'A Purtella

di Antonio Russo

'U San GiuvannƏ 

II legame tra due famiglie, nato da un battesimo, era considerato indissolubile oltre che sacro e comportava un rispetto assoluto ppi ru San GiuvannƏ ed un certo numero di complicate ed a prima vista oscure cerimonie che venivano scrupolosamente osservate e rispettate. Tra queste ce n'era una, a mio avviso, semplice ma molto significativa: se una comare passava per la strada 'i ru San GiuvannƏ, era d'obbligo, perché l'usanza (scaturita dalla natura del vincolo) lo imponeva, una breve visita alla sua casa, e se la comare era uscita, depositava davanti alla porta una pietra. La comare rientrando capiva, vedendo il segno lasciato, che durante la sua assenza aveva ricevuto la visita 'i ra cummàrƏ, e faceva di tutto per sapere se si trattava di una semplice visita di passaggio e quindi di cortesia oppure di una visita di natura diversa (se, cioè, la comare aveva bisogno di qualcosa). Quando il comaraggio era incrociato, il San Giovanni diventava frundàlƏ ed il vincolo ancora più stretto e doppiamente sacro;appunto perciò, sempre secondo la tradizione, solo a loro era consentito,incontrandosi nell'altra vita, scambiare poche parole di saluto.

'A grazzija a Ssand'AndonijƏ 

Iniziando la tredicina a S. Antonio, una donna che voleva chiedere una grazia e sapere se il santo di Padova avrebbe accolto la sua richiesta, non doveva fare altro che cercare tredici bastoncini e tredici nastrini lunghi una ventina di centimetri. Nel nastrino, zagarella, piegato in due in modo da formare, nella parte superiore un occhiello, veniva infilato un bastoncino, scuorpiricchjƏ, attorno al quale venivano poi avvolte insieme le due parti del nastrino. Compiuto nella massima segretezza e religiosità questa operazione per tutti e tredici i bastoncini, la donna li conservava gelosamente in un luogo nascosto e sicuro. Finita 'a tririnƏ, la donna andava a riprendere 'i scuorpiricchjƏ, afferrava i due estremi del nastrino e tirava. Se il nastrino si liberava in almeno uno dei bastoncini, significava che Santo Antonio aveva accolto la richiesta della donna ed avrebbe quindi concesso la grazia. Se invece 'a zagarella rimaneva impigliata in tutti i bastoncini, significava che la donna non aveva pregato abbastanza o lo aveva fatto con poca fede (con la bocca e non con il cuore) e pertanto la grazia richiesta non le sarebbe stata concessa. E' interessante notare come in questa ed in altre tradizioni si mescolasse, con ingenua credenza popolare, il sacro con il profano.

U trisorƏ 'i Sanda Catrina 

Un folletto, sotto sembianze diverse, ci viene in sogno e ci dice di andare a mezzanotte sulla collinetta a ridosso del fiume Coriglianeto, dove si trova la piccola cappella dedicata a Santa Caterina. Una volta sul posto, dobbiamo cercare una grossa pietra piatta e liscia e là vicino, allo scoccare della mezzanotte, dobbiamo sbucciare e mangiare con la sola mano sinistra una melagrana senza far cadere a terra uno solo dei suoi chicchi rossi. Se siamo stati scelti dal folletto e se siamo riusciti nella non facile impresa, davanti ai nostri occhi si aprirà il terreno e da questo spacco uscirà una magnifica jocca 'i gora, chioccia d'oro, con dodici pullicinƏ, pulcini, anch'essi d'oro. Dimenticavo un particolare molto importante: durante tutto il tempo che occorre per sbucciare e mangiare la melagrana non dobbiamo mai pensare, nemmeno per un istante, al tesoro altrimenti, nonostante il nostro coraggio e la nostra abilità, dalla crepa del terreno non usciranno i pennuti d'oro ed il tesoro 'i Sanda Catrinacontinuerà a rimanere là dove, secondo la tradizione popolare, si trova da molti secoli.(Una semplice ma sentita festa religiosa,messa e spari di mortaretti, viene organizzata nella chiesetta di Santa Caterina il 29 aprile dalle donne dei vicinati sovrastanti, mantenendo, così, ancora viva un'antica tradizione.)

