Corigliano Medievale

di Luigi De Luca

CAPITOLO I


IL NOME "CORIGLIANO"

L'attestazione più antica, di cui disponiamo, del nome  "Corigliano" è in un privilegio papale del 2 gennaio 1113,concesso alla chiesa di S. Maria di Valle Giosafat. Nel documento si fa riferimento al diritto, riconosciuto a quella chiesa, di tenere "gripo uno... in mari Sancii Mauri et  CORILIANI". La stessa forma (CORILIANI/CORILIANUM) si ritrova in documenti fridericiani del 1239-12403 e nella decima dei secoli XIII-XIV della diocesi di Rossano. Troviamo, invece, la forma "TORILLIANA" (ove la T al posto di C è dovuta a incertezza della grafìa) nella "carta rossanese" in latino che discende da un originale greco del 1114. Le varianti rimandano a una forma latina originaria "CORELLIANUM/A (cioè, PRAEDIUM CORELLIANUM, VILLA CORELLIANA: "podere di Corellio, villa di Corellio") che è uno dei tanti nomi prediali di cui è così ricca la nostra toponomastica di origine latina. Sull'epoca in cui potè costituirsi un praedium corellianum là dove oggi è Corigliano Calabro, ci offrono qualche vago indizio le scarne notizie che accompagnano la comparsa e l'emergere della GENS CORELLIA nell'onomastica latina. Si tratta di una famiglia di rango equestre proveniente da Ateste (ossia Este in provincia di Padova), la cui prima notizia si riferisce al I secolo dopo Cristo. È Plinio il Vecchio che ci informa: "Ateste patria fuit... Corellii equitis". Lo stesso Plinio ci fa sapere che questo Corellio cavaliere possedeva terre in Campania. Plinio il Giovane, a sua volta, ci tramanda il ricordo di un Corellio Rufo, senatore e console nel 78, che, sotto l'imperatore Nerva, fece parte di una Commissione "emendis dividendisque  agris". Non ci sembra azzardato fissare come termine a quo della  nascita del nostro toponimo, [PRAEDIUM] CORELLIANUM, il I secolo dopo Cristo: l'epoca, cioè, in cui i quadri dirigenti degli apparati amministrativi, consolidatisi lungo le linee tracciate da Augusto e Tiberio, raggiunsero la loro massima potenza, anche fondiaria, prima della grande crisi del III secolo

 

CAPITOLO II


DAL PRAEDIUM AL BORGO MEDIOEVALE

Sul PRAEDIUM CORELLIANUM non abbiamo alcuna notizia. L'unico segno che ci rende certi della sua esistenza e della sua continuità fino alla trasformazione in borgo in un momento che preciseremo, è il nome di indubitabile origine latina. Non è lecito far supposizioni sul lungo arco di secoli che precedono la nascita del borgo. Possiamo, bensì, conformarci strettamente — anche per Corigliano — a quanto risulta dalla ricerca archeologica sul territorio della piana di Sibari e, in particolare, della zona a sud del Crati, che ha uno dei suoi limiti meridionali nelle immediate vicinanze del nostro luogo. Con riferimento all'epoca romana (all'epoca, cioè, della colonizzazione romana della Calabria), "la dislocazione degli insediamenti, che dovrebbero per lo più individuarsi in fattorie o piccoli centri agricoli, risente della difficile adattabilità del terreno: si hanno infatti vari raggruppamenti che tendono ad avvicinarsi a direttrici viarie che si dipartono dalla via parallela alla litoranea e, servendosi dei crinali collinosi, si inerpicano sulle alture". Quei raggruppamenti dovevano gravitare sulle "arterie che, dalla grande Sila a N di Cosenza, conducevano al mare" e, per quel che riguarda il nostro caso, sull'arteria che passava per la località che ancora oggi si chiama S. Mauro. Gli insediamenti relativi alla zona che ci riguarda, furono caratterizzati da una "fitta intensità di abitato, ma sparpagliato in piccole unità costituite con tutta probabilità da singoli casali" rispetto "agli aggregati di pianura e delle colline di Cassano, Lauropoli e Francavilla" ove l'insediamento prevalente è quello concentrato in "grossi villaggi". Legittimamente il Quilici si chiede se questa differenza nel tipo di distribuzione insediativa non sia dovuta a una cultura, a una "etnicità diversa". E conclude osservando che "nel tipo di insediamento «frazionato» a singoli casali" si potrebbe riconoscere "l'opera derivata dalla colonizzazione romana di queste contrade, con le deduzioni di Interamnium...e di Thurii con le colline a sud dell'asse Crati-Coselle. Tutto l'ampio arco dei grandi villaggi rurali invece denuncerebbe il sopravvivere, in età romana, del tipo di insediamento e della condizione etnica e sociale di queste contrade in età ellenistica pre-romana". In parole povere, il praedium corellianum, ricadendo nell'area di colonizzazione romana, sarebbe stato sede di insediamento «frazionato», sparpagliato a singoli casali. È possibile che questo status insediativo abbia subito qualche modifica nel tipo di distribuzione (nel senso di una maggiore concentrazione) allorché, tra la fine del V secolo e gli inizi del VI, gli abitanti di Thurii prendono ad abbandonare in modo "lento e sistematico" la città, divenuta molto probabilmente malarica e malsana, "per le zone di collina, dove ancora oggi sorgono i paesi di Cassano, Corigliano e Rossano". E possibile, quindi, che in quell'epoca, si sia costituito sul nostro praedium un piccolo nucleo rurale, che più tardi l'apporto più numeroso di nuovi gruppi avrebbe ampliato fino alla dimensione del borgo. Certo, di Corigliano, come BURGUS prima e come TERRA o CASTRUM poi, non v'è traccia né indizio — neppure indiretti — fino al sec. X. Possiamo solo immaginare una lenta evoluzione del praedium e del suo esiguo abitato

 

CAPITOLO III


IPOTESI SULL'ORIGINE DEL BORGO MEDIEVALE

II praedium corellianum assume "forma urbana" nel periodo compreso fra il 950 e il 980. Questa ipotesi mette d'accordo il dato della tradizione con l'evidenza archeologica del territorio e con gli elementi che si ricavano dagli eventi di storia politica, ecclesiastica e religiosa della Calabria jonica centro-settentrionale. È opportuno, perciò, indugiare sui singoli aspetti di tale concordanza. Vedremo così anche ridursi, come terminus a qua, quell'arco di trenta anni nei limiti di uno solo, il 977, in quanto probabile data cruciale dell'evento che consideriamo. Nell'indagine ci sarà di non poco aiuto anche — last but not least — la toponomastica.

