo reale a Corigliano

di Luigi Petrone

 

 

Una  folla festosa è assiepata ai piedi di un palazzo e sventola il tricolore. I balconi che ornano la facciata sono addobbati a festa. S’ode il nome della Casa Reale, quello dell’erede al trono: Umberto di Savoia e la sua consorte, la principessa Maria José del Belgio, si affacciano e salutano la folla. Accanto ai sovrani fa capolino una minuta dama, Maria Antonia Gaetani duchessa di Bovino, padrona di casa ed ultima discendente dell’antica e nobile famiglia dei Solazzi Castriota. E’ la primavera del 1932, ma presto si rivelerà essere l’autunno di palazzo Solazzi[1]. Aver ospitato i Reali d’Italia non salvò, infatti, la duchessa di Bovino dai suoi creditori che per far fronte ai debiti fu costretta a vendere i suoi beni. L’avito palazzo di Corigliano, terreni, fabbriche di liquirizia, tutto, ogni ricchezza persino la maestosa proprietà di Favella, è venduta.  L’eco di quella visita e il drammatico epilogo che ne seguì ebbe una risonanza che perdurò per anni nella memoria della gente.

Dopo la gloria della visita reale, sulla storia del palazzo, come accade per una stella quando al tramonto della sua vita vive gli ultimi istanti in uno splendore fulgido, cadde il sipario dell’anonimato.  E a nulla valsero le quattro vistose maschere apotropaiche poste agli angoli del tetto per proteggerla da quella cattiva sorte.

 

Palazzo Solazzi s’incontra percorrendo via Toscano, quasi a metà della strada che collega la chiesa di Santa Maria con quella di San Luca, al numero civico 41. Questa residenza privata testimonia l'ascesa socio economica di una dei più importanti casati di Corigliano, i Solazzi Castriota, fioriti tra il XVI e XIX secolo. In verità poco o nulla sappiamo delle vicende di questo edificio e le poche notizie rese dagli storici, scarne e marginali, sono insufficienti a tracciare qualsiasi ipotesi di lavoro. I Solazzi abitano in questa casa da tempi lontanissimi. L’Amato scrive che il “dottore Baldasarre Solazzi, famigerato medico dei suoi tempi, e stipite della famiglia” viveva già qui sin dal 1420 (Crono-istoria, p. 74). Le prime notizie certe sulla presenza del casato a Corigliano rimontino all’anno 1544 con Baldaxaris de Sollactio. Di certo sappiamo che la fabbrica è di fondazione antica come provano le sue fondamenta, posate sulla viva roccia, che si continuano senza soluzione di continuità con il tracciato delle muraglie, l’antica cinta muraria, che corre sotto i piedi.  I Sollazzo, come sono pure chiamati, vivono nell’agio tra solide finanze. All’interno di questo edificio trovava posto ogni sorta di comodità e tutto era pensato per soddisfare i bisogni di chi vi abitava. Al piano terra erano ricavate cantine ampie e capienti che custodivano ogni ben di Dio. Spaziosissima era la cucina, numerose le stanze ed aveva persino un oratorio privato che era ufficiato tutti i giorni dell’anno.  Qualche notizia in più sui suoi abitanti lo apprendiamo dal registro del catasto conciario del 1743. Nella “Casa Palaziata in moltissimi membri sita nella Contrada detta S.Maria”, si legge, vivono il Magnifico Baldassarre Sollazzo, di 33 anni, sua moglie Isabella Cherubino e otto figli dei quali si prende cura una nutrice. Con loro vivono pure donna Erina Castriota, madre di Baldassarre, uno zio capitano, cinque servi e un mulattiere; secondo le consuetudini del tempo in stessa casa trovavano alloggio la servitù, il cocchiere ed un frate laico conventuale che aveva cura della cappella privata [2]. Del resto don Baldassarre può permettersi tutto questo. Il Solazzi e sua madre Erina Castriota era tra i maggiori possessori di terre, tra le famiglie del notabilato cittadino avevano denaro da spendere che “avrebbe offeso a chicchessia”.

