Crono-istoria di Corigliano Calabro di G. Amato

CAPITOLO V.

DESCRIZIONE DELL'ANTICO CORIGLIANO - IL CASTELLO - SUA FONDAZIONE - SUA DESCRIZIONE - MODIFICHE CHE SUBI' - STATO PRESENTE

 

1° Allorché gli Aschenazzi fabbricarono la nostra Corigliano, scelsero per essa una piccola collina tagliata a cono, con facile pendio dalla parte di Ovest, di Nord-Ovest; molto dirupata al Nord, più al Nord-Est, e moltissimo al Sud, tutta circondata da profonde valli e burroni, specialmente alla parte Sud-Ovest, ove a picco, su rocce, s'innalza il fianco della collina. E lo fecero a ragion veduta, affinché la novella città non fosse andata soggetta alle depredazioni e scorrerie che potevano avvenire, come il tempo avverò nei secoli futuri.

Su questa collina adunque, e proprio sul pendio Nord-Ovest, fabbricarono Ausonia, la quale veniva a specchiarsi fino nelle cristalline acque del placido Coriglianeto. Il sito su cui Ausonia fu innalzata, forte per natura, fu per arte reso inaccessibile dagli Enotri, circondandolo di solide mura, di torri, di fortini, alcuni dei quali, in quel tempo, erano inespugnabili. Le mura, che circondavano l'antica città, cominciavano dalla porta, detta, in prosieguo di tempo, della Giudeca, e percorrendo la cresta del colle, ove sono ora i palazzi di Castriota, di Lettieri e Solazzi; luogo una volta detto dei Serraturi, scendevano fino alla porta di Brandi. Da questa porta, sempre scendendo, lasciavano fuori il luogo ove ora stà il palazzo De Gaugio, e procedendo sovra quel masso scistoso che tuttavia si vede sotto la casa Otranto, raggiungeva la porta delle Riforme. Da qui andavano alla Cittadella, e poi al Fosso, sotto il monastero delle Clarisse, e si attaccavano alla seconda Torre, lasciando fuori il palazzo Mezzotero, ora Bianchi, quello di Malavolta, ora Marchese, e per sotto il palazzo de Rosis, chiudevano in mezzo la terza Torre, nel luogo una volta detto Cola Croce, ora largo Garopoli, e, procedendo per la cresta del colle, scendevano fino al fiume, e risalendo di nuovo si univano là donde erano partiti, cioè alla porta della Giudeca - Questa prima porta, ora totalmente distrutta, ed il cui arco di volta durò fino al 1858, avea, come dice il Pugliese, sulla parte esterna l'immagine della Vergine del Carmine, e quella di S. Francesco da Paola con i seguenti versi:


Francisci precibus Christi Genitrice rogata

Pro Populo, nullus sit metus Hostis ei.

 

Ai piedi di queste immagini era dipinta l'arma di Corigliano con la scritta al di sotto ad arco: Ausonia Civitas Coriolanensium, ed una iscrizione greca intelligibile. La seconda porta, che i signori Malavolta v'inalzarono sopra, e tuttavia denominata dal popolo col nome delle Riforme, presentemente arco di contrasto fra la casa Milano ed Oriolo, era pure decorata dell'immagine di S. Francesco, che tutt'ora si osserva benissimo, ed avea dipinta ai suoi piedi la città e questi versi:

 

Qui me sibi elegit Populo pone Christe Patronum

Fac rogo, ne noceant bella, famesue, lues.

 

Alla sinistra del santo era dipinto lo stemma di Corigliano e questi versi:

 

Cordis amatori, nostrum cor sancte referre,

Sis Memor, et Charitas expiet ante tua.

 

Intorno allo stemma vi era una iscrizione greca, che in tempo dell'accurato storico Pugliese era corrosa ed intelligibile. Dalla parte rivolta alla città, questa porta, aveva l'effigie di S. Sebastiano martire con uno scrittogreco e questi versi:

 

Hanc Patriam de peste fera prius ipse tuebar

Nunc Francisce simul Sancte, innemus eam.

 