1. LA TRADIZIONE

Un punto, su cui c'è completo accordo fra gli studiosi e cronisti locali, è questo: Corigliano fu fondata o rifondata dai profughi di un OPPIDUM ("piccola città fortificata") della pianura, S. Mauro, devastato dai Saraceni. La datazione del fatto nelle opere di questi scrittori oscilla fra il 950 e il 953. In realtà, gli elementi addotti a sostegno di queste date sono in certo senso arbitrari in quanto discendono dalla contaminazione di due passi del Barrio. Ecco i due brani, appartenenti a capitoli diversi e assai distanti fra loro (rispettivamente: lib. I, cap. XIX, e lib V, cap. XVI): «Anno a Virgineo partu DCCCCL Graecì Agarenos in Ita liam arcesserunt, qui Calabriam, Lucaniam et Apuliam vastaverunt". «Inter Coriolanum et Thurios Maurum civitas erat, quae interiit». Il Barrio accenna, dunque, alla distruzione di S. Mauro, ma dell'evento non dice né il come né il quando. Non si può, tuttavia, fare a meno di rilevare che la notizia riferita dagli scrittori locali, per quanto arbitraria nel modo in cui è attinta, sia sostanzialmente accettabile. Infatti, S. Mauro, che — come vedremo — non potè essere fondata prima del sec. X, nel corso dello stesso secolo andò soggetta certamente alle incursioni dei Saraceni. Il Grillo, che si mostra il più informato tra quegli scrittori, pone l'incursione devastatrice al 952. Egli s'appoggia alle fonti migliori, quelle ritenute "canoniche" per questo periodo; ma, la dipendenza da un Barrio "manipolato" gli fa utilizzare, di quelle fonti, soltanto le notizie relative agli anni 951-9527, ove si accenna ad attacchi saraceni nella zona del Mercurio, a Cassano e nei dintorni di Cassano. Vedremo come la lettura non "condizionata", e perciò non limitata, di quelle fonti (a parte i dati offerti dalla ricerca archeologica, che, nel caso, non possono essere puntualmente precisi), orienti verso la datazione del 977.