Quella che oggi è via Toscano, nel ‘700 era la “Strada di S. Maria della Piazza” e faceva parte dell’omonima Contrada. Ma chi abitava in quel tempo su questa via? Oltre al Mag.co D. Baldassarre Sollazzo, che vi possedeva “una Casa Palaziata in moltissimi membri”, proseguendo in direzione della chiesa di San Luca, tenevano case Palaziate donn’Anna Salerno vedova del Mag.co Severino, il Mag.co D. Girolamo Luzzi (che aveva sposato una Sollazzo), e la “Casa propria Palaziata” del Mag.co D. Giorgio Castriota Scanderberg. Unita a questa, ma già nella Contrada di San Luca, alla fine della strada si trovava la Casa di proprietà di Donna Erina Castriota, il palazzo Castriota, che in quel tempo risulta concesso in affitto al Mag.co Antonio de Angelis che pagava un canone di 15 ducati annui.  Vi avevano pure immobili il Mag.co Eliseo Capalbo, il Mag.co D. Domenico Astone, Dottore d’ambe le leggi (che però è in affitto essendo la casa di proprietà del Chierico D. Alessandro de Rosis), la Mag.ca Isabella Lumbisano e il Mag.co Domenico Negro. Possedeva un palazzo anche il duca Agostino Saluzzo che nel “loco detto la Strada di S.Maria della Piazza” possedeva una casa in più membri che affittava per undici ducati l’anno; insomma questa strada era un’infilata di case palazziate. Ma cos’era una casa palazziata? Con questo termine s’indicavano quelle abitazioni composte di più stanze (membri) fino a due o tre piani fuori terra, quello che noi oggi definiremmo un palazzo. E che si trattava del quartiere dove abitava la Corigliano bene del tempo non lo deduciamo soltanto dai cognomi appartenenti a nobili famiglie ma anche dall’appellativo di “magnifico”, il titolo che spettava ai cittadini benestanti o tenute in considerazione con il quale sono qualificate le persone residenti [3].

Ma veniamo alle vicende architettoniche. Iniziamo a dire subito che questo edificio non nasce così come noi oggi lo vediamo. L’area su cui sorge è frutto d’acquisizioni successive che, attraverso l’acquisto di edifici adiacenti permise ai Solazzi di assicurarsi uno spazio ben definito sul quale ricavarono in un unico edificio, un cosiddetto palazzo di rifusione. La storia costruttiva con accorpamento di più unità fondiarie, trova riscontro oltre che nell’irregolarità delle planimetrie e nella dissimetria dei muri portanti, anche nella facciata su via Toscano il cui andamento non è perfettamente allineato sul fronte della strada ma che proprio in corrispondenza del portone d’ingresso muta direzione per seguirne l’andamento. Nel 1743 il Mag.co Don Baldassarre Sollazzo pagava, infatti, 10 carlini alla Confraternita del SS.mo Sacramento di Santa Maria per il fitto di un’abitazione contigua alla sua Casa Palaziata. Un’altra porzione di casa, “incastonata nel palazzo dei potenti Sollazzo” era di proprietà, come abbiamo visto, di D. Anna Salerno (1708-1773) che estintasi nel 1773 senza successori perverrà, dopo una lunga lite con il Clero di Santa Maria, ai Compagna quali eredi universali; i Solazzi riusciranno ad accorpare questa casa soltanto dopo il 1792 quando fu acquistata da Monsignor Giovanni Solazzi (1730-1804) per fare risistemare il prospetto del palazzo. A questa composita situazione si dovette mettere mano necessariamente dopo il 1806 quando tra l’1 e il 2 agosto di quell’anno, nell’assedio dell’esercito Francese che mise a ferro e a fuoco Corigliano, le fiamme s’impadronirono di un’ala di Casa Solazzi.

La pianta è a sezione rettangolare con i lati maggiori paralleli alle fronti stradali. La forma è quella di un edificio a schiera ad affaccio contrapposto ovvero con due prospetti, uno funzionale, anteriore, rivolto su via Toscano ed un altro di rappresentanza, posteriore, posto su via Diaz.

Il prospetto anteriore si solleva di un solo piano e preannuncia nel disegno quello della facciata contrapposta, cioè una composizione di finestre sormontate da timpani triangolari chiuse da panciute ringhiere. L'elemento di spicco è però l’ingresso costituito da un portale litico a bugnato liscio con arco a tutto sesto inquadrato da paraste aggettanti vivacizzate da delicati rilievi di rinfianco. Sulla chiave dell’arco è collocato un enigmatico viso di pietra consunto dal tempo e un pinnacolo ad altorilievo della stessa materia posto più sopra.  Una loggia, ora chiusa, termina la fronte, mentre, sul lato opposto, una grandiosa “S” coronata sotto l’imposta del cornicione, ricorda, come un marchio, l’iniziale lettera del casato. Sulla volta dell’androne d’accesso, un dipinto “a fresco”  con “l’arma Solazzi inquartata a quella dei Castriota-Scanderberg”  (G. Amato) decorava l’ingresso principale del palazzo; da qui, uno scalone conduceva al quarto nobile che occupa l’intero piano superiore. 

