Lessico calabrese

dialetto di Corigliano Calabro

 

di Luigi De Luca

Parte prima

 

ETIMOLOGIA E STRATIFICAZIONE DEL LESSICO NEL DIALETTO CORIGLIANESE:

 

 1) questioni generali, etimologia;

 2) profilo storico

 

 

 1 - "II nostro linguaggio può essere considerato come una vecchia città: un dedalo di stradine e di piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi; e il tutto circondato da una rete di nuovi sobborghi con strade diritte e regolari, e case uniformi.. . E immaginare un linguaggio significa immaginare una forma di vita..." . Con questa stupenda immagine - similitudine L. Wittgenstein descrive il momento adulto della vita di una lingua, come punto culminante di un processo storico, di una serie di stratificazioni, cioè di aggiunzioni e mutamenti susseguitisi nel tempo. Il tutto è colto con uno sguardo d'insieme che percepisce il farsi e il disfarsi, il persistere e il rinnovarsi della lingua nella totalità della sua realtà, che è mobile e complessa come quella di un organismo vivente. Ma, ora, questa realtà conviene ridurla a schema. E' necessario concentrare l'attenzione soltanto sull'ambito indicato nell'assunto, il lessico; e, all'interno di quest'ambito, disegnare sbrigativamente la linea diacronica degli strati onde il lessico si è costituito. Occorre, tuttavia, precisare che l'elemento lessicale è quello meno idoneo (si badi, non ho detto: del tutto inidoneo) a caratterizzare una lingua e a distinguerla da un' altra. L'elemento caratterizzante primo è quello fonetico; quindi, quello morfo-sintattico e, infine, il lessico. Esemplificando, ciò che distingue il rossanese dal coriglìanese non è tanto il fatto che ciascuno dei due dialetti ha una sua parola (diversa da quella dell'altro) per indicare il "cocomero" (rossanese: paddotta; coriglianese: cucùminirƏ) , quanto soprattutto la presenza nel rossanese del suono - dd - , al quale nel coriglianese corrisponde - ll - . Ancora, mentre il rossanese dice tèmpƏ , il coriglianese pronuncia tièmpƏ "tempo" : cioè, nel coriglianese è presente la dittongazione dovuta alla cosiddetta metafonia napoletana. Ciò nondimeno, la selezione "naturale" , fatta dal parlante nei vari universi lessicali nei quali si ritrova immerso o ai quali è esposto nei tempi lunghi della storia, realizza anche una funzione caratterizzante. Il parlante, cioè, nella scelta delle parole (quando può esercitarla) applica, per lo più inconsapevolmente, un criterio "istintivo" e "sincretico" che gli fa preferire certe parole - ovvero parole che hanno certe caratteristiche - anziché altre. Preferisce, insomma, quelle che si inseriscono più facilmente nel suo sistema lessicale, quelle che "somigliano" di più a questo sistema. Il coriglianese, per es. , preferisce la parola corposa, robusta, ricca di consonanti (come è provato dalla spiccata tendenza ai suoni prostetici: guòmƏ "uomo" , guògghjƏ "olio" , ecc.) , meglio ancora se geminate (come dimostra il rinforzo della r- iniziale: arrubbàrƏ "rubare" , arrassimigghjàrƏ "somigliare" , arricurdàrƏ "ricordare") , con sorde e sonore marcate; e, per converso, concede poco spazio ai suoni vocalici. Si tratta di un criterio che guarda sì allo spessore fonico, ma in quanto tale spessore si identifica con una parola, cioè con un significato. Il problema della stratificazione del lessico è un problema, oltre che di geografia linguistica e di sociolinguistica, anche di storia della lingua e, in quanto tale, ha strette connessioni con l'etimologia, che studia, appunto, la storia delle parole, rintracciandone l'origine e la provenienza, seguendone il percorso e l'eventuale evoluzione del significato, tenendo presenti i contesti culturali in cui si sono usate e la loro distribuzione nello spazio, esplicitandone la consistenza lessicologica. Oggi, l'etimologia, essendo di fatto materia interdisciplinare, è un campo di studi assai complesso e articolato, sì che non è per nulla agevole parlarne in termini adeguati. Schematizzando al massimo, possiamo dire che l'etimologo nel suo lavoro si trova di fronte a due tipi di problemi:

 1) parole, di cui egli può e riesce a ricostruire il percorso, tenendo conto sia delle modificazioni fonetiche e morfologiche subite nel tempo (dalle parole medesime) sia degli eventuali mutamenti di significato e delle ragioni di questi mutamenti;

 2) parole, per spiegare le quali le ragioni storiche anzidette (modificazioni fono-morfologiche e mutamenti semantici) non sono più sufficienti. Esemplificando, un problema del primo tipo è chjancƏ "macelleria" . L'etimologo sa che chj- è il risultato della modificazione di PL- ; sa anche che in un determinato momento storico, in determinati posti, carne e pesce venivano esposti, per la vendita, su tavole o assi. Mettendo insieme questi elementi, egli risale alla voce tardo-latino PLANC A che, in origine, significava appunto "tavola, asse" , e ne rileva l'evoluzione del significato da "TAVOLA" a "BECCHERIA" , rendendosene ragione col fatto, abbastanza frequente e comune, che una parola, che indicava una certa cosa, passa a indicare un'altra cosa che con la prima ha un rapporto di contiguità o di dipendenza. Le cose, naturalmente, non sono sempre così semplici: spesso la base (la parola etimologica) non è attestata, e va ricostruita; i mutamenti di significato sono, talora, più complicati o presuppongono ragioni e motivazioni non facilmente individuabili, a volte insospettate. Un problema del secondo tipo è posto, per es. , dalla parola mappa "mento pronunciato" e, per estensione, "persona dal mento pronunciato" . La voce, nel suo aspetto formale, continua il lat. MAPP A "salvietta, tovagliolo" (che ritroviamo nell'it. antico con significato affine e, in forma diminutiva, mappina "strofinaccio" , nel coriglianese) . Ma questa continuità formale, e i significati originari e quello affine dell'italiano antico, sono del tutto insufficienti a spiegare come e perché mappa abbia assunto, nel nostro dialetto, il significato di "mento" . Esiste, in tal caso, una parola, formalmente molto simile a mappa, che ha il significato richiesto. Per un fenomeno detto "attrazione paronimica" le due parole (mappa e l'altra che cerchiamo) si incrociano nel parlante, per cui si verifica una specie di "corto circuito semantico" in seguito al quale si genera l'anomalia mappa = "mento" . La parola che cerchiamo è nappa, voce d'origine longobarda, ancora vitale nei dialetti (Morano, Oriolo, ecc. ) che nell'alto medioevo fecero parte del territorio dominato dai Longobardi. – E nappa  vuol dire, appunto, "mento sporgente" . Le anomalie come mappa sono dette "etimologie popolari" . Analoghe a queste sono le deformazioni popolari, come nucipiellƏ che è la storpiatura del siciliano mungìbbeddu ("Mongibello, Etna" ) e perciò ha il significato di "rovina, catastrofe" . Vediamo, ora, come l'etimologo classifichi le parole secondo la provenienza e secondo il modo di formazione. Secondo la provenienza, abbiamo le parole ereditarie, ossia quelle che continuano il latino, e i prestiti o forestierismi, che sono tutte le innovazioni dovute al contatto con altre lingue. Secondo il modo di formazione, abbiamo parole nuove che, a differenza dei prestiti, sono coniazioni interne al sistema lessicale: coniazioni prodotte mediante la derivazione e la composizione. Il parlante, in altri termini, manipolando una parola già esistente (per es. , carrƏ "carro" ) ne deriva di nuove (carriarƏ"trasportare col carro" , carraturƏ" operazione di trasporto del grano con i carri, durante il raccolto" ) con l'aggiunta di suffissi (-iarƏ, -turƏ ) e/ o prefissi; ovvero, mettendo insieme due o più parole, ciascuna dotata di un proprio significato, ne compone una nuova con un nuovo significato: fichipaletta "fico d'India" (fichƏ "fico" + paletta "pala" , per la forma appiattita del ramo di questa pianta) .