2.STORIA, ARCHEOLOGIA, TOPONOMASTICA

Nel settembre del 1089 il papa Urbano II riunì un sinodo di vescovi a Melfi. Qui, Romano, arcivescovo di Rossano, dopo due secoli di ubbidienza da parte della sua diocesi al patriarcato di Costantinopoli, fece atto di sottomissione alla Chiesa romana. Rossano conserverà, tuttavia, ancora per lungo tempo il rito greco. Abbiamo riferito il fatto, perché il 1089, segnando il passaggio della Chiesa rossanese all'ubbidienza romana, segna anche il momento dal quale in avanti sul nostro argomento esiste una sufficiente messe di documenti indiretti e diretti. Il vuoto documentale dell'epoca precedente potrebbe essere, forse, in parte colmato esplorando i fondi d'archivio del patriarcato di Costantinopoli. Per tale epoca, che va dalla riconquista bizantina della Calabria (885-886) al sinodo di Melfi (1089), ci serviremo di fonti, studi e ricerche, antichi e moderni (che indicheremo di volta in volta), sia di storia generale sia di storia speciale sia di onomastica e toponomastica sia, infine, di archeologia. Non  trascureremo, ovviamente, notizie e documenti che, anche se  datati posteriormente al 1089, tornino utili per qualche riferimento al passato di quell'anno.    La più antica attestazione, da noi reperita, relativa a un "lenimento Sancii Mauri" è in una carta del settembre 1089 10. Si tratta di un documento pontificio in cui si conferma all'abbazia di Cava (presso Salerno) il possesso dei monasteri di S. Adriano e dei SS. Cosma e Damiano, siti nel territorio di S. Mauro. Più precisa, riguardo alla "forma urbana" del nostro centro (S. Mauro), è la testimonianza di Goffredo Malaterra — lo storico del conte normanno Ruggero I — che, narrando i fatti accaduti in Val di Grati negli anni 1094-1095, parla di un "CASTRUM, quod SANCTI MAURI, dicitur" È probabile che il borgo sia sorto, al principio del sec. X, attorno a un oratorio o a una cappella intitolata appunto a S. Mauro. Di questa cappella "Sancti Mauri, quae est apud Rossanum" si fa menzione in un breve di papa Alessandro III del 30 dicembre 1174, che conferma la donazione della cappella, fatta dal re Guglielmo II, all'abbazia benedettina di S. Maria Nuova in Monreale (fondata, appunto in quell'anno, dal re normanno). Tale donazione, come quella di S. Adriano all'abbazia di Cava e come tante altre simili, s'inquadra nel disegno, perseguito dai re normanni, e specialmente dai due Guglielmi, di progressiva latinizzazione delle chiese del regno di Sicilia e quindi, di smembramento o di riduzione della potenza delle diocesi e delle abbazie di rito greco. Con ciò vogliamo dire che la cappella di S. Mauro, sulla cui storia ecclesiastica nulla ci è stato dato di sapere, fu di origine certamente bizantina. Non è ozioso, pertanto, soffermarci un po' sulle ragioni che sorreggono tale origine, dal momento che alla storia del "castrum S. Mauri" è strettamente connessa quella di Corigliano. La questione che emerge per prima, riguarda l'identità di S. Mauro, il santo del castrum in argomento, e i modi e le vie di diffusione del suo culto: compito non del tutto agevole,se si pensa che la Bibliotheca Sanctorum14 registra ben 15 volte il nome Mauro e il Martirologio Romano accoglie 10 santi con questo nome. Ora, procedendo per successive esclusioni sulla base di  criteri ed elementi obiettivi (che qui non è il caso di sciorinare per non affastellare il discorso), possiamo ridurre il numero di questi santi a due: S. Mauro, abate di Glanfeuil (Gallia), discepolo di S. Benedetto, morto nel 584; S. Mauro martire, vescovo e patrono di Parenzo (Istria), vissuto nel IV secolo. Non v'è alcuna prova o indizio a favore del S. Mauro benedettino. È ben vero che il suo culto ebbe qualche diffusione nell'"alta" Italia meridionale e fino alla Lucania (come, per es., a S. Mauro Cilento e a S. Mauro Forte), ma si tratta di irradiazioni provenienti da Montecassino, che non giunsero a 'sfondare" mai — almeno fino alla conquista normanna — la cortina di consolidata grecita, o meglio bizantinità, della 'bassa" Italia meridionale e, particolarmente, della diocesi di Rossano. Ricordiamo che la nostra indagine si riferisce al secolo X. Qualcuno potrebbe invocare il presunto viaggio in Calabria di S. Placido (anch'egli discepolo di S. Benedetto, vissuto pure nel secolo VI). Ma è stato ormai accertato che quel viaggio è semplicemente una pia leggenda Il primo insediamento benedettino di cui si ha notizia, nella diocesi di Rossano, è l'abbazia di S. Maria di Camigliano,  fondata da Roberto il Guiscardo intorno al 1070 in territorio di Tarsia Una qualsiasi penetrazione o irradiazione di monachesimo latino o di culto di santi esclusivamente latini nella diocesi di Rossano prima dell'arrivo dei Normanni non è ipotizzabile. La forte e profonda bizantinizzazione del territorio della diocesi rossanese ha lasciato numerosi e vari segni che suffragono "ad abundàntiam" quanto si sa dalla storia politica ed ecclesiastica di quell'epoca. Sappiamo, per es., che, fin dai primi del sec. X, la Calabria fu percorsa in tutti i sensi da correnti monastiche "bizantine" provenienti dalla Sicilia e dalla Terra d'Otranto. Queste correnti disseminarono di cappelle, oratori, eremi e cenobi la nostra regione, già organizzata in provincia ecclesiastica soggetta al patriarcato di Costantinopoli fin dal 750 circa, esclusi naturalmente i territori calabresi compresi nel ducato longobardo di Benevento. Sappiamo, inoltre, che il processo di bizantinizzazione si intensificò notevolmente con la creazione delle diocesi di Rossano, di S. Severina e altre, in seguito alla riconquista bizantina della Calabria (885-890)18. Ma, per quel che ci riguarda, occorre rilevare soprattutto che, in conseguenza della pene- I razione longobarda, nel sec. Vili, fin nella Valle del Grati, si creò nella regione "una duplice frattura: tra l'alta Clabria da una parte, e la media e bassa dall'altra, ed isolando nel contempo Rossano e S. Severina che furono legate a Tarante, o meglio, a Gallipoli". Questo rapporto Rossano-S. Severina-Gallipoli, che fu vivo e intenso per tutto il secolo X e oltre, con la circolazione e lo scambio di persone idee usanze e tradizioni, rappresenta il quadro in cui si inscrive l'origine della cappella e del castrum di S. Mauro. A questo punto ci pare superfluo osservare che il nostro santo non può essere altri che il S. Mauro di Parenzo, il cui culto dall'Istria si era diffuso attraverso l'Adriatico nelle Puglie, particolarmente a Bisceglie e a Gallipoli20. Da quest'ultima città, presso la quale sorse un monastero "bizantino" di S. Mauro, il culto del santo approdò, quindi, nella piana di Sibari, là dove ancora oggi esiste la contrada S. Mauro. Questa migrazione di culto avvenne molto probabilmente entro il primo quarto del sec. X. La presenza del nostro santo nel triangolo Rossano-S. Severina-Gallipoli trova conferma in altri riscontri documentali. Nel capitolo XII, "Intorno alle reliquie", del tipico del Patire si da notizia delle reliquie dei santi venerati in quel monastero. "Le notizie sono registrate in ordine cronologico dal 1109 al 1303…". Ecco quelle che ci riguardano: «Nel maggio di S. Mauro ... Nel Synaxar. Costant. (ed. Delehaye) al primo maggio i Synaxaria selecta hanno le varianti TOV òiyiov fjiOipTVpos (o iepo/1.) Mcwpot; Nel tipico del Patire c'è ...TOV Tlpo<prJTOv lepe^Cov KOÌI TOV àyiov lepo/taprupos Maupou...». Ancora oggi, nel calendario "bizantino" dell'abbazia italo-greca di Grottaferrata, al 1° maggio sono registrati S. Geremia profeta e S. Mauro martire. Fra le concessioni di Federico II all'abbazia di S. Maria di Corazzo (Carlopoli), a. 1225, v'è un' "Ecclesiam… Sancti Mauri cum omnibus possessionibus". Si tratta della chiesetta — sita in diocesi di S. Severina -attorno alla quale sorgerà S. Mauro Marchesato. L'origine 'bizantina" di questa chiesa è provata dal fatto che, ancora lei 1310, il responsabile di essa, un certo "presbiter" Nicolaus, porta il titolo, squisitamente greco, di prothopapa. Ed ora, qualche parola sui segni attuali del nostro passato "bizantino". Si tratta naturalmente di una scelta di segni: di quelli che servono al nostro argomento in quanto lo corroborino  nello spazio (si riferiscano alla zona geografica ov'è la contrada S. Mauro) e nel tempo (siano coevi col nostro toponimo). Innanzitutto, la nutrita serie degli agiotoponimi. Sono nomi di santi il cui culto si diffuse, per lo più, dal nostro prossimo Oriente (Istria, Dalmazia, Epiro, Grecia) al seguito delle armate del generale Niceforo Foca e nel corso della riorganizzazione  politica ed ecclesiastica della Calabria. Qualcuno di questi santi era probabilmente conosciuto anche prima (secoli VIII e IX). In principio furono solo nomi di chiesette, ma ben presto si estesero a monasteri, casali, borghi, contrade, fiumi, valloni ecc. e a questi luoghi sono restati fino ad oggi. Eccone un breve elenco dimostrativo: a) S. Biagio, nome di un antico monastero e, attualmente, di un casale, circa 10 km a S-O di S. Mauro; b) S. Giorgio, nome di un antico casale, ripopolato poi dagli Albanesi (onde il nome attuale, S. Giorgio Albanese), circa 15 km a S di S. Mauro; di questo luogo si fa menzione nella "carta rossanese" del 111427; e) SS. Cosma e Damiano, nome di un'antica chiesa e di un monastero, presso il quale è sorto, nel sec. XV, il centro di S. Cosmo Albanese. L'antico monastero è ricordato nel citato documento pontificio del 21 settembre 1089. Il luogo è sito a circa 15 km a S-S-O di S. Mauro; d) SS. Adriano e Natalia, antico oratorio, presso il quale S. Nilo Juniore da Rossano fondò, dopo il 950, il monastero di S. Adriano. Anche presso questo monastero, nel XV secolo, si insediò una colonia albanese creando il centro di S. Demetrio Corone. Il luogo è a circa 20 km a S-S-O di S. Mauro; e) S. Pantaleone, il cui culto, diffusosi dall'Oriente, si irradiò in Italia da Venezia e nel Sud, attraverso la Puglia. Nelle regioni meridionali il culto di S. Pantaleone (o Pantaleo) si trova spesso associato con quello di S. Mauro. Qualche km a S-O di Corigliano Calabro, al confine con Acri e con quello che anticamente fu il territorio di S. Mauro, una contrada un vallone e un torrente portano ancora il nome Pantalia. Per quanto riguarda i segni "non linguistici", la ricerca archeologica, a parte le evidenze "sub divo", ha confermato, per la zona a sud del Crati, la fitta e continua frequentazione nell'epoca che ci interessa. «Quella che salta subito agli occhi è la presenza di un vero e proprio cordone di insediamenti medievali, da individuarsi per lo più in Monasteri, che corre lungo il confine meridionale del territorio in esame. È interessante notare come questo allineamento sia posto quasi a metà tra la piana di Sibari e i grandi centri di Corigliano, Vaccarizzo Albanese, S. Cosmo Albanese e S. Demetrio Corone: è probabile quindi che si tratti degli ultimi insediamenti creati sulle direttrici delle principali arterie che dalla cosiddetta grande Sila, a N di Cosenza, conducevano al mare. Se in genere  si tratta di piccoli Monasteri isolati, un'eccezione mi sembra costituita dal complesso di S. Vito: qui, oltre ai resti appartenenti ad una chiesetta probabilmente di origine bizantina, si nota una serie di insediamenti di epoca medievale (aree di cocciame) dislocati sulle alture circostanti la collina di S. Vito, che fanno pensare all'esistenza di un vero e proprio piccolo villaggio». I resti della chiesa di S. Vito (qualche km a S-E di S. Mauro) sono l'evidenza "sub divo" cui abbiamo accennato. Essi sono sufficientemente "leggibili" e senz'altro probatori in relazione ai fini del nostro discorso. Tali resti consistono nell'abside — orientata naturalmente a Est — e in una parte del lato Nord dell'antica costruzione. S. Vito può considerarsi un esempio di «chiesa a una navata, di piccole proporzioni, che divenne di uso comune in Calabria e in Basilicata nei secoli della dominazione bizantina» All'età prenormanna riconduce il Venditti i numerosissimi esempi, in Calabria, di queste chiese «ad aula rettangolare triabsidata, con ingresso solitamente laterale», fra le quali possiamo annoverare la nostra chiesetta. La quale ha una sola abside tonda fiancheggiata da due absidiole incavate nel muro, forse per fingere laprothesis e il diaconicón. Anche la tecnica struttiva, assai semplice (materiale misto con pietre, ciottoli e cocci, con un po' di intonaco e tracce di affresco all'interno dell'abside), ci induce a datare la nostra chiesetta tra la fine del X e la fine dell'XI secolo (la "carta rossanese", a. 1114, consente di anticipare la datazione del XIII proposta in: D. Minuto-S. Venoso, Chiesette medievali calabresi a navata unica, Cosenza, 1985, p. 163). Un'ultima annotazione. S. Vito fu martire in Basilicata, sotto l'imperatore Diocleziano. Si tratta, quindi, di un santo di origine latina, occidentale. Ma la vitalità e la continuità del culto ne fecero un santo venerato anche dai Bizantini, da quando l'Italia meridionale entrò a far parte dell'impero d'Oriente (dal 555 in avanti). «Il calendario italo-greco medievale era — infatti — uguale a quello di Costantinopoli». È solo col sec. X che, «essendosi stabilizzate. le collezioni agiografiche a Bisanzio, i nostri santi non poterono più esservi aggiunti». «S. Mauro di Gallipoli... S. Giorgio... i santi Cosma e Damiano... S. Demetrio... Lucia... S. Parasceve... Vito...tutti questi santi sono di origine orientale,o, se sono di origine occidentale, sono iscritti nel sinassario di Costantinopoli sin dal IX secolo e hanno un'innografia greca antica».

