Chiesa di Santa Maria Maggiore

Denominazione : Chiesa di Santa Maria Maggiore
Descrizione : Risalente al X secolo, aveva in precedenza il nome di Santa Maria Assunta della Platea. Venne ricostruita nel 1329 dal conte Ruggero Sangineto e restaurata nelle forme attuali nel 1744  a cura dell'arciprete Francesco Maria Malavolti. L'interno ad una sola navata conserva una tela seicentesca attribuita al pittore Cesare Fracanzano  (Sant'Agata in carcere), un ciclo pittorico settecentesco del pittore Pietro Costantini da Serra San Bruno e un grande organo del 1757. Il coro in legno intagliato nell'ultimo quarto del Settecento si deve all'ebanista Agostino Fusco di Morano Calabro, mentre nella sacrestia, con arredi lignei intagliati e dorati, è conservato uno dei più ricchi e antichi archivi ecclesiastici della città. Il campanile è stato utilizzato anche come torre civica. 

Indirizzo : Piazza Il Fondaco   

Così, nel 1884, su Crono-istoria di Corigliano Calabro, Giuseppe Amato scriveva :

La seconda Chiesa per fondazione è Santa Maria della Platea, la quale fu fabbricata dopo la venuta dei Mauresi cioè verso il 960 dell'E. C. Era ufficiata da 30 sacerdoti oltre all'Arciprete. Di questa Chiesa dice l'Ughelli : Altera Ecclesia Archipresbiteralis, cuius servitio plures sacerdotes adscripti sunt. Il suo prospetto è d'ordine composto: il suinterno è formato di una navata ed a sinistra di mezza navata con tre cappelle sfondate: a destra tiene altari fra un pilastro e l'altro. Il cielo della navata è a vòlta, diviso in tre cupolette, una che principia dai pilastri della prima cappella e va fine ai pilastri di destra: tiene nel suo mezzo un'affresco raffigurante la Visita della Vagine a S. Elisabetta; l’altra che si estende come la prima, dai pilastri della seconda cappella a quei di destra, tiene un SS. Sacramento,di stucco rilevato, e tutto dorato, con angeli, che hanno turiboli,ombrelli e fiorì, tutti dipinti a fresco: la terza, che si avanza come le precedenti, ha un’affresco della Vergine Assunta. Tutte e tre queste cupolette hanno arabeschi, fiori, tutti dorati. In mezzo la navata grande, alla parte sinistra, fra la prima e seconda cappella, su di un piccolo pianarottolo a due gradini, è posto un magnifico Battistero di marmo bianco, impellicciato a diversi colori ed intrecciato artisticamente, con una colomba, posta sul vertice di esso, scolpita su marmo di Carrara, in modo meraviglioso; sotto la colomba si leggono queste parole: Fidelitas et Amor 1787. L'Altare maggiore si solleva su di un piano, sopra quello della Chiesa, alto per un gradino, e forma un piazzale, chiuso da una balaustrata di marmo bianco impellicciato, a diversi colori; l'altare è tutto di marmo bianco impellicciato, e si alza su questo piazzale per 4 gradini; ai due corni, per finimento, vi sono due teste di angioli, scolpiti al naturale; alle basi delle due colonnette si osserva un cappello, quasi cardinalizio, su marmo colorato, ricordo lasciato da Monsignor Felice Solazzi, prete di questa Chiesa, quando fu eletto Vescovo di Bisignano. Quest'altare fu fatto erigere a proprie spese dell'Arciprete Francesco Malavolta, morto nel 1750. Dietro l'altare v'è un coro bellissimo, pregevole pel legno di cui è fatto, e pel lavoro. Su di esso si vede un quadro dell’Assunta, molto bello. La prima cappella dedicata alla Visitazione di Maria a. S. Elisabetta è chiusa da una balaustrata di marmo bianco: l'altare è pure di marmo bianco finissimo, a diversi colori impellicciato, e su di esso si osserva un foro fatto da un fulmine cadutovi il 30 Giugno 1849. Il Quadro della Visitazione è opera di un pennello oltremodo esperto, ed è una delle rarità di Corigliano: sul capo della Madonna v'è una mezza Corona di argento purissimo. La seconda Cappella, dedicata al SS. Sacramento, è grandissima, chiusa da una balaustrata di marmo bianco: l'altare è pure di marmo bianco di Massa-Carrara, ed à per finimenti su i due suoi lati, due Angioletti, dallo scultore scolpiti in marmo finissimo così al naturale, che sono stati giudicati opera d'immenso valore. Nel muro di questa Cappella e proprio in Cornu Epistoloe, in una nicchia, incavata nella fabbrica, e chiusa da due piccole imposte, si conservano in una cassa di Ebano, intagliata ed intarsiata con bei lavori di bronzo dorato, le ossa del Martire Celestino. La terza Cappella innalzata al Protomartire S. Stefano, à pure l'altare di marmo bianco, ed il quadro n'è bellissimo. Il dipinto più bello per finezza di profili, per penombra, per atteggiamenti, è quello del Crocifisso, posto sul primo altare a destra, entrando in chiesa. Ha un grandissimo Organo, armoniosissimo, su un'orchestra sostenuta da due colonne di stucco; ha un succorpo al disotto, ch'è quasi grande quanto tutta la navata; ha una bellissima sagrestia. È ricca oltremodo di sontuosi: parati; per argenti lavorati ed in abbondanza, fra questi bellissima è una Pisside — della quale parlerò altrove — stupendamente lavorata tutta a bassorilievi. Questa Chiesa fu la sola, che più di tutte le altre mantenne il rito greco, ed era suo esclusivo privileggio celebrare la festa delle Luminarie, ossia della Epifania, fu consacrata da MonsignorFelice Solazzi il giorno 23 Novembre 1744. È ufficiata con tutta cura, ed è tenuta benissimo; ora è la sola Chiesa, che, in Corigiiano, abbia un clero, il quale seconda il volere del suo Arciprete. 