Poiché l’edificio sorge su un sito in pendenza, questo prospetto è più elevato e vasto ed offre una quinta più ampia. Si sviluppa su tre livelli, un seminterrato a doppia altezza che occupa il piano d’appoggio e due piani fuori terra. L’edificio rivela la sua sontuosità sul prospetto di levante la cui facciata venne compiuta nel secondo decennio del XIX secolo periodo in cui trova la sua unitarietà stilistica[4]. L'impaginato della facciata posteriore è costituito da elementi più articolati ed eleganti. Al centro della facciata si apre un ampio portone d’ingresso fregiato con lo stemma in aggetto del casato (il cavallino rampante dei Solazzi inquartati con l’aquila bicipite col volo abbassato dei Castriota) e da una sovrapporta mistilinea[5]. Questa entrata è però solo di rappresentanza dal momento che da qui si accedeva solo alle cantine e alle stalle. Il piano, infatti, era destinato a deposito per attrezzi, per le provviste e ai cavalli. La scuderia, di una decisa spaziosa nobiltà, occupava l’intero piano terra e poteva ospitare sino ad una decina di animali; accanto, il fienile ed ambienti dove trovavano posto le carrozze. Altri ingressi, quattro e di minori dimensioni, davano accesso ai restanti “bassi”. Ai suoi piedi, ben curato ed abbellito, si estendeva un piccolo giardino d’agrumi, portogalli, perette ed altre specie di frutti[6]

Ai piani superiori segue uno spartito architettonico scandito da un interrotto corteo di dodici bucature disposte assolutamente in asse con quelle dei piani sovrastanti. Il leitmotiv del prospetto è dettato dalle aperture che danno luce agli ambienti e il cui disegno si rivolge a modelli coevi d’ispirazione neoclassica molto in voga che ripropongono le soluzioni stilistiche diffuse dal Vanvitelli. Il rispetto della simmetria è qui rigorosa ed ogni apertura è preceduta e seguita da un’altra uguale per disegno ed ampiezza. Questo ritmo è messo in risalto soprattutto al piano nobile da balconi e finestre sormontati da timpani, alternativamente, triangolari e rotondi. Le aperture sono incorniciate da ornie, lineari intorno alle finestre, con orecchioni sui balconi; tra questi stupiscono quelli centrali congiunti ed uniti come fossero uno solo, come una coppia di sposi. La ricerca della simmetria è morbosa, pure gli oculi ovoidali che traforano il cornicione di coronamento sono posti perfettamente in corrispondenza di ogni bucatura. La filza delle dodici bucature (con una cieca pur di rispettare il numero e la simmetria), che si ripetono per tre volte sulla facciata celano, forse, un significato recondito, quello con cui nel lessico del simbolismo cristiano si vuole richiamare la Santissima Trinità ed i Dodici Apostoli e “Giuda”  è la falsa finestra. Due paraste giganti lievemente aggettanti, concluse alla sommità da capitelli pseudo ionici e mascheroni apotropaici, rinserrano il prospetto e chiudono infine questa lunga facciata.

I piani erano riservati, il primo, alle cucine, alla servitù e agli ospiti di casa, gli altri ai membri della famiglia. Il piano nobile occupava l’interro ultimo livello ed era la vera e propria abitazione padronale. L’impaginato e la sistemazione di questo piano riassume bene l’idea e l’articolazione del palazzo signorile coriglianese. Il “quartino” padronale presentava una struttura comune a molti edifici aristocratici. Diverse anticamere precedevano il salone da ballo che ha mantenuto immutata, con i suoi decori, la bellezza originaria; seguivano poi un susseguirsi di camere d’infilata, l’alcova e infine la cappella privata posta all’estremità dell’appartamento intatta del suo fascino barocco.