 

CAPITOLO IV


S. MAURO E I SARACENI

Nessuno dei cronisti arabi della Biblioteca arabo-sicula fa il nome di S. Mauro. Ma ciò non significa che S. Mauro non esistesse nel sec. X né che non abbia subito assalti da parie dei Saraceni. Basti pensare che Rossano, sede di diocesi e  centro rilevante in quell'epoca, se si eccettua il libro di Edrisi, nella stessa Biblioteca non è mai menzionata. Lo stesso  vale per Crotone, Squillace e altri centri calabresi. Possiamo, perciò, fondatamente supporre e — se alla tradizione, che è concorde, deve darsi pur qualche credito — ammettere che S. Mauro in quel tempo sia stata attaccata, e più di una volta, dai Saraceni. La stessa ubicazione del castrum presso una delle principali direttrici viarie della regione costituiva un  richiamo... quasi obbligato. Il fatto che ci fa ritenere il 977 l'anno dell'incursione devastatrice di S. Mauro e, quindi, dell'origine di Corigliano  come centro urbano, è narrato da Abulfeda. Leggiamolo: «L'anno 366 (30 agosto 976-18 agosto 977) l'emiro 'Abù 'al Qàsim 'Ali, movendo alla guerra, passò nella Terra Grande (la terraferma d'Italia) e posto il campo in un luogo che si chiama 'Al 'Abragh, accortosi che l'esercito aveva raccolto troppo numero di bestiame bovino e pecorino, biasimò fortemente i suoi d'essersi aggravati di impedimenti, in guisa da non poter più guerreggiare. Ond'egli fece scannare tutti quegli animali e spargerli qua e là: e ne rimase a quel posto il nome di Monàh 'al baqar (la posata delle vacche) e così la chiamano fin oggi». Cominciò lo stesso Amari col pensare che Monàh 'al baqar potesse identificarsi con "Vaccarizzo nella Calabria citeriore, distretto di Rossano". Lo storico siciliano fu seguito dal Moscato e, più decisamente, dal Panetta. Resterebbe, comunque, il dubbio che possa trattarsi di località diversa da "Vaccarizzo... distretto di Rossano", se non ci soccorresse la testimonianza del Bios di S. Nilo Juniore riguardo agli stessi luoghi e agli stessi anni: «Poiché in quei giorni gli empi Saraceni facevano scorrerie nel Tema di Calabria e depredavano  ogni cosa, il santo Padre [S. Nilo] si mise in salvo con i suoi fratelli, rifugiandosi in un castello fortificato. Ma tre  monaci., nel monastero, furono catturati dai Saraceni e menati schiavi in Sicilia». Sono notizie che chi ponga mente ai  luoghi e al tempo, non può non considerare sinottiche con quelle di Abulfeda. Se ne deduce l'altissima probabilità che S.  Mauro, abbastanza vicina sia a Vaccarizzo (Abulfeda) sia al monastero di S. Adriano (Bios di S. Nilo), sia stata saccheggiata dagli uomini di Al Qàsim e che, fra i Mauresi profughi, una parte abbiano cercato salvezza e riparo dai Saraceni verso le alture di Corigliano occupando il versante occidentale — occulto a chi viene dal mare — di un colle in particolare, detto Serratore, ove sorse, quindi, il primo nucleo del centro urbano di Corigliano Calabro. Nel 977, dunque, il nostropraedium corellianum, in seguito all'insediamento di quei profughi, si trasforma in borgo. È uno dei tantissimi casi, la cui tipologia è stata lucidamente individuata e illustrata dallo Schmiedt: un piccolo insediamento rurale assume "forma urbana", dopo l'abbandono di un centro di pianura e, comunque, posto presso una direttrice viaria importante, troppo esposto a incursioni "barbariche". Nell'elenco tipologico dello Schmiedt Corigliano Calabro potrebbe rientrare nella categoria f): "centri nati lungo una linea pedemontana". Vale la pena di riportare le parole dell'eminente studioso. Sono considerazioni in cui si può "riconoscere" anche Corigliano. «Giova [rilevare] che, pur trattandosi in massima parte di    centri a formazione spontanea (non fondati cioè secondo schemi preordinati), il tracciato delle fortificazioni non e    mai stato casuale, ma è sempre stato fatto aderire molto razionalmente e con soluzioni di grande interesse all'ambiente    fisico e all'evoluzione dell'abitato. La Toscana, le Marche, l'Umbria, la Lucania e la Calabria sono le regioni    italiane che vedono ripetersi con più frequenza questo tipo [cioè, f)] di insediamento, che corona le dorsali ed è talora    difeso da mura circolari» È probabile che Corigliano con l'insediamento dei Mauresi abbia preso dapprima l'aspetto di un piccolo x°Piov ("borgo"), munito magari di un Ilìpios ("torre, fortilizio"). È, questa, un'ipotesi che rientra normalmente  nell’«immagine dell'habitat rurale nel Catepanato». Così come rientrano nella dinamica evolutiva di quell'immagine le  "trasformazioni subite dall'habitat rurale, in quell'epoca, conseguenza dell'insicurezza che ha determinato la costruzione  di mura di protezione ad opera dei rappresentanti locali del potere centrale o, forse, delle stesse popolazioni. Il paesaggio del Catepanato è pieno. di torri (TLvpyoi), di xàoarpa [castra] e di [castellia]» Allora la consistenza urbana di Corigliano doveva essere limitata a quello che, tanti secoli dopo, i cronisti locali indicheranno come il rione Grecia, cioè il più antico impianto con configurazione urbana. Di lingua e religione greche (cioè,bi/antine) erano, infatti, i Mauresi, che, stabiliti a Corigliano, fabbricarono — scrive il Pugliesi — «...alcune  chiesette..., dedicandole a santi della lor nazione, come a S. Venera, a S. Basilio, a S. Nicolo; delle quali fin all'età presente [principii del sec. XVIII] non solo vi sono le tradizioni e le autentiche scritture, che fanno menzione di dette chiese, ma se ne veggono ancora alcuni frantumi; e il sito di esse è nel ompreso della Parrocchia di S. Maria della Piazza...». L'antica onomastica greca del rione Grecia trova irrefutabili riscontri in una continuità documentale che dal sec. XVI giunge fino a tutto l'Ottocento: «domum in loco subto S.ta Venere», «domo sita... in loco La Grecia», «prò quadam domo palatiata in loco S.  Blasii posila» ,«domibus in loco detto S. Basile», «pro domo intus terrae Coriolani in loco detto S. Venera»,  «contr. S. Vennera... contr. S. Nicola... La Grecia...  contr. S. Basilio...»21 «Grecia»22.    Per l'ultimo scorcio del XIX secolo leggiamo nell'Amato di una «contrada alla quale [i Greci?!] diedero il nome di Grecia, nome che tuttora conserva».    Oggi, del toponimo antico non resta neppure la memoria; così come sono scomparsi, insieme con le fabbriche e perfino col sito, i titoli greci di alcune chiesette e oratori. A parte il nome di S. Maria Assunta, che continua nella chiesa  arcipretale cui fa riferimento il Pugliesi, l'unico relitto delle origini nella toponomastica è la via S. Nicola, che attraversa, con sviluppo tortuoso e accidentato, tutto il rione.