[per rendere più semplice e rapida la lettura del documento ho ritenuto opportuno apportare sul testo originale solo poche modifiche per "svecchiare" alcuni elementi grafici]
Giovanni Scorzafave

Video 1 parte

Video 2 parte

La Chiesa di Santa Maria Maggiore una volta Santa Maria Assunta della Platea o della Piazza (sec. X).

Nel corso dei secoli è stata sottoposta a numerosi restauri: particolarmente significativi quelli del 1744 e quelli del 1981. Nel timpano della facciata barocca è collocata una statua in legno della Madonna Assunta. Il parroco di Santa Maria Maggiore porta il titolo di Arciprete.

Sulla facciata del campanile, che nei secoli ha avuto anche funzione di torre civica, si trova una meridiana con i segni dello zodiaco. La torre campanaria è visibile per solo tre ordini: il primo tamponato, il secondo che accoglie le campane, il terzo con gli orologi. La chiesa ha una sola navata, con tre cappelle laterali a sinistra.Un’orchestra, sostenuta da due colonne, contiene un organo di grandi dimensioni e di notevole valore artistico, costruito nel 1757 da Pasquale Iori e restaurato nel 1983. Dopo l’ingresso, a sinistra, un bel Fonte battesimale di marmo policromo intarsiato (1782). Sulla parete laterale destra sono poste quattro tele: una Sant’Agata in carcere attribuita a Cesare Fracanzano (1605-1652); una Crocifissione di autore ignoto; un S. Francesco d’Assisi ed un S. Francesco Saverio. In mezzo a queste due ultime tele e prima del presbiterio, si trova un pregevole blocco ligneo di certa fattura settecentesca, con confessionale sormontato da pulpito e baldacchino. Nella volta, in alto, in corrispondenza delle cappelle laterali, tre dipinti: una Visitazione,una Adorazione Eu­caristica ed una Assunzione. Nel catino dell’abside, una Madonna Assunta. Particolarmente interessante l’altare maggiore, di marmo commisso, risalente alla metà del XVIII secolo e dietro di esso, un bel coro in legno del tardo settecento. Pregevoli il Battistero a forma templare con tarsie policrome.Nella prima cappella troviamo un dipinto che raffigura la Visitazione di Maria a S. Elisabetta mentre nella seconda, detta del SS. Sacramento un altare di marmo, magnificamente lavorato e nella terza cappella la Glorificazione di Santo Stefano. Nella sacrestia sono conservati alcuni stipi, opera di artigiani locali del ‘700 e sul soffitto della chiesa l’Ultima cena. Due tele sono collocate sulle pareti, una Santa Rita da Cascia ed una Santa Lucia. All’interno si custodiscono, inoltre, preziose tele, un magnifico pergamo in legno, nonché il più fornito archivio parrocchiale della Diocesi.