 2 - Come per tutti i parlari romanzi, anche per quelli calabresi vale l'osservazione che il processo di trasformazione del latino può ritenersi compiuto nell'VIII secolo. In altri termini, i volgari italiani sono nati, allorché i parlanti sono diventati consapevoli di parlare una lingua diversa dal latino ( è la condizione che il Devoto chiama "bilinguità consapevole"). Alla fine del secolo XI, ossia a conclusione dell'"ultimo grande evento atto a determinare mutamenti e spostamenti essenziali - la conquista normanna - , la carta linguistica e dialettale d'Italia non doveva differire, almeno nelle linee essenziali, da quella presente". II coriglianese, dialetto della Calabria "latina" (tale è, com'è noto, soprattutto la Calabria settentrionale) , fa parte della più vasta fra le aree dialettali italiane: l'area meridionale intermedia, corrispondente, grosso modo, al Regno di Napoli della metà del sec. XIV, con l'esclusione della Sicilia, del Salento e della Calabria centro-meridionale. Quest'area, dall'epoca angioina in poi, ha avuto come principale centro di irradiazione e innovazione la città di Napoli. Possiamo dire che la funzione egemone del napoletano si sia protratta fino alla prima metà di questo secolo. A ragione il Petrini ha parlato dell'esistenza, nel Cinque - Seicento, di una koinè meridionale dovuta alla supremazia del napoletano5. Ed è all'interno di questa koinè che il dialetto coriglianese trova il suo assetto sistemico con i suoi caratteri peculiari: quelli che ancora oggi valgono a descriverlo e a definirlo. Qui non illustrerò questi caratteri, perché altro è lo scopo di questi brevi appunti. Qui basterà accennare semplicemente a due fatti:

 a) la fondamentale sicilianità del vocalismo, complicata da un vitale e generalizzato fenomeno di metafonia napoletana e, quindi, dall'oscuramento di tutte le finali e delle atone interne più deboli, oltre che da una lieve marginale esposizione alla rotazione vocalica proveniente dall"'area Lausberg" ;