Ora però nè questa immagine, nè lo scritto greco, nè il distico più esistono. Delle mura che circondavano Corigliano un solo pezzo tuttavia è in piedi, ed è quello che serve di contrafforte alla strada, una volta detta Fosso delle Monache, ora Ponte Canale. Dall'altezza di questo muro, che principia dall'avvallamento, che circondava la città, ora Via Roma, dal modo in cui si mantiene da tanti secoli, si può benissimo argomentare con quanta e quale arte siano state innalzate e costruite le mura, e pruova chiaramente, essere opera dei quegli uomini, i quali fabbricarono le mura ciclopiche. Le tre torri di guardia esistono ancora e sono: la Cittadella, che dalle visibili feritoie, dalla costruzione di una forma quasi roonda, benchè nuove fabbriche l'avessero dal piano delle feritoie fatto perdere l'antico aspetto, pure si conosce per quella che fu un tempo. È posta sul pendio Sud-Est del Colle, e guardava non solo il lato Nord-Est, il lato Sud, ma pure l'avvallamento della città. La seconda, la quale conserva in tutto la forma circolare, detta ora Torretta, è quella posta di rimpetto la casa antica Malavolta, ora Marchese. Da una porta praticata al piede di essa, si osserva la spessezza del muro, la forma architettonica interna, e per salirvi su fu giocoforza praticarvi una scala a chiocciola. Guardava il lato Sud, il Sud-Est e l'avvallamento, ove ora è la Piazza del Popolo, e la porticina di soccorso. La terza torre, posta sul largo Cola Croce, ora Garopoli, di sbieco alla casa de Rosis, guardata, non dona più aspetto alcuno di fortezza, perché la nobile famiglia Regna, ora estinta, abitandola vi accrebbero delle fabbriche, ed in alcune parti ne abbatterono interi muri, l'abbellirono; pur tuttavia entrandovi dentro, e guardando con attenzione la scala intagliata nei muri, le finestre ad angolo acuto, la spessezza dei muri, fatti di pietra scitosa, non si può riconoscere essere stata, nei passati secoli, fortezza. Vista dal di fuori della città, e specialmente dalla parte Ovest, o Sud-Ovest, a colpo d'occhio si rileva essere stata una fortezza di prim'ordine; perché è posta su di una roccia tagliata a picco, e nel piano inferiore conserva intiere le feritoie, ed una forma quadrata. Guardava Essa il lato Sud, il Sud-Ovest, l'Ovest e l'avvallamento che ora dicesi strada dei Mulini, una volta Cerria, ed insieme alla seconda Torre, proteggeva la Porta di Soccorso, o Portella. Nel muro di cinta dell'antica Ausonia, che congiungeva la seconda alla terza porta, e precisamente ove ora è la Via Garopoli, una volta Portella, i nostri avi praticarono una porticina di soccorso, la quale metteva nel Castelluccio e serviva per introdurre uomini e viveri nella città, in caso di bisogno. Per questa Porticina venne alla strada il nome Portella, che conservò fino al 1860. Il Castelluccio, era un luogo di presidio, come l'addimostra l'aggregamento delle fabbriche, la loro forma, la loro costruzione non solo, ma ancora quell'arco, che tutt'ora esiste, e su cui è poggiata la casa Chiappetta. Tale nome di Castelluccio ancora esiste, ed il Municipio lo mantenne nell'innovazione dei nomi fatta alle strade, per avere così i cittadini un ricordo di ciò che in quel luogo fuvvi una volta. Dei terrapieni, contraforti, piazze di armi e fontane, di cui fa parola il Pugliese, più non se ne veggono vestigia, e ciò perché la popolazione creciuta di molto su di essi ha fabbricato nuove case, costruite nuove strade.
...

CAPITOLO VII.

IL 1806— DISFATTA DEI FRANCESI A S. EUFEMIA — I FRANCESI SOTTO LE MURA DI CORIGLIANO — I FRANCESI IN CORIGLIANO — INCENDIO —SACCHEGGIO — ALLUVIONE DEL 1811.

 

1.° Eccomi giunto a quella parte della storia della patria mia, in cui l'animo rifugge andare più avanti, per non raccontare fatti, che fanno orrore e mettono ribrezzo e raccapriccio; ma purtroppo il dovere impostomi mi obbliga andare oltre; per la qual cosa, come colui, che piange e dice, racconterò le luttuose vicende del 1.° Agosto 1806, che toccarono all'infelice Corigliano. In questo racconto però non scenderò ad episodii particolari, mentre ve ne sono dei terribili, e ciò per non far nomi, e per non rendere esecrata la memoria di quei Giudi, che volendo pescare nel torbido, uniti ai forastieri, furono la causa del saccheggio, dell'incendio, del massacro, del……. della infelice Corigliano- Adunque io non farò altro, che raccontare le cose generali, e tutto lo farò con la scorta di un manoscritto, trovato fra le carte di memoria del fu mio genitore Luigi Amato, testimonio oculare dei luttuosi avvenimenti, e scritto tutto di suo proprio pugno, e mi servirò degli annali del dottissimo storico Cosentino Luigi M, Greco.