(Pro Loco di Corigliano Calabro)

Altare del Santissimo (Foto di Giovanni Ursino)
Altare del Santissimo (Foto di Giovanni Ursino)

Le origini della confraternita

di S. Maria delle Grazie

di Enzo Di Martino

Chi entra nella chiesa di S. Maria Maggiore, un tempo detta “della piazza” per trovarsi sita nelle vicinanze dell’antica piazza del fondaco, dopo aver goduto del colpo d’occhio offerto dalle decorazioni plastiche di gusto rococò, che avvolgono il visitatore in un caldo abbraccio e aver avuto modo di osservare da vicino la bellezza delle linee del Coro scolpito da Agostino Fusco sul finire del Settecento, resta in particolare colpito dalla bellezza degli arredi marmorei, a cominciare dall’elegante fonte battesimale, per passare poi all’altare maggiore, al maestoso altare del Santissimo Sacramento e ai due altari che si collocano ai lati di quest’ultimo: l’altare del Purgatorio e quello della Visitazione. Tutti gli elementi si fondono armonicamente e vengono esaltati dal contesto che fa immaginare quanti e quali sacrifici abbiano consumato non soltanto i parroci (e tra questi D. Santo Aquilino, al quale si deve il titanico sforzo di restauro e recupero del complesso architettonico, che va avanti ininterrotto da oltre trent’anni) e il clero, un tempo numeroso, ma anche i fedeli figli della parrocchia, i quali hanno sempre visceralmente sentito l’unione con la loro chiesa. In particolare quello della Visitazione attira l’attenzione per l’eccellente lavoro artistico dei marmorari che fa da cornice alla tela del buon Pietro Costantini: testimonianza di una committenza che non si accontentava con facilità ma che desiderava eccellere nel dimostrare, attraverso l’opera realizzata, quale patrimonio di fede e devozione fosse sotteso al proprio impegno finanziario. Nel caso specifico, patrocinatori dei lavori furono i confratelli del pio sodalizio di Santa Maria delle Grazie, una delle tre confraternite che trovavano ospitalità nella chiesa di S. Maria: le altre due erano l’arciconfraternita del Santissimo Sacramento e la confraternita delle Anime del Purgatorio. Dalle regole settecentesche della confraternita, apprendiamo che i confratelli di S. Maria delle Grazie festeggiavano con particolare solennità la Novena di Natale, animando la liturgia con musica e omelie che si tenevano, secondo l’antico solito, dopo i Vespri; celebravano l’ottavario e la festa della Visitazione con una solenne processione, ripetendo tali cerimonie in occasione di tutte le festività della Beata Vergine, consacrando a Lei ogni sabato sera la celebrazione delle lodi e la recita dei sacri cantici. L’intensa religiosità coltivata da questo gruppo di fedeli è in linea con il desiderio nutrito dalla gran parte del popolo cristiano, soprattutto tra la fine del Quattrocento e i principi del Cinquecento, del rinnovamento spirituale di una chiesa che appariva lontana dai suoi fedeli, amministrata da un clero a volte inadeguato a svolgere de-gnamente la propria missione: come è stato recentemente notato da uno storico della Chiesa, «la distanza sentita tra l’istituzione ecclesiastica e le nuove esigenze religiose porta anch’essa verso la Vergine, vista e sentita come una figura, a un tempo più umana, cioè vicina e misericordiosa, e più sovrumana, cioè pura dalle corruzioni e dalle meschinità di molti ecclesiastici, immagine e promessa di una Chiesa santa». Da qui il diffondersi della devozione mariana «a tutti gli strati sociali, soprattutto ai più popolari» e il fiorire delle confraternite che si dedicavano alle opere di misericordia sotto il gonfalone della Vergine, e tra queste anche la confraternita delle Grazie. Volendo approfondire la sua storia, è necessario svolgere ricerche tra gli incartamenti del suo archivio, che tuttavia non riesce a soddisfare la curiosità di individuare, anche in maniera approssimativa, la data di nascita del sodalizio: le scritture contabili più antiche sono datate al 1606, ma la maggior parte della documentazione è di epoca otto-noventesca. Le vicende più antiche, dunque, restavano avvolte in una coltre di nebbia difficile da diradare. Solo recentemente è stato possibile ricostruire alcuni passaggi fondamentali nella storia della confraternita che hanno aiutato ad aprire un largo spiraglio sulle sue vicende tra Cinque e Seicento.