I tre fàfƏ 

La notte della vigilia dell'Epifania, prima di andare a letto, si preperavano tre fave secche: una col guscio, una senza guscio ed una col guscio tolto a metà. Poi si mettevano nel pugno chiuso, si agitava il pugno per mischiarle e senza malizia si lasciavano cadere con delicatezza sotto il cuscino e ciò per evitare di intuire la disposizione che le fave avrebbero assunto. Si recitavano, poi, delle preghiere al Bambino Gesù e dopo di queste la filastrocca:

 

Sanda nottƏ e Ssand'AlijƏ

e ssanda nottƏ 'i ra BbifanijƏ,

'nzuonnƏ mi vinissƏ ra furtuna mijƏ;

'nzuonnƏ vinissƏ e mmi vinissƏ a addirƏ

cumƏ ghe st'annƏ 'a sciortƏ mijƏ

 

E si andava a letto. Il mattino seguente, appena svegli, si infilava la mano sotto il cuscino e si prendeva la prima fava che capitava. Se questa era vistuta voleva dire che si era fortunati per tutto l'anno; se era menza vistuta, si era fortunati ma non tanto; se, infine, la fava era spugghjàtƏ, la dea bendata per quell'anno aveva deciso di rivolgere ad altri i suoi favori e per niente scoraggiati si pensava alla notte dell'Epifania dell'anno successivo con la convinzione che le cose sarebbero andate certamente meglio!

L'agùriƏ 'i ra casƏ 

In ogni vecchia casa vi era uno spirito buono chiamato confidenzialmente ed affettuosamente agùrƏ 'i ra casƏ. Veniva considerato a tutti gli effetti il padrone di casa e come tale gli si dovevano il massimo rispetto e la massima considerazione. Infatti, le vigilie di tutte le più importanti feste religiose: Immacolata, Santa Lucia, Natale, Epifania, in ogni famiglia, dopo cenato, si lasciava la tavola apparecchiata e provvista di tutte le pietanze servite. Non si doveva assolutamente sparecchiare, perché il farlo sarebbe stato un malaugurio per la casa ed un grave affronto al secolare ospite.Quando si preparavano i tradizionali dolci di Pasqua, il primo pisatùrƏ, la prima cullùrƏ, la prima cullurella ccu ri pàssulƏ venivano destinati a ll'agùriƏ 'i ra casa; quando un importante o un lieto evento imponeva la frittura, i primi culluriellƏ venivano messi in un piatto e destinati a lui o a lei, poiché l’augùriƏ 'i ra casƏ poteva essere maschio: 'nu monachiellƏ, 'nu viecchiariellƏ, 'nu guirrierƏ; oppure una femmina: 'n'arbanisa, 'na pacchiàna, 'na monachella. Poiché l'agùriƏ faceva parte della famiglia, quando si cambiava casa si portava via con una misteriosa e a suo modo suggestiva cerimonia. Trasportati tutti i mobili e le altre suppellettili, la sera tardi si ritornava nella casa che si stava per lasciare, si accendeva una piccola lucerna ad olio (o un pezzo di candela) e si metteva in un paniere. Poi si giravano le stanze, si toglieva un pezzo di mattone dal focolare per portarlo e sistemarlo in quello della nuova casa e si usciva in religioso silenzio sicuri che l'agùriƏ 'i ra casƏ avrebbe seguito quella luce fioca che traspariva dal paniere. Durante il tragitto la gente del vicinato, a conoscenza della cerimonia, rimaneva chiusa in casa e chi stava in quel momento rincasando, passava in silenzio per non disturbare quella semplice ma significativa processione. Solo dopo aver portato a termine questo rituale si andava a consegnare la chiave al padrone di casa o al nuovo inquilino. Il nostro singolare personaggio, sempre secondo la tradizione, non era solito mostrarsi, ma in particolari circostanze dava segni tangibili della sua presenza e faceva sentire anche la sua voce. E' molto importante sottolineare che lo spirito buono nu' 'ppurtavƏ spagna, cioè non faceva paura, perché non era un comune spirito, ma solamente l'agùriƏ 'i ra casƏ