Disfatta dei Francesi a S. Eufemia

2.° Il Generale borbonico Stuart il 1.° Luglio 1806 con 6000 Inglesi, forte dell'artiglieria di mare, pose il campo, presso le sponde del golfo di Sant’Eufemia, per avere, in caso di una rotta, ricovero sulle navi. Temporeggiava a dare battaglia, col fine che si fosse divulgata la fama del suo sbarco, ed il disegno di voler combattere, e per far credere ciò, fe' circolare un proclama in data 2 Luglio, col quale assicurava i Calabresi, essere Egli venuto a solo scopo di sollevarli dall'oppressione Francese, e ricondurli al Paterno e leggitimo governo di Re Ferdinando IV. Lo stesso giorno 2 Luglio, il Colonnello Filippo Cancelliere, con grossa banda di volontarii, venne in aiuto dello Stuart, ed inselvossi nella vicina boscaglia del golfo di S.a Eufemia. Dall'altra parte il Generale Francese Regnyer con 4000 uomini occupò le alture opposte a questo golfo, le quali erano munite nei fianchi da folte boscaglie ed aveano di fronte il fiume Lamato, le cui paludose rive non permettevano guado alcuno per giungere alle dette colline. I borboniani dei circonvicini paesi di mal occhio guardavano il Regnyer, e gl'Inglesi vedendolo fortificato, non ardivano attaccarlo, e perchè erano privi dell'appoggio dei Calabresi, i quali, sebbene avessero promesso appoggiare i Regii, nol fecero, temendo di molto i Francesi; e Stuart, perché temeva il cattivo Aere delle paludi del Lamato, stava in procinto di levare il campo, allorquando giunse da Lui Fra Diavolo, ed in nome di Sidney-Smith, disse che i Calabresi sarebbero insorti, non appena i Regi, avessero riportato sul nemico un qualche vantaggio, che li avrebbe incuorati, e, fatti arditi, essi avrebbero circondato quei luoghi, chiudendo colle loro masse le strade; così intercetterebbero al nemico ogni comunicazione, ed il mezzo di avere rinforzi,ed isolarli. Stuart nonostante tutto ciò, e non prestando fede alle parole di Fra Diavolo temporeggiò altri due giorni, nei quali giorni, Regnyer ebbe un rinforzo di 3000 uomini. Fidando allora Egli sulla sua numerosa cavalleria, ed avido di lavare la macchia della disfatta, che in Egitto, lo Stuart gli fe' toccare, ai 4 di Luglio, sordo alle parole e premure che gli facea il Re Giuseppe Bonaparte, premure e parole recategli a voce, ed in iscritto dal Colonnello Le Brun, di non abbandonare la sua forte posizione, fino a tanto che non gli fosse arrivato il rinforzo speditogli, scende dalle alture nel piano, e procedendo in due linee parallele, e contrarie all'ordine di battaglia dello Stuart, col fine di tagliare a costui la ritirata sul mare, impegna battaglia. Dopo -breve scaramuccia delle truppe leggiere, di ambo le parti, il Regnyer, per spaventare il nemico, e spostarlo, ordinò l'assalto alla baionetta. Ma giunti i francesi, terribili nel primo impeto, a pochi passi dal nemico, lo Stuart fe' smascherare le batterie, e le palle e le mitraglie inglesi fecero macello dei Francesi. Circa 600 caddero fulminati, altri feriti e mutilati, e la prima linea andò tutta sossopra. Il Generale francese non perde il coraggio ed il suo sangue freddo, ed ordina che la cavalleria assaltasse i cannoni e li riducesse all'inerzia. Prodigi di valore furono allora operati dai Francesi, ma indarno cavalli e fanti pugnarono: un nuovo reggimente Scozzese allora allora giunto e posto dietro un muro, tira continuamente su i Francesi. I Calabresi, comandati da Cancelliere, escono dalle boscaglie, e li prendono alle spalle; un vento furioso di ponente tirando di fronte a costoro, alzando polvere e fumo, li accieca, dimodocchè le truppe Francesi soverchiate dal numero, accerchiate da tutt'i lati, acciecate dal vento, dopo due ore di accanito combattimento e sfortunata resistenza, si sbandarono, lasciando allo Stuart l'onore di una seconda vittoria sul loro Generale. Circa 3000 francesi furono uccisi; innumerevoli furono i feriti e i prigionieri, fra i quali il generale Campiere, che ebbe un braccio fratturato dalla mitraglia. Questa fu la celebre disfatta di S. Eufemia, che fu causa di tanto lutto a Corigliano.