 b) il prevalente, massiccio influsso del napoletano nel lessico. Questi due fatti confermano un principio noto in linguistica e qui riferito al movimento delle correnti linguistiche nell'ambito di un diasistema: la maggiore ricettività del lessico (rispetto alla fonetica e alla morfologia) "di fronte agli elementi alloglotti" . Nei secoli XII e XIII Calabria e Puglia avevano gravitato linguisticamente sulla Sicilia, ove fu la capitale del Regno normanno-svevo. Abbiamo già accennato che il calabrese settentrionale (e, quindi, il coriglianese) è la continuazione del latino, con successivi apporti, dovuti al contatto, violento o pacifico, di breve o di lunga durata, con vari popoli stranieri. Prima che questa "continuazione del latino" si trasformi in un vero e proprio "volgare romanzo" , nell'epoca, cioè, di passaggio - o del "bilinguismo inconscio- , compresa fra il VI e il IX- X secolo, si ha, in Calabria, il contatto con due popoli germanici, Ostrogoti e Longobardi e, soprattutto, con i Bizantini. I Goti (cacciati dalla Calabria a opera dei Bizantini, dopo una guerra durata dal 535 al 553) hanno lasciato nei nostri dialetti scarse tracce e, naturalmente, solo nel lessico. Riflessi di parole gotiche, nel coriglianese, sono, per es. , arrancarƏ "accorrere, sopraggiungere" e vrigghjnozzƏ "morso del cavallo" . Tracce meno labili sono dovute alla dominazione longobarda, che si installò nella parte settentrionale della Calabria e nella Valle del Crati, con periodici ma effimeri sconfinamenti nei territori bizantini. Tra i longobardismi ancora vivi nella nostra parlata sono cioffa "fiocco, nodo" , stuozzƏ "pezzo (di pane o d'altro)" , zippiellƏ "zeppa, paletto di sostegno" , e il toponimo Ministalla "scuderia" (contrada del comune di Corigliano Calabro) . La penetrazione dei grecismi bizantini ebbe, nelle nostre contrade, una certa consistenza e continuità dopo l'istituzione della Chiesa greca in Calabria (VIII secolo) e, specialmente, dalla fine del sec. IX in avanti, quando in concomitanza con la maggiore diffusione del monachesimo italo-greco fu creata la diocesi di Rossano. Bizantinismi sono zaricchjƏ "sandali" , astrachiellƏ "pianerottolo della scala esterna" , masalicojƏ "basilico" ; qualche relitto sopravvive anche nella toponomastica: Castellace, Conicella, Còtraco. Bisogna distinguere questi grecismi bizantini dai grecismi "classici" di origine magno-greca e presenti nella Sibaritide assai prima dell'epoca della "romanizzazione" che cominciò col II sec. a.C. I grecismi "classici" ( o dorismi) sopravvisuti sono parecchi e si riferiscono per lo più al mondo rurale. Ricordiamo: crusƏ "pulicaria; cespuglio" , contrƏ "guidalesco" , cuòfinƏ "cesta" , cruopƏ "letame" , spurìjƏ "spazio fra i solchi, che riceve il seme" , trappitƏ "frantoio" ecc. La pattuglia, abbastanza nutrita, di arabismi presenti nel lessico coriglianese è quasi tutta di provenienza siciliana. La penetrazione della maggior parte di essi può collocarsi fra il 1091 - anno della conquista della Sicilia a opera dei Normanni - e il 1250, anno della morte di Federico II. Qui segnaliamo secrƏ "bietola" , trabbacchƏ"lettiera di ferro (ar. TABAQA) , taliàrƏ "spiare" (ar. TALAYI) : parole ormai non più usate o scarsamente vitali. Arabismi vitali sono, naturalmente, parole come rancƏ "arancia" , tavùtƏ "cassa da morto" , lumincianƏ "melanzana" . Un ultimo esempio di arabismo, a-ra-bbobbilabbò "alla carlona, a vanvera" , è probabilmente dovuto alla mediazione provenzale.