Occorre sapere che i confratelli di S. Maria delle Grazie non hanno avuto sempre la loro sede nella chiesa che oggi ospita il loro sacello: essi vi giunsero in seguito a circostanze singolari che brevemente racconteremo. In origine questa confraternita era nata in una cappella sita nelle vicinanze del convento dei padri Carmelitani, al Pendino, quasi nei pressi dell’ospedale fondato nell’agosto del 1561 da don Giovan Tommaso Pyrro-no «pro beneficio pauperum infirmorum et aliarum miserabilium personarum», un ospedale, la cui chiesa, intitolata a S. Maria della Pietà, sarebbe stata dal 1608 servita dai Fatebenefratelli, che per due secoli (salvo una piccola interruzione a metà Seicento a causa della soppressione del convento, riaperto nel 1676) avrebbero assicurato l’assistenza sanitaria a poveri e malati.

Dalla visita pastorale svolta nel 1590 dall’arcivescovo di Rossano Scipione Floccari, apprendiamo un particolare importante: la confraternita, governata da tre procuratori, già esisteva nel 1507, come era possibile rilevare da un’iscrizione che ricordava come proprio in quell’anno i confratelli avessero fondato la cappella. L’inflessibile arcivescovo chiese però se esistesse la bolla di conferma apostolica, e constatane l’assenza, ordinò ai procuratori di ottenerla entro il termine perentorio di sei mesi. A causa della vicinanza del convento dei Carmelitani, i confratelli per coltivare le loro devozioni e per assicurare suffragi alle anime dei loro fratelli defunti, facevano celebrare dai padri del convento cinque messe la settimana nella piccola cappella, dotata, oltre che dell’altare maggiore anche di un altro altare dedicato a S. Maria della Pietà. Il presule constatò che nella chiesetta tra gli altri arredi, che risultavano in buona parte molto sciupati, si trovavano tanti voti in cera: erano la testimonianza di quanto fosse radicato l’affidamento a Maria e delle grazie ottenute per sua intercessione. I confratelli per le loro processioni usavano recare in mano fiaccole, con le quali si accompagnava il lanternone che precedeva il crocifisso e il gonfalone confraternale. L’arcivescovo constatò la mancanza del gonfalone e prescrisse che fosse fatto di damasco bianco con frange e stelle dorate, cucendovi sopra due immagini della Ma-donna dipinte su tela.

La confraternita poteva contare su un patrimonio di tutto rispetto, costituito da rendite e case, ma ciò che pareva rendere di più, almeno dai conti presentati per l’occasione all’arcivescovo, era una bella mandria di sessanta vacche e due giovenchi. Probabilmente gli animali fornivano, con la quota di latte non destinata al commercio, una base alimentare da distribuire ai poveri mendichi del paese per la loro sussistenza.

La vita della confraternita era, quindi, divisa tra le pratiche religiose, garantite dalla solerzia dei padri carmelitani, le processioni in occasione delle principali ricorrenze religiose, le questue in favore dei poveri bisognosi e la distribuzione delle elemosine. Tutto ciò venne turbato dalla pratica del diritto di asilo, molto diffusa in quei tempi: infatti, chi si fosse macchiato di crimini anche particolarmente cruenti, come un omicidio, o anche che avesse voluto scampare la carcerazione per debiti, non trovava di meglio che sottrarsi alla cattura andandosi a rifugiare in una chiesa. La pratica assicurava l’immunità per un lungo periodo (le autorità ecclesiastiche erano particolarmente gelose delle loro prerogative e quasi mai permettevano alle autorità laiche di entrare in un luogo sacro per effettuare una cattura) godendo del diritto di non essere offeso ma per ovvie ragioni procurava grave scandalo tra i fedeli; se poi i fuggitivi trovavano rifugio nei conventi e nelle piccole chiese poste fuori dal centro abitato, poco controllabili e facili ad essere trasformate in ricettacoli di malviventi e soggetti di dubbia moralità, i superiori si trovavano costretti a operare soluzioni drastiche.