I Francesi in Corigliano

3.° Avvenuta la rotta dei Francesi, i Calabresi, aizzati da pochi spietati borboniani, quali per timore, quali per avere un merito o una ricompensa, quali per maligno animo, si resero barbari e spietati verso i miseri disfatti, e macchiarono il loro nome con una inaudita strage di quegl'infelici, che dispersi pei boschi, ignari dei luoghi, andavano alla ventura, e cadevano fra le loro mani. Giunte queste cose alle orecchie dello Stuart, ne sentì vivo dolore e raccapriccio, e perciò diramò un proclama, che fe' noto al mondo la mansuetudine del prode isolano, e fra le altre cose diceva « Mi rallegro con essovoi del felice risultamento delle vostre armi. Desidero però che l'umanità non se ne allontani. Prima di ogni altra cosa vi raccomando di trattar bene i prigionieri. Vi ordino inoltre mandiate continue pattuglie per raccogliere i feriti, i fuggiaschi dispersi per le montagne ed i boschi. Vi prometto inoltre sei ducati per ogni soldato prigioniero, e venti ducati per ogni uffiziale che mi condurrete sano e salvo». Alla pubblicazione di questo proclama, l'odio efferato, la sanguinosa smania di strage, ebbero un po' di tregua, ed i poveri vinti e dispersi potettero alquanto respirare. Il 13 Luglio giunse un decreto di Re Ferdinando IV, stampato il 10 in Palermo, riguardante la vittoria di S. Eufemia, col quale, il Re, prometteva ai Calabresi varie cose, varii vantaggi con ampollose frasi, per infiammare l'animo dei popoli, e renderli più efferati contro i Francesi. Infatti, alla lettura di questo proclama i borboniani andiedero in sollucchero, ed inalberando da per ogni dove la bandiera bianca coi gigli, più fieri alzarono il capo, insultando, svillaneggiando e maltrattando coloro, che credevano favorire la causa della libertà, giudicando il loro Re essere vittorioso, specialmente dopo il trionfo riportato dagli Anglo-Sicani in Maida, e dopo la resa dei forti di Reggio, Crotone e Scilla nel 19 Luglio. Allora i Francesi venivano da pertutto scacciati, tormentati e privati di viveri e foraggi. Fu allora che il Regnyer, divisando unirsi al Verdier, nelle pianura di Cassano, ove aspettava rinforzo dal Re Giuseppe, lasciò Catanzaro. Quando il Regnyer partì dalla città, i volontarì borboniani, dalle alture, cominciarono a tormentarli, finché non giunsero alla marina, ove favoriti dalle navi regìe, che tiravano sulla colonna francese, ne fecero barbaro ed inqualificabile macello. Il vinto di Santa Eufemia, con rabbia indicibile nel cuore, tormentato dal grandinare delle palle dei guerriglieri Calibri, dalle palle della flottiglia, affrettò la marcia, e rapidamente giunse in Crotone; riprende il perduto forte, vi lascia nuovo presidio, e continua la sua rapida ritirata. Strongoli gli negò i viveri, e fu assalito, ed in meno di un'ora fu saccheggiato, insanguinato e bruciato. Cirò prima e poi Rossano aprirono le porte al malmenato Regnyer, non perché Cirò e Rossano l'amavano, ma perché lo temevano, e fecero uso della prudenza, somministrando viveri, foraggi ed alloggi, e furono rispettate le città. Molti fecero codazzo alla colonna francese, la quale il 1.° Agosto si presentò al Pendino di Corigliano, schierandosi, quasi in ordine di battaglia, su di un luogo detto Varìa, affinchè i Coriglianesi avessero veduto il numero, e ne avessero giudicato la forza; ma ciò che Cirò e Rossano con molta prudenza diedero, Corigliano negò. Prima di continuare il racconto mi corre l'obbligo di fare conoscere qualche cosa sulla disposizione degli animi dei miei concittadini.

I Francesi chiedono viveri ai Coriglianesi