Con la conquista e la dominazione francese dei Normanni (continuata, poi, dopo la parentesi sveva, con gli Angioini) si instaura il lungo, fecondo contatto fra i parlari calabresi e i prestigiosi "volgari transalpini" , fra i quali spicca il francese. Questo contatto, oltre che direttamente tra le persone, si realizzò attraverso canali diversi: quello ufficiale del latino medievale (in cui la lingua dei dominatori penetra con tutta una serie di termini tecnici, di cui è rimasta traccia anche nella nostra toponomastica: BARO ossia "barone" , CASTELLUM, FEUDUM , SERVIENS, TENIMENTUM , ecc.) ; quello dei pellegrinaggi; quello della diffusione orale delle "leggende carolinge e arturiane". Con beneficio d'inventario si può parlare di una vera e propria tarda "rilatinizzazione" (specie per quelle regioni, come la Sicilia e la Calabria meridionale, ove la resistenza del greco fu più tenace) . Nel lessico coriglianese prestiti, tuttora vitali, dal francese antico sono ggiugnettaƏ "luglio", jisƏ "piega" , lavurƏ "seminato di grano", jardinƏ "agrumeto" (ma, in origine, "orto recintato") , castiarƏ "castigare" , assaiarƏ "provare, sopportare (dolori, disgrazie, ecc.)" , spruvarƏ "mettere alla prova" . Alla stessa epoca risalgono alcuni provenzalismi, fra cui cùjtƏ "pensiero, cura" , pisanzƏ "pietà, compassione" , attrabbuccarƏ "capovolgere, rovesciare" . Due voci penetrate probabilmente in epoca angioina sono tappinƏ "ciabatta" e 'ngialinirƏ" ingiallire; diventare pallido (per deperimento)" . Nel periodo aragonese (1442-1501) , a parte qualche raro prestito catalano (addunarƏ "accorgersi" , spagnàrƏ "temere, aver paura" , sirracchjƏ "saracco") , i nostri dialetti cominciano a subire l'egemonia dello spagnolo che va
 ormai, in concomitanza con l'inarrestabile ascesa politica della Castiglia e poi degli Asburgo, conquistando quel primato europeo che era stato della lingua francese. E' questo, pure, il periodo in cui hanno luogo i primi insediamenti di Albanesi. Questi, linguisticamente isolati, hanno quasi esclusivamente ricevuto dai dialetti romanzi con i quali sono venuti a contatto. Pure, qualche parola albanese, in questo secolare contatto, è penetrata nel coriglianese: cullacc
Ə "pane intrecciato, a forma di ciambella" , ruòjtƏ "l'ambiente, il luogo che si usa frequentare". L'ultimo grande fenomeno di "contatto" linguistico è stato, per il coriglianese, l'incontro con lo spagnolo. Gli ispanismi iberici, ancora usati da noi, toccano i settori più vari (danza, abbigliamento, vita sociale, e anche gli eventi spiccioli della vita quotidiana) : farigghjƏ "ampia e lunga sottoveste femminile" , cumprimentƏ "dono, regalo" , rașcunƏ "graffio", quatrigghjƏ "vivace danza in costume, a coppie, con molte figure" ; tra le voci di uso comune: 'ncialàrƏ "restare stupito; instupidire", scalunƏ "gradino", scamparƏ "cessar di piovere", abbușcàrƏ "procurarsi, rimediare (qualcosa)"; fra i termini del mondo rurale: ambratƏ "recinto di paletti e filo spinato" . Dopo la lunga egemonia dello spagnolo, bisogna attendere l'epoca post-unitaria e i primi decenni del nostro secolo per registrare due fatti di rilievo che, per i loro riflessi nel lessico, non si possono ignorare: il servizio militare nello stato unitario e l'emigrazione. Al primo sono dovuti, per un verso, la penetrazione, nella nostra come in tante altre parlate, di piemontesismi (come cicchetto, ramazza) , di voci romanesche (fasullo, muzzunaro) , e di altri dialettalismi di altre regioni, e anche di gergalismi di caserma (bersagliere "cicca" ) e postribolari; per un altro verso, e magari attraverso una scrittura sgangherata, il primo timido avvio a una sorta di italianizzazione popolareggiante del nostro dialetto. La lettera che segue è un esempio di questa lingua ormai nota come italiano popolare:

 

 "Massaua 9 febbraio 1885

 Mia Carissima Madre e Padre..  

Vengo a darvi notizia della mia buona salute e lo stesso spero della nostra Famiglia. Vi farò sapere che questi agenti di questo paese sono selvaggi sono neri come la pece uomini e dorme vanno tutti nudi e portano solamente una pelle di Crapa avanti li brigogne. Le donne portano una nello nel naso a destra solamente senprano Bovi che tencono la morsetto dintro il naso. Il caldo le potentissimo e si sta come vo idio Noi come siamo entrati in questo paese ci abiamo trovato molti Calabrisi ma nessuno del nostro paese, appena siamo arrivati in questo paese abiamo piandata la Bantiera Talliana e loro non anno detto niente finora appreso non zi sa speriamo che non fanno resistenza Poi avete vedere li capelli della testa come sono tutti ricci e poi una mità lanno versato intietro e laltra mità la tencono alzata; per pettino tencone una sticca di legno come il punciarillo de li asini. Nella faccia portano 6 punti tre a destra e tre a sinistra. Figurativi quanto sono brutti questi selvaggi Poi li uomini tencono molta gelosia delle donne si ponno accasare quanto li pare e così pure le donne; I soldati stanno finche si fanno vecchi. Dunque guardate bene: in questa parte la robba va molto cara Dunque il nostro viaggio e stato 19 giorni per mare e 3 giorni per terra, per mare abiamo avuto 3 giorni cattivi e li altri sono stati buonissimi. Poi in questo Paese sono tutti monti, Cara Madre non vi pigliate dispiacere colla Famiglia perche se idio ma destinato di morire in Nafrica morirò io tenco per mio conto S. Francesco di Padua; Vi prego di non piancere e mettere coraggio perche io sono nato per difentere la Patria. Spero di ritornare subbito immezzo la mia famiglia. Non altro che dirvi saluto la mia famiglia e tutti quelli che dimantano di me vi bacio la mano e sono, la direzione mia e così Soldato Alfonso Scarpello 4 regg. Bersagliere corpo (di spedizione) Assob "