Ma chi ha disegnato l’elegante prospetto di questo palazzo?  Le carte d’archivio non hanno fornito per ora un nome di un progettista. Sappiamo però che Baldassarre Solazzi (1777-1840), il III della dinastia, Cavaliere dell’Ordine di Malta e membro del Consiglio Provinciale della Calabria Citra, è sempre più spesso a Napoli dove è impegnato a gestire affari ed incarichi di rappresentanza. Don Baldassarre abita sulla strada di Chiaia in un appartamento che gli ha concesso in fitto il duca Gaetano Chaves. Nel 1820 si trasferisce in San Lorenzo in un edificio che ha appena acquistato e che fa sistemare dall’architetto Vincenzo Pirri ed abbellire dai pittori Giuseppe Rossi, Michele Converti e Paolo Innaco[7]. Il desiderio di dare visibilità in maniera più confacente ad un accresciuto prestigio deve aver suggerito al Solazzi di ingentilire pure la sua dimora in Calabria. L’ostentazione del rango condusse ad un vero e proprio restyling di questo edificio secondo modelli molto in voga nella capitale del Regno che offriva un vasto repertorio a cui attingere [8]. Come non rilevare, infatti, e solo per citare un esempio a noi familiare, l’assonanza di questa facciata con quella più monumentale del palazzo del duca Saluzzo in piazza San Domenico Maggiore a Napoli; persino le paraste che corrono per tutta l’altezza e gli oculi che traforano il cornicione terminale sembrano stati ripetuti dal Solazzi per il suo palazzo di Corigliano [9]. Ma il Solazzi non ha una piazza dove far vedere il suo palazzo né può permettersi di arretrare la facciata. L’anonimo architetto allora lascia le mura lisce e ne trafora la facciata con bucature cadenzate e ritmiche da molti balconi (elementi ricchi di accentuazione e di “conquista dello spazio cittadino”), ne ispessisce gli angoli con alte paraste e pone al centro un alto portale sopra il quale espone le armi del casato. L’impaginazione che ne deriva è un’adesione canonica ai modelli neoclassici, un edificio monumentale in cui il segno architettonico diviene segnale ottico dove “la lettura obliqua del palazzo, posto spesso in strade strette, è la regola più frequente” (G. Labrot, Baroni in Città, 1979, p. 72). Il palazzo è pensato per chi vi abita ma anche per chi lo guardava affinché il suo sguardo fosse colpito dal contrasto tra gli altri edifici accanto e un regolare ed unitario isolato la cui massa compatta subordinava le costruzioni adiacenti, come il casato dei Solazzi Castriota sulle altre famiglie. Il disegno è compiuto e il palazzo  può mostrare ora la forza e la ricchezza della famiglia.

L’edificio parve perdere d’un colpo la sua bellezza quando un grande sussulto colpì Corigliano il 4 ottobre 1870; le scosse di quel terremoto continuarono per un mese intero e molti furono gli edifici danneggiati. Il Conte d’Alife, erede dei Solazzi, oltre al suo bel palazzo di via Toscano ebbe qualche danno anche alla Casa detta “Castriota[10]. Ma i sussulti non dovettero danneggiarlo più di tanto se a distanza di qualche anno uno studioso locale scriverà che è “vasto ed elegante ed il suo interno è davvero ammirabile. In esso, oltre di una ricca biblioteca, vi si trova un Piccolo museo botanico e geologico, ed inoltre molti svariati oggetti antichi, rinvenuti in alcuni scavi fatti in quel di Sammauro e Sibari. Pregevole ancora è la cappella nell’interno di questo palazzo” (Giacomo Patari, Cenno Storico, 1891, pp.31,32). Così giungerà agli inizi del secolo scorso, sino al momento della vendita nel 1933, con i suoi arredi ottocenteschi, i bellissimi armadi della libreria sui cui sportelli erano dipinti i nomi delle materie (botanica, storia, letteratura, filosofia), quadri, reperti archeologici, una rara collezione di libri di svariate scienze e il prezioso erbario raccolto dal botanico e naturalista Domenico Solazzi Castriota (1800-1860) per buona sorte sopravvissuto[11].