4°.Nel 1806 era in Corigliano, quale comandante di piazza, e di una forza di pochi uomini raccogliticci, con dei birr ducali, senza ordine, senza disciplina e male armati, il nobile cavaliere Salvatore Pugliese, pronipote del dotto Pier Tommaso Pugliese, insignito del grado di Maggiore nel 16.° fanteria borbonica. Era costui valoroso, bastantemente istrutto nelle lettere e nella tattica militare; istruzione adeguata a quei tempi, e che i Borboni faceano dare nei loro reali Collegi. Era però fiero ed accanito borbonico, e per questo, di male occhio vedea il nobile patriota Orazio Malavolta, compagno di Guglielmo Pepe e di Pietro Colletta, il quale Malavolta, per sventura di Corigliano, trovavasi lungi dalla patria, presso Verdier; quindi il Pugliese unito a Della Canenea, a Scorzafave, a Casace e De Luca, capo ragioniere del Duca, ed al famoso Domenico Cuntari, uomini facinorosi, sfegatati borbonici, si ritirarono in consiglio a deliberare il da farsi, e quale condotta tenere se Regnyer si fosse presentato a Corigliano. Molto si disse in quel concilio, ed ognuno può immaginarsi le cose che si possono dire da uomini animati dallo spirito di un partito, che credevano non solo giusto, e santo, ma vincitore; ed infiammati dai proclami e dalle lettere, che Ferdinando e Maria Cristina scrivevano loro. Dopo avere il Pugliese inteso tutto, raccoltosi un po' in sé, disse: «E’ vero che le armi del nostro Augusto Sovrano sono vittoriose; è vero che i Francesi da per tutto sono scacciati e decimati; ma è pur vero che né Stnart, nè Sidney-Smith, né Cancelliere sono qui per difenderci, né noi possiamo opporre ad un nemico irritato, furioso per tante disfatte, terribile per gl'insulti sofferti, forze bastanti. Quindi è mio parere di non esporre la Patria, così male provvista di armi e di armati, ad un inutile spargimento di sangue, ed a qualche cosa di più grave conseguenza; per la qual cosa, se i Francesi si presenteranno, chiedendo la Razione, loro si dia».(sono parole testuali del Pugliese ). A questi sensati detti, tutti quei del Consiglio accusarono il Pugliese di poca fede all’amatissimo Re, e lo minacciarono di rapportare tutto all'Augusta Regina, dicendo, che il Pugliese potendo scacciare e battere i Francesi, per viltà li accolse, e nutrì, e molte altre parole. Il Pugliese nulla rispose a questi rimproveri, e mostrandosi oltremodo debole, o perché temeva la taccia d'infedele verso gli Augusti Sovrani, o perché avea paura della vita fra quei facinorosi, o per altra causa, che non sappiamo escogitare ( dice il manoscritto ) il certo è, che la sua debolezza, qualunque ne fosse stato il movente, fu causa di rovina, di lutto alla Patria sua, e macchiò così l'onore suo fino a quel tempo immaculato. Tutto fu concertato e deliberato, che, se i Francesi si fossero presentati, domandando viveri, la risposta sarebbe stata: La razione essere alla bocca del fucile. Ciò avvenne il 29 Luglio. Il Della Canenea, lo Scorzafave, il Casace, il De Luca ed il Cuntari, cominciarono a vociferare che i Francesi non sommavano al di là di 1000, ch'erano male armati, male vestiti, senza munizione, feriti, stanchi, e che perciò, se si fossero presentati, facile e sicuro sarebbe stato il combattere ed esterminare quegli eretici figli di Satana, che aveano osato attaccare la sacra persona del Re, e cercavano abbattere la religione di Cristo. Il popolo, più codino degli enumerati capi, allegro, festoso prende animo, applaudisce e grida: Morte ai Francesi, Viva il nostro Re, e va munendosi di armi e di munizioni.