'U vutƏ 'i ri virginellƏ 

Sicuro sollievo spirituale e rifugio di speranza per le madri e le mogli che avevano i loro cari colpiti da improvvise malattie o lontani da casa per motivi diversi era il ricorso alla preghiera. Sovente a questa si univa un voto, il quale, nella maggior parte dei casi, era proporzionato all'evento che lo aveva sollecitato. Così, se un marito emigrato in Argentina per lavoro non scriveva più perché ammalato o, come spesso accadeva, perché si era accasato con un'altra donna, se un figlio o un marito era al fronte e non dava notizie, le madri o le mogli ricorrevano senza altro al voto. Il voto poteva riguardare aspetti intimi della persona che lo formulava (rinunce: non mangiare frutta o carne in determinati giorni della settimana per tutta la vita; sacrifici: andare a piedi nudi alla Madonna della Schiavonea o in ginocchio dalla porta della chiesa parrocchiale all'altare) oppure consistere in offerte di oggetti d'oro alla Madonna o di altro genere a gente povera e bisognosa. Tra le offerte non materiali vi era quella delle dieci verginelle fatta alla Madonna. La donna che per un motivo molto serio aveva deciso per questo voto, si metteva in giro nel vicinato (ed anche fuori di esso) alla ricerca di dieci bambine di età compresa tra gli otto e gli undici anni. Le amiche o le comari, conosciuto il motivo del voto, concedevano con tutto il cuore e ccu cciendƏ mànƏ le loro figlie e, se ne avevano la possibilità finanziaria, compravano alle proprie figlie anche il vestito bianco. Se ciò, sempre per motivi finanziari, non era possibile, avrebbe dovuto provvedervi la donna che aveva fatto il voto. Le dieci bambine vestite di bianco venivano accompagnate dalla stessa donna alla chiesa o al santuario dove era la Madonna destinataria dell'offerta. Le mete più frequenti erano la Madonna del Carmine o la Madonna della Schiavonea. Giunte a destinazione, le verginelle si disponevano su due file in mezzo alle quali si metteva la donna del voto. Così disposte, entravano in chiesa e si fermavano davanti all'altare maggiore. La donna, dopo aver mostrato alla Madonna l'offerta (le verginelle), esponeva ad alta voce e piangendo il suo caso, supplicava la grazia e recitava insieme alle dieci verginelle alcune preghiere.Terminato questo rito dell'offerta, le bambine deponevano ai piedi dell'altare fasci di fiori ed insieme alla donna uscivano e ritornavano a casa. La donna prima di congedare le bambine doveva offrire loro da mangiare.Così, con quest'ultimo adempimento, necessario e secondo la tradizione determinante per la concessione della grazia richiesta, si chiudeva il complesso rituale del voto delle dieci verginelle.

'A spàscinƏ 

Se il bambino manifesta un improvviso intontimento, se è colpito da inspiegabile febbre accompagnata da conati di vomito e da sbadigli frequenti ed insistenti, se gli occhietti del piccolo sono lucidi, non ci sono dubbi: qualche sguardo invidioso e maligno ha affascinata 'a criaturƏ. Bisogna, quindi, chiamare subito una donna -o addirittura tre se l'affascino è forte - per fare 'a spascinƏ, per allontanare, cioè, il malocchio. Con l'arrivo della donna iniziata e capace quindi di «esorcizzare», incomincia il rito dello sfascino. Ella fa tre segni di croce sulla fronte e due sulla testa o sugli occhi del bambino affascinato e mentalmente recita per tre volte la prima parte della formula rituale senza smettere per un solo istante di sbadigliare (se gli sbadigli sono intensi e prolungati è buon segno: 'a spascinƏ fa effetto).

 

ForƏ maluocchjƏ! ForƏ maluocchjƏ!

GgiojƏ 'i ru corƏ, t'hànƏ affascinatƏ!

ChinƏ t'ha 'ffascindtƏ

e ru corƏ s'ha 'lligràtƏ;

e ru corƏ ccu ra mendƏ

fujƏ affascinƏ c'un è nnendƏ.

Ppi cquandƏ petrƏ su 'a mmàrƏ

tandƏ pitràtƏ ti vuojƏ tiràrƏ.

 

A questo punto la donna si fa portare una bacinella d'acqua nella quale mette, con la mano sinistra, un numero dispari di pizzichi di sale (3, 5, 7) e mentre fa ciò, sempre in silenzio, recita la seconda parte della formula.

 

MminàjitƏ mmalirittƏ

va ti jettƏ 'ndra màrƏ

ghe ccarnƏ bbinirittƏ

e nnun tienƏ cchi cci farƏ.

 

Versa, poi, dell'aceto nell'acqua facendo in modo che l'aceto cadendo descriva tre croci. Con quest'acqua la donna lava la faccia del bambino con la mano sinistra, sempre nello stesso verso - dalla parte inferiore alla superiore - e recita la terza parte della formula per tre volte.

 

A nnumƏ 'i ru PatrƏ,

a nnumƏ 'i ru FigghjƏ

a nnumƏ 'i ru SpiritƏ... SondƏ,

c'a 'ffascinƏ 'i VicinzullƏ

nu' gghissƏ cchjù avandƏ.

 

Quest'acqua viene buttata in mezzo alla strada, possibilmente ad un crocevia. Subito dopo, la madre del bambino sta dietro alla porta socchiusa aspettando la persona che per prima passerà per il luogo ove è stata buttata l'acqua, al fine di accertare se ad affascinare il suo piccino è stato un uomo o una donna. Le formule rituali da me riportate sono le più popolari; ne esistono, però, molte altre versioni che le donne sono propense ad insegnare soltanto il 24 dicembre alle ore 24 e ciò per evitare di perdere 'a spascinƏ.