 

CAPITOLO V


I PRIMI SIGNORI

Per il periodo che va dal 977 alla conquista normanna della Calabria, al solito, non disponiamo di informazioni puntuali e dirette, né di carattere documentale né di fonte storico-narrativa, riguardo allo stato e all'eventuale accrescimento di Corigliano e a coloro che vi dominarono. E tuttavia, per quest'ultimo punto, possiamo ricavare qualche elemento attendibile da fonti e studi relativi al Mezzogiorno e, in particolare, alla Calabria in quell'epoca. Corigliano faceva parte certamente del territorio della città di Rossano; il che è lo stesso che dire che faceva parte della diocesi di Rossano.    Il territorio di una città importante come Rossano si divideva in un settore propriamente cittadino, intra muros, e in un  settore rurale, extra muros, costituito dalla campagna e dai choria o borghi rurali. Corigliano era, appunto, uno di questi  choria. Ora, sappiamo che, nella Calabria bizantina del X secolo, nelle campagne e nei centri rurali dominavano i grandi  proprietari terrieri, anche se non mancavano i piccoli proprietari, che erano ripetutamente, quanto vanamente, fatti oggetto di disposizioni protettive nelle leggi imperiali concernenti l'organizzazione sociale ed economica delle provincie e delle città. Chi erano i grandi proprietari terrieri tra il sec. X e l'XI? «Innanzi tutto la Chiesa... Gli altri grandi proprietari sono i funzionari dello Stato, militari e no; erano greci, sì, ma soprattutto indigeni».    
La Chiesa di quel tempo — la Chiesa, cioè, dell'epoca che precede il sorgere e il fiorire delle grandi abbazie "basiliane"  come il Patire — era innanzi tutto e soprattutto il vescovo. Il vescovo era responsabile della gestione economica dei  beni ecclesiastici e aveva il controllo di un patrimonio fondiario in continuo aumento per le numerose donazioni e per la  sua inalienabilità. Se è vero che nella seconda metà dell'XI secolo «non troviamo documentati, in Calabria...», «distretti  ecclesiastici minori [rispetto ai vescovadi]», questo sarà stato tanto più vero per il secolo precedente. In altre parole, l'autorità e la potenza dell'ordinario diocesano erano tanto più piene e reali, in quanto si esercitavano senza necessità di delega sul piano della giurisdizione spirituale e temporale. Si aggiunga che l'influsso del vescovo «deve essere stato particolarmente forte in un territorio così esposto agli attacchi esterni come la Calabria, la cui sicurezza si basava non tanto sulla forza d'urto di un esercito regolare quanto piuttosto sulla prontezza di difesa delle singole città». Gli altri grandi proprietari erano, come si è accennato, i funzionari dello Stato, i rappresentanti del potere civile, che, nel secolo X, «erano reclutati sempre più fra i notabili (archontes)locali». Riepilogando, la classe dominante era formata dall'alto clero (vescovi) e dagli arconti. Non di rado le due dignità si sommavano nella stessa persona o erano ricoperte da persone appartenenti a una stessa potente famiglia. E proprio il caso di Rossano, dove signoreggiava una delle grandi famiglie calabresi dell'epoca bizantina: i Maleinos. «Alla metà del sec. X, il protospatario Gregorio Maleinos apparteneva al ceto degli àpxovTes [archontes] di Rossano, e un po' più tardi Stefano Maleinos era... vice dello stratega di Calabria.    I possedimenti principali della famiglia erano nelle zone di Stilo e di Rossano e sembra che, anche dopo il crollo della     dominazione bizantina nell'Italia meridionale, essa sia riuscita a conservare la proprietà e la posizione di prestigio».  Vogliamo ricordare, a conclusione di questo capitolo, che forse apparteneva alla famiglia Maleinos anche il celebre S. Nilo Juniore di Rossano, il quale verso il 952-953, o poco dopo, fondò, su un terreno di sua proprietà, sito in prossimità dell'attuale centro di S. Demetrio Corone, un monastero dedicato a S. Adriano.

 

CAPITOLO VI

 

CORIGLIANO AL TEMPO DELLA CONQUISTA NORMANNA DELLA CALABRIA

Come abbiamo già accennato, Corigliano, in seguito all'insediamento dei Mauresi, divenne un chorion della città di  Rossano e ben presto dovette trasformarsi in castrum, cioè in borgo recintato. Questa trasformazione avvenne probabilmente  nel corso del primo o del secondo decennio del sec. XI. È da escludere che sia avvenuta dopo quegli anni, se è vero che dal  1030 circa in avanti le incursioni saracene in Calabria si diradarono fino a cessare del tutto con l'avvento dei Normanni.    Si può dire, infatti, che non vi fosse altra ragione, se non il permanente pericolo di incursioni saracene, nella Calabria  del X secolo e del primo scorcio dell'XI, che giustificasse la necessità, anche per i centri urbani più piccoli, di una cinta di fortificazione. Ma era una ragione pressante e generale se aveva caratterizzato, come s'è visto, la dinamica evolutiva  dell'habitat del Catepanato. Il nostro centro, dunque, doveva avere già assunto la forma di un piccolo CASTRUM, quando Roberto il Guiscardo, il più famoso dei capi normanni, fissata la base delle sue operazioni in S. Marco Argentano, «potè — intorno al 1054 — di  proposito dedicarsi alla conquista della Calabria». Invero, Roberto aveva morso il freno già per sei anni in Calabria, dove nel 1048 era stato spedito dal fratello Drogone e s'era insediato con i suoi uomini a Scribla, presso l'attuale stazione ferroviaria  di Spezzano Albanese. E da qui aveva scorazzato nelle contrade vicine terrorizzando le popolazioni con le sue azioni brigantesche. Dall'occuparsi "di proposito" della Calabria prima del 1054 era stato distolto dagli eventi successivi all'assassinio di Dragone (1051), culminati nella battaglia di Civitate (1053) il cui esito vittorioso contro le truppe pontificie sancì, in certo modo, per i Normanni, il riconoscimento ufficiale della loro presenza nell'Italia meridionale come conquistatori, non più come invasori. Dopo Civitate quindi, Roberto iniziò in Calabria una vera e propria campagna militare, che durò sei anni e si concluse con la conquista della penisola (giugno 1060: caduta di Reggio). Fra le città calabresi che avevano opposto più viva resistenza al Guiscardo fu Rossano, che cadde ai primi del 1059: La caduta di Rossano nel 1059 non significa, però, che il territorio della città non fosse già stato invaso e in parte conquistato prima di quell'anno dai Normanni. Al contrario, secondo il Pepe, che è storico coscienziosoe onesto, dopo la battaglia di Civitate, «la prima terra di cui [il Guiscardo] s'impossessò fu S. Mauro in quel di Corigliano; quindi avanzossi in valle di Crati» Se il Pepe, che non cita la fonte di questa notizia, è nel vero, la conquista di S. Mauro può datarsi al 1054. La necessità e, per così dire, 1'"urgenza", per il condottiero normanno, di occupare S. Mauro, rientra nella logica delle cose, se si pensa alla posizione-chiave del luogo, all'incrocio di direttrici    viarie importanti, come «il grande asse anulare, aggirante la pianura [di Sibari] lungo le falde dell'arco collinare» — che    ricalcava la litoranea jonica protostorica — e una delle arterie che dalla Sila, a N di Cosenza, giungevano al mare.    L'importanza strategica annessa dai Normanni al "castrum Sancti Mauri" si può agevolmente desumere da un passo della "Historia sicula" del Malaterra, che si riferisce al 1094-1095, e precisamente all'azione militare del duca Ruggero  (figlio del Guiscardo) e del conte Ruggero (fratello del Guiscardo) contro Guglielmo di Grantmesnil (genero del Guiscardo) che s'era impadronito abusivamente di S. Mauro. Tornando agli anni del Guiscardo, è verosimile che questi , nei tentativi di assedio che dovette portare contro Rossano prima del 1059, abbia occupato non solo S. Mauro ma anche Corigliano, organizzandovi degli avamposti per tenere sotto controllo la situazione. Queste, tuttavia, sono congetture; plausibili, ma congetture. Sul nostro paese in quegli anni non abbiamo, in verità, alcuna notizia o elemento che possa fare luce più chiara di quanto non consenta il quadro generale degli avvenimenti. D'altra parte, ci conforta una constatazione del Ménager; la quale , se vale a scagionare lo storico di professione, è senz'aldo assolutoria per il dilettante di provincia.