Saccheggio e Incendi

5.° Il Regnyer, occupato il posto Varìa, con maniera piuttosto cortese, mandò uomini alla città, a chiedere viveri e foraggi. I Coriglianesi alle gentili istanze del Generale francese, superbi risposero: I foraggi ed i viveri noi li somministriamo colla bocca del fucile, se si vogliono, veniteli a prendere. Alcuni signori, disprezzando il pericolo a cui si esponevano in mezzo a quella canaglia indemoniata di borboniani, per salvare la patria dai pericoli, di cui era minacciata, si fecero arditi a persuaderli di mandare a proprie spese i viveri ed i foraggi, che si chiedevano; ma fu inutile, le loro preghiere furono vane. Questi benemeriti cittadini furono: DE GAUDIO INFANTINO, MORGIA M." FRANCESCO e MALAVOLTA PASQUALE. Notificata la risposta al Generale, ordina assaltare Corigliano, e per quanto fosse possibile, risparmiare sangue ed onore, I Coriglianesi, atti alle armi, furono appiattati dietro le mura dei giardini, che faceano siepe al fiume; fra le mura dei giardini di S. Domenico e del Carmine: altri dietro i muretti, che erano riparo all'unica via, che dal Carmine menava in città; via ripida, stretta; infossata: molti erano dietro gii alberi di ulivi sulle colline che stanno a cavaliere su d’essa via. Come videro i francesi avanzarsi aprirono un fuoco vivo e continuo su di essi, e siccome erano eccellenti tiratori, ne fecero macello, in modo, che il Generale suonò a raccolta, e fece avanzare la cavalleria, ponendola ai fianchi della fanteria: ma i Coriglianesi forti del riparo, baldanzosi per un principio favorevole, più vivo, più continuo, più serrato mantenevano il fuoco, fulminando, decimando i nemici, che a colonna serrata, assalivano. La cavalleria era presa di mira, e quei francesi, che ardivano saltare le mura dei giardini, fulminati nel salto, rotolavano sui compagni, portando tra loro scompiglio e terrore. Molti cittadini erano armati di falce bene affilata, e fìsse su lunghi bastoni, le quali portavano la morte ogni qual volta scendevano su i nemici, perché mosse da braccia di uomini robusti e forti, che pugnavano pel loro Dio e per il loro Re. Regnyer, vedendo il macello dei suoi, l'ordinata e ben diretta resistenza, la forte posizione dei Coriglianesi, e vedendosi quasi impotente di scostarli da là, era sulle mosse di retrocedere e dare volta, attendendo miglior fortuna, allorquando un Giuda gli susurra: Generale resistete altro poco, e poi fate finta di chiamare a raccolta la colonna, perché due battaglioni dì fucilieri sono andati per altra via, e fra non molto saranno alle spalle dei Coriglianesi. Così fu fatto, e Regnyer dopo poco suonò a raccolta, e, cavalli e fanti si scostarono dalle mura dei giardini, ed i Coriglianesi ingannati da questa falsa ritirata, respirarono, e già stavano per inalzare canzone di gioia. Fu molto breve la vostra gioia, o miseri cittadini... ! Molto a caro prezzo pagaste la vostra eroica ed ignorata resistenza! Il vostro sangue, che allagò la città, il saccheggio di essa, il suo incendio, caramente pagarono l'ardito coraggio che aveste nell'affrontare i vincitori di Europa. Il Giuda che avea votato Corigliano al saccheggio fe' salire i francesi fucilieri per la via di Ciaramella, per la valle di Lecco, e tutto ad un tratto piombarono alle spalle dei combattenti, ponendoli fra due fuochi. Allora la cavalleria nemica con impeto pari alla resistenza avuta, assale. Pure quei miseri traditi, non perdettero il coraggio, e chiamati dall'amore dei loro cari, non potendo più resistere, si sbandarono, e, correndo ognuno alla propria casa le resero fortini, e così continuarono a vendere caro la loro vita. Una colonna francese venne ad affrontare le prime case del quartiere S. Antonio, e fu fulminata, lasciando sul suolo molti feriti e cadaveri, fra i quali quello del figlio dell'Ammiraglio francese, della nobile famiglia Beauharnais, ufficiale di grado superiore, che cavalcava al fianco di Regnyer. Fu egli ucciso da un tale Antonio De Luca, soprannominato il Palliato, il quale tirava da un camino di una casa sito nel Pizzillo; e due aiutanti di campo, che per ordine del Generale corsero a dare aiuto all'ufficiale, mortalmente ferito, furono fulminati dallo stesso Palliato, e caddero l'un, sull'altro. Molti soldati, che, nel passare rendevano onore al figlio dell'ammiraglio, caddero freddati al suo fianco, per mano dello stesso De Luca. Luigi M. Greco, nei suoi annali, nota ancora la morte di questo ufficiale, ma non lo nomina. II Palliato, dopo aver fatto strage dei francesi, fu da questi ucciso il mattino del 2 Agosto, perché un tale Bonomo, della schiera dei Giuda, l'indicò ai francesi, come l'uccisore del loro ufficiale. Il numero, la disciplina e la cavalleria in breve domarono i valorosi o traditi Coriglianesi i quali, divisi, sparpagliati, senza capi, per le vie, per gli angoli delle case, negli androni, non più tiravano coi fucili, resi inutili, ma coi coltelli si avventavano ai nemici; altri con bastoni ferrati, con lunghi ed appuntati schidoni, detti dal volgo Spiti davano e ricevevano la morte. Nel seguente giorno si trovarono cadaveri di francesi abbracciati a quei dei Coriglianesi, in atto