(da II Popolano, 1885/n. 6)


 L'altro fatto importante è stato il flusso migratorio Italia-Americhe-Italia (in particolare, per quanto ci riguarda, quello da e per l'America del Sud) : carcariar
Ə "ridere sgangheratamente" , putapariò "peperoncino piccante" (dall'imprecazione puta que te pario "puttana che t'ha partorito" , rivolta contro il peperoncino) sono tra le voci importate a Corigliano dai 'miricani d'Argentina. A parte va considerato, nella storia del lessico coriglianese, l'influsso che vi ha esercitato il napoletano. Si può dire che quest'influsso (come si è già rilevato per il Meridione in generale) sia stato ininterrotto, così come è stato ininterrotto il rapporto istituzionale che ha legato i feudatari di Corigliano a Napoli, a partire dal sec. XIV. I segni vivi di questa "napoletanità" sono perfino nei toponimi urbani: Vasci, Ricella, Via Nova. Tra le parole di uso comune ricordiamo: guagnunƏ "ragazzo" , ciuccƏ, spìngula, latuornƏ "lamento lungo e noioso" , sìsichƏ (nap. sìseto) "suscettibile, schizzinoso" , strilliccàrƏ "agghindare" carusiellƏ "salvadanaio" . Tra le locuzioni e i modi di dire: pizzarrisƏ "sorriso", muort'acisƏ (si noti che il coriglianese non conosce la forma uccidere, bensì ammazzare), jittar'acitƏ"faticare, stentare, soffrire", mazz'e-ppanellƏ fan'i-figghja-bbellƏ, pan'a-bbìnnirƏ "pane non fatto in casa" . Nel lessico degli appassionati nostrani di musica tradizionale (dei più anziani, s'intende) sopravvivono ancora, come esili reminiscenze, due napoletanismi, caviola e aria-nova. Il primo è un relitto dell'espressione "farsa cavajola" (cioè di Cava dei Tirreni) , genere misto di musica e recitazione, in voga a Napoli dal '500 in poi; l'altro indicava una specie di "villanella" dai contenuti più licenziosi, una forma di quelle "canzonette canailles" che si cantarono a Napoli dal '600 in avanti. Nel nostro secolo, anzi negli ultimi decenni, la capillare diffusione dei mass-media, la grande mobilità sociale, l'universale estensione della scolarizzazione hanno accelerato notevolmente il processo di italianizzazione del dialetto, che va fatalmente agonizzando. Il ricco patrimonio del nostro dialetto - di cui qui ho presentato qualche saggio e illustrato qualche aspetto - oggi si è assottigliato in misura e in maniera gravi. Il fatto stesso che ne parliamo in termini storici e "commemorativi" è un segno del trapasso. Nessuno, oggi, usa più, e pochi intendono, parole come acchjsciàta, fròllirƏ, varrƏ-varrƏ, ddaguscƏ e tante altre. Diceva bene l'Alessio: "ogni vecchio che muore porta con sé nella tomba voci o espressioni che i giovani ormai a stento intendevano e che sono, per questo, molto spesso, irrimediabilmente perdute.

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