CAPITOLO VII

 

GLI EVENTI SUCCESSIVI ALLA CONQUISTA FINO ALLA MORTE DEL GUISCARDO (1085) PRIMA ORIGINE DEL CASTELLO DI CORIGLIANO

Roberto il Guiscardo, fino alla sua morte (1085), fu il vero signore della Calabria, e della parte settentrionale lo fu in  maniera esclusiva. Questa "signoria", però, fu un risultato personale, che il Guiscardo seppe conseguire superando difficoltà di ogni genere, creategli ora dagli altri capi normanni, ribelli e insofferenti alla sua autorità, ora dalle città e popolazioni calabresi (specie da quelle rimaste più fedeli ai Bizantini). Come dice Guglielmo di Puglia,«Dux licet audierit tot convenisse ribelles Nulla concutitur terrore, sed arte vel armis omnes exsuperat» Conquistata la Calabria, il Guiscardo pensò alla Sicilia. L'esecuzione di questa impresa, che vide come condottiero, a fianco di Roberto, il suo giovane fratello Ruggero (che era venuto in Italia intorno al 1057e s'era già distinto nell'occupazione della Calabria), si protrasse per un trentennio, dal 1061 al 1091, e fu, quindi, portata a termine dal solo Ruggero. Nel corso della lunga guerra di conquista dell'isola contro i Saraceni, Roberto dovette più volte tornare in Puglia e in Calabria per sedare rivolte o per organizzare un più efficace controllo delle due regioni. Il percorso seguito dal capo normanno nelle "continue andate e venute" fra la Sicilia e la Puglia o la Calabria, seguiva il corso del Crati, quindi dell'Esaro "per piegare poi verso la piana di Sibari". Questa notizia ha, come vedremo, molta importanza in relazione al nostro argomento.    La preferenza per le vie di terra rispetto a quelle marittime — consuetudine, questa, su cui ci informa Guglielmo di  Puglia- e il fatto che la lotta in Calabria fu condotta non contro un vero e proprio esercito bizantino bensì contro le città e le popolazioni stesse della regione, comportò, per i Normanni, l'esigenza di costruire e organizzare tutta una serie di fortificazioni e avamposti. In particolare, con la rioccupazione e il restauro del castello di Scribla nel 1064, il Guiscardo attuò, nel periodo che corre fra quell'anno e il 1080 circa, una vera e propria linea di difesa della valle del Crati e dintorni. A quel periodo, 1064-1080, è da assegnare la costruzione di un fortilizio a Corigliano Calabro, se l'ipotesi di un "castello normanno" nel nostro paese è plausibile. E l'ipotesi non è da scartare, sia per i motivi generali fin qui indicati sia per ragioni più particolari. Queste ragioni sono essenzialmente quattro:

1)un passo del Malaterra;

2)il percorso seguito dal Guiscardo nei suoi ritorni in Calabria dalla Sicilia ;

3)l'esistenza, a Corigliano, di un castello in un'epoca che può considerarsi antica, anche se non riducibile a una data  precisa;

4)una specie di "regola" applicata dai Normanni, nella costruzione dei fortilizi, contro le città più ribelli (come, per es, Rossano).

Riguardo a quest'ultimo punto, nei cronisti "rerum Normannorum", e segnatamente nel Malaterra, si trovano numerosi esempi, tra cui Gerace, S. Severina e naturalmente Rossano. Qui, riportiamo quanto ha scritto sull'argomento una seria e attenta studiosa di antichità calabresi: «Abbiamo castelli urbani, che sono anche sedi del potere civile e dell'amministrazione  della giustizia nonché residenze feudali; castelli marginali che si oppongono alle città e ne rendono possibile il  Controllo. Tale ubicazione [marginale] è più riscontrabile ove la comunità fortemente bizantinizzata appaia meno ligia al potere. In genere, quando i castra bizantini prendono configurazione di civitates, assumendo il loro ruolo nell’organizzatone politico-territoriale, il fulcro topografico e simbolico della città è rappresentato dalla cattedrale [com'era per Rossano già molto prima della conquista normanna]» In ordine al punto 3), occorre preliminarmente precisare  che, allo stato attuale, le strutture più antiche del castello di Corigliano risalgono a epoca aragonese, come attesta l'iscrizione della lapide collocata accanto alla grande porta che s’apre sul ponte levatoio. Ecco il testo dell'iscrizione:

 

Ferdinandus rex Divi Alfonsi fili

Divi Ferdinandi nepos Aragonius arcem

hanc vetustate collapsam ad continendos

in fide cives de poecunia aerea collata

rest. anno DO MCCCCLXXXX»

 

[«II re Ferdinando d'Aragona figlio del divo Alfonso nipote del divo  Ferdinando fece restaurare, con danaro di bronzo raccolto pubblicamente,  questa rocca, in rovina per antichità, per tenere in fedeltà i cittadini,  nell'anno del Signore 1490»].

 

Quindi, l'arx, avanti il 1490, era "in rovina per antichità". Questa indicazione esclude sia la causa naturale del sisma sia quella umana di un assedio distruttivo. Ciò fa pensare che il precedente impianto di un'opera fortificata possa risalire ad alcuni secoli prima del 1490. Purtroppo, oltre alle ragioni che veniamo esponendo, non abbiamo elementi pienamenti certi e risolutivi per poter fissare una data precisa. Non possiamo, al momento, che rilevare — con la Noyé- che «le transformations et réaménagements, sinon les destructions, subies au cours des périodes angevine et surtout aragonaise ont abouti dans la plupart des cas a les defigurer [scil.,les fortifications normandes]. Seules des fouilles archéologiques pourraient donc nous en restituer les caractères» Mirella Mafrici, riecheggiando male il coriglianese Francesco Grillo, scrive che «la massiccia costruzione [fu] eretta  dal gran conte Ruggero» La prima e la seconda delle ragioni che stiamo esponendo (cioè, il passo del Malaterra e il percorso "abituale" del Guiscardo quando risaliva la Calabria) sono connesse fra loro e rappresentano, nel quadro della nostra ipotesi, l'elemento decisivo o, se si vuole, più probante. Già il Grillo, nello studio qui citato del 1949 , aveva prodotto come "pezza d'appoggio" documentale — riguardo alla costruzione di un fortilizio da parte del Guiscardo a Corigliano — un passo del Malaterra. Sennonché, in questo passo non v'è neppure l'ombra di un indizio che, possa, comunque, riferirsi a Corigliano. Ecco il testo del Malaterra così poco avvedutamente esibito:

 

« castrum, quod S. Marci dicitur, firmavit. Sed cum firmato castro, quid motus introduceret, non inveniret, abstraxerat  enim circum manentes ad proxima castra quaeque habebant »

 

[« fortificò il castrum di S. Marco. Ma, una volta fortificato il castrum, non trovando cosa potervi introdurre, aveva sottratto ogni cosa che avevano i coloni dei castra vicini»]

 

Giudichi il lettore. Nello stesso cronista normanno v'è, però, un altro luogo — la nostra "pezza d'appoggio" — che, se non contiene un esplicito riferimento a Corigliano, offre, tuttavia, qualche elemento probante o, almeno, più che indiziario, sì che se ne può ragionevolmente dedurre la quasi certezza di quel riferimento.