Ma non fu certo il palazzo del duca a fornire il disegno, quanto piuttosto il Palazzo Reale di Caserta (la Reggia), il capolavoro architettonico di Luigi Vanvitelli, dal quale tantissimi edifici trassero esempio ed ispirazione. Ed è suggestivo pensare, sebbene non si abbia alcun riscontro documentario, che dallo stesso ambito culturale del progettista della dimora napoletana del Solazzi provenga anche il disegno per questo palazzo calabrese che ben riassumere quell’ideale di fasto e magnificenza degni della capitale, come un vero palazzo reale, a Corigliano.

Nel polimorfo e variegato scenario degli edifici cittadini che davano forma a quel paysage tanto caro ai viaggiatori del Grand Tour, l’apparire della regolare ed equilibrata facciata di questo palazzo imprigionava lo sguardo dello spettatore e non lo lasciava sfuggire; oggi prevale il disinteresse e siamo smarriti, incapaci di saper valorizzare e recuperare quel passato straordinario. Ma pur risentito per i mutamenti irrispettosi del suo nobile disegno, questo edificio mostra ancora la sua nitidezza compositiva. Lo guardiamo, ammiriamo l’armonioso inseguirsi delle sue finestre che ci piace immaginare, come in un gioco, rincorrere le balconate affacciate vanitose verso il mare, sublime diletto e sollazzo.

 



[1]Dopo la morte del Cavalier Domenico Solazzi Castriota (1800-1860), con il quale si estinse il ramo maschile di questa famiglia, per successione ereditaria l’edificio fu in possesso dal 1860 al 1880 di Onorato Gaetani dell’Aquila d’Aragona (1770-1857) Principe di Piedimonte e Conte d’Alife che aveva sposato Antonia Solazzi Castriota (1833-1859). Da questi passò dal 1880 al 1924 a Nicola Gaetani (1857-1924), ed infine dal 1924 al 1935 a Maria Antonia Gaetani (1881-1959) che sposò nel 1899 il duca di Bovino Giovanni de Riseis. Oggi l’edificio è suddiviso in diverse proprietà.

 

[2] Giovanni De Rosis, Corigliano 1743, Corigliano 2007, pp. 94,95.

[3] Paiono fare eccezione il barbiero Giuseppe Bruno, l’anziana Zenobia Scaldarotta, il bracciale Gaetano Ferraro e il mulattiere Giacinto Celico; ma questi ultimi sono soltanto di passaggio perché la casa è di proprietà del Mag.co D. Antonio Novellis

[4] Probabilmente per poterlo reimpiegare per la fabbrica, nel 1837 Baldassarre Solazzi acquistava il materiale di tre piccole stanze devastate da un terremoto (ACC, Archivio Solazzi, Negozi e stipule, Busta 4, fascicolo 74 (anni 1828-1923).

[5] I Solazzi nel 1731, anno in cui morì Lelio Castriota ultimo erede maschio di questa famiglia, al loro cognome e alla propria arme unirono quello dei Castriota-Scanderbeg. L’ ultima discendente dei Castriota, Erina, muore il 17 giugno 1779; con essa si estinse il ramo di Corigliano di questo casato.

[6] Il giardino privato (in parte ancora esistente) occupa il pendio a ridosso dell’edificio, ed è indicato con il toponimo “sutta Sullazzi”.

[7] ACC, Archivio Solazzi, Carte Giudiziarie, Busta 31, fascicoli 33, 35 (anno 1822).

[8] Solo per citare un esempio, il prospetto della Masseria Joele a Rossano, sebbene in tono minore, ricalca il quarto nobile di palazzo Solazzi. Nel realizzare questa facciata, la committenza risente della temperie culturale del momento che fa ampio ricorso ad aperture timpanate nell’abbellire i prospetti delle dimore. Non possono sfuggire, infatti, le analogie del disegno di questa facciata con quella del prospetto est della masseria di Favella appartenuta anch’essa ai Solazzi, pure questa con la fronte aperta da finestre timpanate ed occhi sovrapposti.

[9] Questo edificio, noto come Palazzo Corigliano, fu acquistato da Agostino Saluzzo nel 1732 che fece trasformare tra gli anni 1733-1741 nelle forme attuali dall’architetto Filippo Buonocore.

[10] Archivio Storico Comunale di Corigliano, vol. III, cat. I, fasc.n.16 (1870-1871).

[11] L’archivio della famiglia Solazzi (comprende 212 unità archivistiche tra buste, registri e volumi tra il 1704 ed il 1935) è stato donato al Comune di Corigliano dall’avv. Mario Policastri nel 1982.