di mordersi a vicenda, e molti colla bocca serrata alla gola del nemico. La resistenza trovata, la strage fatta, la morte dell’ufliciale della casa Beauharnais, fecero si, che i soldati francesi non più poterono frenarci, ed aizzati, ed anima dalla cupidigia del saccheggio da quei Giudi, che facevano loro codazzo, non più udendo la voce del comando, cominciarono ad involare, bruciare, e far mano bassa su tutto e da pertutto. Molle furono le case arse nel quartiere S. Antonio, molte in altri punti della città, come la casa Otranto ove erano riunite tante schede di antichi Notari, con preziosissimi documenti per Corigliano; la casa Abenante, ove il fuoco durò molto tempo, per l'olio che trova vasi chiuso in un magazzeno a pian terreno, e varii giorni dopo in quel locale si trovò carbonizzato il cadavere di una vecchia signora Abenante, nomata Maria Grazia, ed oro ed argento liquefatto fra le macerie. La casa Morgia, derubata di tutto il prezioso, fu data alle fiamme; la casa Solazzi; la casa Municipale, ove si conservavano, nei suoi archivii, documenti aspettanti alla nobiltà della nostra Corigliano e libri preziosi .dei nostri concittadini. Le chiese furono tutte saccheggiate degli arredi preziosi, degli ori ed argenti lavorati. La statua di S. Francesco, tutta di argento massiccio, fu tagliata a pezzi, per essere agevolmente involata. In S. Maria, fra le altre cose, ,non si sa se rubata, o bruciata, la. Mitra del Vescovo di Corigliano, ed una Pisside di argento fu involata da un francese, che portolla in Marsiglia e la vendè. Dopo molti anni, questo francese, venuto forse in altra condizione, e mosso dal rimorso, ne fe' lavorare, in quella città, un'altra bellissima tutta a basso-rilievi, lavoro stupendo, e per mezzo dell'Arcivescovo di Napoli, la rimise in Corigliano, per essere data alla chiesa di S. Maria, ove si conserva con cura, essendo preziosa pel lavoro. La detta Pisside, con la lettera d'invio fu mandata nel 1840, e la lettera è registrata nel libro dei defunti a pagine 247, e firmata dall'Arciprete Alice, che la ricevè. Triste spettacolo facea Corigliano, che in varii luoghi bruciava, ed altrove avea le strade allagate di olio e di vino, perché quello che non si potea trasportare si buttava, si rompeva. Misto all'olio ed al vino scorrea sangue umano, ed, avvoltolati, insozzati fra questi liquidi, cadaveri di cittadini e di francesi. Altrove cadaveri mutilati, spogliati dalle vésti ed ammucchiati; gente che scorazzava per le vie; soldati e Calabresi, che seguivano le truppe, carichi di preziosi fardelli, scendevano dagli abbandonati palazzi, e, che correndo andavano a depositarli altrove; uomini, donne, fanciulli, canuti vecchi, sacerdoti, col crocifisso in mano, piangendo fuggivano, lasciando le case aperte alla cupidigia altrui. Terribile e lagrimevole scena!... Sei ore continuò il saccheggio, la rapina, i barbari omicidi. Molte famiglie rimasero nella più squallida miseria. Molte giovinette, molte donne e fanciulli, furono salvati, con qualche cosa di prezioso, nel monastero delle Clarisse, rispettato e fatto guardare a vista da una sentinella, dal Regnyer; molti trovarono scampo nel Castello, che alzò i due ponti a levatoio; moltissimi fuggirono nelle circonvicine campagne. Il Greco, nei suoi annali, dice: « Ricco, abbondante fu il bottino che fecero i Francesi in Corigliano ed io soggiungo che più ricco, più abbondante sarebbe stato, come più terribile la strage, se il nobile patriota Orazio Malavolta non fosse venuto a spronbattuto in Patria, chiamatovi dagli avvenimenti degli altri paesi, e presago di quanto dovea toccare alla sua terra natale, governata da quella Canaglia. Giunse un po' tardi è vero, cioè, quando un'incendio divoratore avea distrutto molte case, ma giunse in tempo per impedire altri incendii, altri misfatti, per calmare colla sua parola l'inasprito animo del Regnyer, il quale a Lui confidò il nome dei traditori della patria, e gl'istigatori di quell'incendio e rapina, ed a suo riguardo, la sera del 2 Agosto, lasciando nel più squallido lutto, nella più orrenda miseria molte migliaia di Coriglianesi, partì. Varii giorni furono impiegati a sepellire i cadaveri dei cittadini,a pulire le vie della città, a levare le macerie delle case bruciate. I cadaveri ammonticchiati dei francesi furono bruciati fuori le mura dei giardini, ed il corpo del giovane ufficiale Beauharnais, fu, per cura del Malavolta, sepellito nella chiesa del Carmine. Molto tempo dopo, verso il 1837, si trovarono nella sepoltura, ove fu posto, delle medaglie, una spada, delle armi, bottoni e galloni di oro anneriti, e si disse, essere appartenuti all'ufficiale francese, ucciso dal Palliato. La spada si conserva tuttavia nella casa Persiani, a cui apparteneva la sepoltura. Il Pugliese, travestito, fuggì, lasciando moglie e figli nella miseria, e solo se n'ebbe nuove nel 1815, allorché Ferdinando IV tornato da Sicilia, lo nominò Colonnello, Comandante di Castellammare, ove morì. Il De Luca fu ucciso il 20 Settembre 1806, con una pugnalata avanti il primo ponte a levatoio del Castello; il Della Canenea ed il Cuntari fuggirono, e questi scorse la campagna coi briganti'