 

«Anno Dominicae Incarnationis 1073. Dux vero a Sicilia in Calabrìam veniens, apud Rossanum eiusdem provinciae urbem dolentibus urbicolis castellum firmavit»

 

[«Anno del Signore 1073. Il duca invero venendo dalla Sicilia in Calabria, costruì presso Rossano, città della stessa provincia, un castello  a malgrado dei paesi»]

 

Da una lettura attenta del brano si ricavano tutte le informazioni utili a delucidare e a risolvere la questione, e cioè:


1)il Guiscardo, dopo la conquista di Palermo (10 giugno 1072), ove si trattiene alquanto per la prima sistemazione del territorio e delle città assoggettate, viene in Calabria presso Rossano;

2)qui costruisce un "castellum";

3)la costruzione del "castellum" avviene a malgrado (dolentibus) dei paesi (urbicolis), non meglio definiti, ma certamente  prossimi a Rossano;

4)il "castellum" viene costruito presso Rossano e in opposizione a Rossano, ma certamente in una delle urbicole (altrimenti non troverebbe spiegazione l'inciso "dolentibus urbicolis" né, soprattutto, il predicativo "dolentibus");

5)la posizione così ravvicinata dei due termini "urbem" (appellativo di Rossano) e "urbicolis" ribadisce la determinazione  specifica dei luoghi e del fatto;

6)è escluso un eventuale riferimento a S. Mauro, perché questo è indicato sempre come castrum e, inoltre, resta alquanto  lontano da Rossano.

Ora, considerato che il Guiscardo, seguendo il percorso consueto, giunse presso Rossano da N-O (lungo una linea che  oggi toccherebbe Spezzano Albanese Scalo - S. Mauro - Corigliano); tenuto conto che, sulla base dei dati documentali attualmente  disponibili, le urbicolae prossime a Rossano, in posizione N-O, non potevano essere che Corigliano e Viscano, e che tra le due, peraltro vicinissime tra loro, per quel che ne sappiamo e per quel che ancora è la geografia dei luoghi, la prima era in posizione più eminente e, quindi, più idonea per un fortilizio: ne consegue che Roberto il Guiscardo nel 1073 costruì un "castellum" a Corigliano, probabilmente a causa di una delle rivolte con cui l'insofferente città bizantina (Rossano) tentò più volte di sottrarsi al giogo normanno.

CAPITOLO VIII

 

CORIGLIANO DAL 1073 AL 1192

Dobbiamo supporre che, per un certo periodo, Corigliano facesse parte di quella «fitta ragnatela di castelli e fortificazioni, le cui guarnigioni, anche all'interno delle città, facevano capo direttamente al Guiscardo». Sappiamo, però, che i piccoli centri furono infeudati o dati in custodia a "milites" fedeli del duca, i quali dipendevano, per ciò che riguardava l'amministrazione della giustizia e la riscossione delle imposte, dai vicecomites e dagli strateghi, funzionari insediati dal duca nelle città maggiori. È probabile che buona parte del territorio di Rossano sia stato confiscato dal Guiscardo: tale era il suo comportamento verso le città che gli avevano opposto particolare resistenza. Egli, quindi, avvolgeva quasi queste città entro la "gabbia" del dominio diretto che imponeva sui territori confiscati, servendosi, per il controllo e l'amministrazione, degli intendenti sopra menzionati e legando a sé i centri minori, come s'è detto, mediante l'infeudazione o l'affidamento in custodia ai propri fedeli. Sulla situazione istituzionale e amministrativa di Corigliano in quell'epoca non abbiamo alcuna notizia. Un po' di luce, fioca e indiretta, però, ci viene dal già citato diploma di Ruggero II, dove di uno "ex hominibus" del conte, un certo Guglielmo di Losdum, è descritta la consistenza del feudo (che comprende anche Corigliano) e viene riferito anche il nome del padre: Framundo. Dal medesimo documento apprendiamo anche che Framundo aveva posseduto un feudo nel territorio di S. Mauro, e quindi nella pertinenza giurisdizionale di Rossano. Tale feudo, comprendente tre casali, corrispondeva all'attuale territorio del comune di S. Giorgio Albanese. Tra i sottoscrittori di un altro diploma, rilasciato da Ruggero Borsa (figlio ed erede del Guiscardo) a favore della Chiesa cosentina il 1 aprile 1093, v'è un "Framundo di Rossano" che è certamente lo stesso di cui si fa menzione nella carta del 1114. Framundo, quindi, era un "uomo" di Ruggero Borsa, come lo era stato sicuramente del Guiscardo. Sulla base di questi scarsi indizi si può ragionevolmente supporre che Framundo sia stato il primo "castellano" di Corigliano. È presumibile che egli, per i suoi servigi, ricevesse il castello in custodia e, in beneficio, un feudo di tre casali. Si può affermare con quasi certezza che il territorio della città di Rossano non fu contea né fece parte di alcuna contea, ma restò nel demanio del duca (prima di Roberto il Guiscardo e poi del figlio Ruggero Borsa) fino a quando, presumibilmente nel decennio a cavallo fra l'XI e il XII secolo, passò sotto il dominio dei conti di Sicilia. È, ad ogni modo, nel quadro dell'organizzazione territoriale della Calabria centro-settentrionale, nel periodo appunto sopra indicato, che dobbiamo seguire l'esile filo della vicenda di Corigliano. Attorno al demanio ducale di Rossano troviamo, in quel tempo, tre contee:a N-E l'esteso dominio dei Chiaramente, che dalla Basilicata giunge fino al Coscile e al Crati, comprendendo Cassano e parte dell'attuale comune di Spezzano Albanese; a N-O e a O la contea di Guglielmo di Grantmesnil (marito di Mabilia, figlia del Guiscardo), comprendente la valle del Crati e la sponda tirrenica, Tarsia e Castrovillari;a S il dominio di Raul di Loritello (figlio di Goffredo fratellastro del Guiscardo) che costituisce la contea di Catanzaro. Questo era il quadro territoriale che ci interessa, nell'ultimo decennio del sec. XI. Rebus sic stantibus, ancora nel 1093, dunque, il "miles" Framundo teneva in custodia il castello di Corigliano. Sorge, a questo punto una domanda: fino a quando Framundo adempì questo incarico? La risposta non è affatto semplice, giacché va ricavata da elementi indiretti, alcuni dei quali risultano contraddittori. Pure, dobbiamo tentare di sciogliere il nodo in maniera plausibile al fine di procedere, poi, più speditamente. I dati di cui disponiamo sono i seguenti:

1) nel 1114 Guglielmo di Losdum cede tutto il suo feudo "rossanese"? (che è molto vasto) a Ruggero II in cambio di altro feudo in Sicilia;

2) una parte del feudo ceduto era appartenuta a Framundo (padre di Guglielmo) e, in seguito, a Rinaldo (fratello di Framundo e zio di Guglielmo);

3) questa parte, sempre in forza del diploma ruggeriano, viene donata all'abbazia del Patire, fondata, tra Corigliano e Rossano, nel 1102 dal monaco Bartolomeo di Simeri;

4) in altri due diplomi di Ruggero II, rispettivamente del 1122 e del 1131, nei quali si da conferma dei beni posseduti dall'abbazia, Framundo appare come diretto contraente della vendita-cessione del suo feudo (donato, quindi, al Patire);

5) da un mandato dell'aprile 1099 apprendiamo che lo stratega di Mileto interviene, per ordine di Ruggero I, per comporre una controversia, relativa a problemi di confinazione dei territori di Bova e Amendolea (nel Reggino), fra Riccardo d'Amendolea e Guglielmo figlio di Framundo.

Oltre a questi elementi, sappiamo che, probabilmente nei primi degli anni 90 dell'XI secolo, il dominio su tutti i castelli della Calabria passa di fatto, anche se non di diritto, dal duca Ruggero Borsa al gran conte Ruggero signore della Sicilia e della Calabria meridionale. Da quest'ultimo fatto e dall'insieme dei diplomi citati si deduce agevolmente che, mentre Framundo era stato "uomo" del Guiscardo e poi di Ruggero Borsa, suo figlio Guglielmo fu "uomo" del gran conte Ruggero e, poi, di Ruggero II. Questo diverso rapporto vassallatico può aiutarci a capire la diversa condizione e consistenza dei "beneficia" rispettivamente del padre (Framundo) e del figlio (Guglielmo). Avremo occasione di tornare sull'argomento. Il problema si complica quando si va a confrontare i dati ricavati dai diplomi. Se nel 1114, Guglielmo di Losdum possiede, oltre che il proprio, anche il feudo del padre Framundo, e se tale feudo di Framundo, prima di giungere a Guglielmo, era passato a Rinaldo, dobbiamo arguirne che al momento in cui, nella catena Framundo-Rinaldo-Guglielmo, il possessore è Rinaldo, Framundo doveva essere morto o era diventato incapace (cioè rimbambito). Ammessa questa ipotesi, dobbiamo supporre, altresì, che Guglielmo non potè entrare in possesso del feudo paterno probabilmente perché era ancora nella minore età. Se le cose andarono effettivamente così, Guglielmo nell'aprile del 1099 era certamente nella maggiore età, in quanto attore nel mandato militense di Ruggero I. Ciò significa che, almeno a quella data, Guglielmo era subentrato allo zio Rinaldo nel possesso del feudo paterno. Possiamo, quindi, fissare una cronologia di massima della successione nel feudo di Framundo:

Framundo: 1073(?)-1093/1097

Rinaldo: 1093/1097-1094/1098

Guglielmo: 1094/1098-1114.

Ora, tutto questo è in contrasto col fatto — riferito nei diplomi del 1121 e del 1131 — che Framundo fu diretto contraente della vendita del suo feudo (donato, quindi, al Patire). Questa circostanza, infatti, presuppone che Framundo fosse vivo e vegeto, e capace di intendere e di volere, dopo il 1102 (anno di fondazione del Patire) e almeno fino al 1114 (anno cui risale, in realtà, la vendita del feudo di Framundo, eseguita però dal figlio Guglielmo, e la donazione del medesimo feudo al Patire). La contraddizione, secondo noi, cade se si considera "errore materiale", nei diplomi del 1122 e del 1131, il riferimento a Framundo come diretto esecutore della vendita. Errori simili in carte e diplomi antichi non sono affatto rari (ne vedremo un altro caso), anche per il fatto che parecchi di questi diplomi (come quelli qui considerati) ci sono pervenuti in copie spesso rimaneggiate, e talora in lingua diversa dall'originale. Non rimane, a questo punto, che una spiegazione: un menante forse un po' confusionario o, chi sa, forse maliziosamente suggerito, dovendo o volendo sottolineare che si trattava proprio della terra di Framundo, fu indotto al lapsus di indicare lo stesso Framundo come diretto esecutore della vendita del proprio feudo all'ammiraglio Cristodulo protettore del Patire. In conclusione, il feudo di Guglielmo di Losdum, secondo i termini e le modalità della descrizione che ne vien fatta nella carta del 1114, consta di due parti ben distinte, anche se esse territorialmente non presentano soluzione di continuità :

a) il feudo acquisito per diritto di successione, dopo il provvisorio possesso dello zio Rinaldo (feudo di cui noi abbiamo già indicato la consistenza e l'ubicazione);

b) un territorio infeudato a Guglielmo dal gran conte Ruggero e che si estendeva in continuazione del limite orientale del precedente fino a qualche chilometro a O-N-O dell'abbazia del Patire. Questo feudo di Guglielmo aveva il proprio centro in Corigliano e comprendeva, inoltre, un casale di S. Pietro sito poco a N-O di Corigliano (ma nella pertinenza territoriale di S. Mauro, nell'area compresa fra le alture dei Muzzari e le contrade Grotte e Vallemarina), e, a E di Corigliano, una parte del territorio di Viscano. Quando sia avvenuta l'infeudazione a Guglielmo non sappiamo di preciso; ma, per quel che si è argomentato sopra, non molto prima del 1099, anno in cui, come s'è visto egli risulta vassallo del gran conte nel Reggino. Restano oscure anche le ragioni dell'infeudazione. Si può fare, tuttavia, qualche congettura sulla base, appunto, del fatto che Guglielmo era "homo" di Ruggero I. Possiamo, ad esempio, supporre che Guglielmo si sia distinto nel servizio militare in una delle campagne che il gran conte effettuò sul continente, a partire dal 1094-95: come nell'azione, svoltasi proprio in quegli anni fra Rossano, S. Mauro e Castrovillari, quando le forze congiunte del duca Ruggero Borsa e del gran conte riuscirono ad avere ragione di Guglielmo di Grantmesnil, il quale si era abusivamente impossessato del territorio compreso fra S. Mauro e Rossano, occupando i due centri; oppure nella campagna di Amalfi del 1096 o in quella di Capua. Certamente nell'infeudazione a favore di Guglielmo di Losdum, Ruggero I avrà tenuto conto anche della fedeltà del padre Framundo agli Altavilla. Riassumendo: Corigliano, dopo un periodo di diretta soggezione al duca (cioè, a Roberto il Guiscardo e poi al figlio Ruggero Borsa) — durante il quale periodo fu tenuta in custodia dal "miles" Framundo, quindi dal fratello di costui Rinaldo — fra il 1094 e il 1098 fu infeudata a Guglielmo figlio di Framundo. Questa parentesi feudale durò fino al 1114, allorché Guglielmo dovette (?) cedere il feudo di Corigliano e di S. Mauro a Ruggero II ricevendone in cambio un feudo in Sicilia. Da quell'anno Corigliano e S. Mauro restarono appannaggio diretto degli Altavilla di Sicilia, fino al momento in cui il re Tancredi, nel 1192, ne decise la nuova infeudazione, sotto il titolo di Comitato, a favore dell'anziano Ruggero Sanseverino, primo conte di Corigliano, già sin dal 1154 conte di Tricarico.
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