'I muortƏ 

Fino a non molti anni fa, i rituali funebri erano  numerosi, complessi e rigidi, ma strettamente  connessi col vincolo di parentela tra il morto e la  famiglia. Un solo rituale aveva carattere generale  e prescindeva da questo vincolo, infatti appena  un uomo o una donna esalava l’ultimo respiro, un  familiare accendeva un lumino ad olio e lo posava  sulla parte esterna del davanzale della finestra:  quella luce fioca doveva rischiarare il cammino a  quell’anima che, abbandonato il corpo, si accingeva a raggiungere l’aldilà. Se il morto era capofamiglia, la vedova si toglieva gli ori, si vestiva di  nero, si scioglieva i capelli e, seduta accanto al  letto prima e alla bara poi, iniziava il lamento funebre con il quale commiserava se stessa per la  grave ed irreparabile perdita, ricordava le virtù  dell’estinto e rievocava i momenti più felici della  loro unione. La stessa nenia, con delle varianti,  intonavano a turno i parenti più stretti e, alcune  volte, delle donne a pagamento o anche delle donne del vicinato in segno di affetto o di riconoscenza. Il corteo funebre si apriva con il gonfalone della confraternita religiosa della quale il defunto da  vivo aveva fatto parte; seguivano i confratelli disposti su due file distanziate; seguivano poi le corone di fiori portate da ragazzi, la banda musicale,  condizioni economiche permettendo, ed il prete.  Dietro il feretro la vedova continuava l’accorata  lamentazione affiancata dalle sue sorelle e da  quelle del marito, dalle cugine di vario grado e  dietro, tutte le amiche e le conoscenti. Il corteo  funebre terminava all’inizio della strada di Rossano, all’incrocio con quella che porta alla chiesa di  S. Antonio. A quest’incrocio, i parenti più stretti  (ramo maschile), dopo aver dato l’estremo saluto  al feretro, si disponevano in riga e gli intervenuti  si licinziàvini con la formula cient’anni ’i bbona  saluta. La vedova, dopo tre giorni di lutto, era  lasciata sola con il suo dolore. Per una settimana  non riassettava le stanze, non accendeva il focolare e non si coricava nel letto matrimoniale che rimaneva disfatto. Al mangiare provvedevano a  turno i parenti o le amiche del vicinato. Dopo il  settimo giorno, se c’erano figli, riprendeva a cucinare, ma continuava a non coricarsi al letto matrimoniale e a non aprire la porta, se abitava in  un basso, e le ante delle finestre. Dopo il trigesimo, apriva uno spiraglio della porta e delle finestre, aggiustava il letto per coricarvisi, ma continuava a non uscire da casa e a portare sulla testa  ‘na tavagghiula nìvura. Dopo l’anno apriva porte  e finestre ed incominciava ad uscire, ma solo per  delle ragioni molto serie ed urgenti. Se i figli erano  già grandi e sposati, il lutto continuava a portarlo  per tutto il resto della sua vita; in caso contrario,  lo portava per un numero variabile di anni, ma  comunque non mai inferiore a cinque. Quando  invece moriva la moglie, il marito non si faceva la  barba per una settimana, portava il lutto per tre  anni e per tutto questo tempo indossava ‘nu  cammisini nìvuri (un colletto con sparato nero che  si legava addietro alle spalle con due fettucce). Il  marito, rimasto vedovo, veniva chiamato cattivi.    

'I bbonƏ festƏ

L’inizio del mese di dicembre si festeggiava in ogni famiglia con la frittura ‘i ri cullurielli, frittura che si ripeteva qualche giorno prima di Natale, insieme a quella ‘i ri crùstuli, ‘i ra pastacumpetta e dd’a giurgiulena. Il primo cullirielli che veniva fritto aveva la forma ‘i ru Bbomminielli ed era destinato, annumati, in segno di augurio di buona salute, al capo di casa e solo questi poteva e doveva mangiarlo. Nella stessa padella venivano fritti ‘i cullurielli destinati all’agùri ‘i ra casa... Il 12 dicembre, vigilia di Santa Lucia, si mangiano 13 qualità di frutta, ‘i tririci cosi, e si prepara ‘u rani vulluti, grano fatto ammollire in acqua per ventiquattro ore, poi, bollito e condito, appena raffreddato, ccu ru meli ‘i fichi... A capodanno i ragazzi si appendevano al collo un piccolo sacchetto di stoffa ed andavano a chiedere ‘a strina al padrino, ai parenti ed agli amici di famiglia, recitando una delle filastrocche: Bbonnì, bbonnì, bbonanni/ fammi ’a strina ch’è capiddanni [oppure] Primi ’i misi, primi ’i l’anni/ fammi ’a strina ch’è capiddanni... La sera dell’Epifania, la chiesa di S. Maria Maggiore, festeggiava le luminarie rinnovando un antico rito greco. La fiaccolata si muoveva dalla chiesa e girava tutto il paese. La fiaccola che i tedofori (jaccari) portavano in mano era fatta con un pezzo di legno della grossezza di un manico di scopa alla cui sommità era legato, con un fil di ferro, ’nu mazzi ’i rera. 

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