Alluvione del 1811

6.° Erano passati appena cinque anni dall'epoca in cui avvennero tante funeste o luttuose vicende, ed i miseri Coriglianesi cominciavano a poco a poco a porre in oblìo il saccheggio, l'incendio della Città, ritenendo però sempre fìssa nell'animo la memoria e l'immagine dei loro congiunti, barbaramente uccisi nel 1° Agosto 1806: qnando una tempesta orribile e memorabile venne a scatenarsi su d'essi, che fe' rinnovare dolori, e piaghe che stavano lenendosi e rimarginandosi. Era il 10 Novembre 1811 ed il Cielo tranquillo, qual'è sempre il Cielo della nostra Corigliano, negli ultimi giorni di Autunno: solo l'aria era un po' oppressiva, ed un insolito calore si avvertiva. Verso la 3 p.m. un furioso vento di Ponente incominciò a tirare raffiche tanto impetuose, che gli abitanti di quella parte Ovest della città, temendo, che le case crollassero, impauriti, fatto fardello delle più preziose masserizie, cercarono asilo in altre case, ove i buffi violenti ed impetuosi non fossero arrivati, o se vi giungessero, fossero infranti e minorati dal baluardo, che loro faceano le abbandonate case. Fu savio e prudente consiglio, imperocché dopo poco si videro tegoli, tavole di queste case, portate via in luoghi lontani, camini diroccati; travi caduti. Il vento svelse dalle radici alberi secolari, e come leggiere festuche trascinarle altrove. Dopo quasi un'ora e mezzo di sì furioso vento, il cielo abbuiossi, ed annottò pria dell'Ave Maria. La furia del vento cominciò allora a cadere, le raffiche si fecero meno violenti e più rare, e presero i loro imperio i lampi, che con striscie sanguigne solcavano il ciclo; i tuoni, che sprigionandosi fra le ammonticchiate nubi, cupi scrosciavano. Vari bovi furono uccisi dalla folgore, e tre miseri bovari vi rimasero cadaveri. Alberi di quercia furono dal fulmine incendiati, e quali fiaccole diradavano le fitte tenebre della campagna. Nella città, due misere donne, tornando dalla fontana dalla Piazza del Popolo, furono colte dal lampo; una rimase lì per lì cadavere, e l'altra accidentata nella destra metà del corpo, morì mutola dopo pochi giorni. Verso le 6 p. m. cominciò a venir giù una pioggia dirotta, incessante, che spinta alle volte dal vento., scroscia. Va suoi tetti, sulle imposte, come grandine. L'acqua aumenta nelle ore della notte, tanto, da far credere ai miseri cittadini, che un altro diluvio fosse venuto a punire i mortali. Così durò tutta notte, senza intermettere né perdere di forza un minuto, varie case, poste a livello della strada, colla porte, furono allagate dalla lava, ed i miseri inquilini vennero ospitali altrove, ove ignudi, atterriti fuggirono, trovando quivi ancora gente atterrita, e case piene di acqua, che a catinelle veniva dai tetti, e piangendo a vicenda, fra le lagrime, lo spavento, il terrore inalzano preci, invocano il S. Paolano; altri gridavano al soccorso dalle finestre, per essere le loro case invase da grande quantità di acqua; altri mormorano orazioni; altri chiamano le Commare di battesimo, ma quelle che tennero al fonte fra loro varii figli, che dal volgo sono detti Sangiovanni Fontali. dimandandosi di qual giorno veniva il Natale seguente; perché è credenza invalsa nel nostro popolo, che se la domandata donna da prontamente, senza reticenza, o sbaglio, risposta, questa ha potere di calmare il maltempo; altri bruciano rami di Palma benedetta il Sabato Santo; altri accendono candele benedette, che si dispensano il 2 Febbraio, giorno della Purificazione di Maria, detta altrimenti Candelora, e tutto su i davanzali delle finestre; perché, dicono, aver il potere di frenare l'acqua. Tutta la notte fu trascorsa in veglia, pianto e preghiere, finalmente spuntò l'alba del giorno 11 e dopo 14 ore di torrenziale pioggia, l'acqua venne meno, e cessò del tutto dopo le 7 del mattino, così si cominciò a respirare, ma un terribile e desolante spettacolo attendeva i miseri cittadini. Il Coriglianeto, gonfio pei varii scoli di acqua, che raccoglie da tutti i monti, fra cui scorre, dalle frane che successero, dall'acqua che a secchi cadde dal cielo, straripò in modo, che a memoria di uomo non più si vidde, e furioso sbarbicando alberi, piante, ove ne trovava, rotolando macigni, atterrò prima i mulini, e le tre Gualchiere da sodare i panni - lana che esistevano, come dice il Pugliese; poi carico di materiali, quale valanga, atterra fabbriche, muri, giardini che a destra ed a sinistra delle sue sponde erano siti, lasciando, ove gli orgogliosi agrumeti faceano ricca mostra di sé arena, pietre, tronchi di alberi; le case rurali, quelle di delizie e la diruta chiesetta di S. Marco, furono metà crollate, metà sepellite dall'arena, e tutt'ora si veggono; e ciò che pria era finestra, ora e porta d'ingresso. L'impeto del fiume acquistando sempreppiù forza nel cammino, va per le Paludi, Visselle, ne distrugge molte, ne scrolla ed abbatte le case coloniche; altre ne copre di arena, e va nella Schiavonia, e non trovando resistenza, si allarga, si accresce con altri scoli, ed avvolge fra le sue torbide onde il fabbricato della Taverna Vecchia; abbatte le sue porte, entra nei magazzeni pieni di formaggio e di coppi con olio, rovescia questi, quello trascina seco fino al mare, ove schiumoso sbocca, lasciando sempre arena e pietre. Incalcolabili furono i danni, e per i giardini, pei frutteti, per le visselle, per gli olivi, ch'erano nel principio del ricolto, per le fabbriche distratte, e coverte di aréna, per le vigne della Costa, quasi intieranente distrutte, e che di allora in poi non più si ripiantarono. Danno che fu allora calcolato ad un milione di ducati. Il terréno del Pendino fu allora rialzato dal primiero livello di circa tre metri, e.ciò si osservò nella fabbrica del pozzo, che il fu Cav. Domenico Solazzi fe' costruire, molti anni dopo, per uso della fabbrica di liquerizia, trovandosi alla profondità dì 3 metri, utensili di creta, di rame e di ferro, che servivano» alle donne per imbianchire i panni-lini, ruderi di fabbriche abbattute ed altri oggetti.

Così Corigliano ebbe a soffrire dopo il 1806 un'altra sventura e fu l'alluvione del 10 all'I 1 Novembre 1811