Fu proprio a causa di tale diritto che la chiesetta delle Grazie non raggiunse il secolo di vita: «per esser diventata detta chiesa un ridotto di contumaci ne risultavano inconvenienti», come è spiegato in una relazione. Per tale motivo l’arcivescovo Lucio Sanseverino, visitando la forania di Corigliano, per troncare alla radice ogni male, ingiunse con suo decreto del 14 novembre 1605 che la confraternita fosse trasferita nella chiesa di S. Maria Maggiore, le cappellanie erette al suo interno fossero spostate nella chiesa dei padri Carmelitani e che la chiesetta fosse rasa al suolo per evitare ogni possibile dubbio.

 

La decisa azione dell’arcivescovo Sanseverino permise così di salvare il patrimonio di devozione dell’antico sodalizio che nella sua nuova sede, nell’antica chiesa mariana sita nel cuore pulsante del borgo, conobbe una lunga stagione di fraternità e preghiera ancora viva nel ricordo degli anziani e testimoniata dalle sue antiche carte.

Notizie storiche di Luigi Petrone

Chiesa di Santa Maria Maggiore

 

Le vicende costruttive di questa chiesa, come un lungo e fascinoso viaggio nel tempo, si svolgono distribuendosi nell’arco di cinque secoli. Aggrappata con i suoi antichi rioni in cima al pianoro, edificata dove un tempo si trovava l’antica “platea mercatorum”, il primitivo impianto è probabilmente riconducibile ad una chiesetta di fondazione bizantina risalente tra il X e l’XI secolo. Rari elementi riferibili ad una fabbrica antica, lacerti di muratura in prossimità del transetto, stanno a documentare una stratificazione storica di indubbia arcaicità, come provano la lettura della tessitura muraria della cripta, strutture e ambienti voltati (lamie) risalenti al XV secolo riportate alla luce negli spazi sottostanti.

L’edificio si dispone con caratteri dominanti nel tessuto medioevale, in rapporto diretto con l’asse viario primario e la piazza antistante dalla quale anticamente ne prendeva il nome (de platea). La chiesa sorge in fondo alla piazza, all’interno di uno spazio urbanistico prestabilito, che consentiva in passato una visione completa dell’edificio in seguito negata dal sorgere di nuove fabbriche (casa dei Morgia). In epoca angioina, intorno al terzo decennio del ‘300, viene riedificata per volontà di Ruggero Sangineto conte di Corigliano con il titolo di Santa Maria Nuova quando, come precisa un breve del 18 marzo del 1329, viene concesso ai fedeli in visita alla chiesa della Beata Maria Nova de Coriolano nella ricorrenza dedicata a Maria Vergine l’indulgenza di sessanta giorni.

Santa Maria della Platea viene rimaneggiata nel XVI secolo. In un documento della fine del Cinquecento, un frammento di una visita pastorale compiuta dall’arcivescovo Scipione Floccari nel 1590, apprendiamo che vi erano un gran numero di ‘cappelle’ (dodici), certamente poco più che altari che non dovevano avere molto della struttura essenziale di una cappella. La disposizione di queste e più in generale l’assetto della chiesa furono radicalmente trasformati negli anni prossimi alla fine del Seicento quando iniziarono quei rimaneggiamenti che l’avrebbero del tutto trasformata. Nel corso del Settecento, con una concezione spaziale del tutto diversa, viene completamente rifatta. Accanto al cappellone del Sacramento si realizzano due nuove cappelle aperte da arcate a tutto sesto. L’ampliamento della fabbrica, che si allunga in senso orizzontale rispetto all’antica, configura una nuova centralità che è compiutamente raggiunta in corrispondenza non dell’altare maggiore della navata, ma in quello della cappella del Santissimo Sacramento il cui accesso è mediato con un ampio arcone che assicura l’unità spaziale [i]. La parte di navata antistante la Cappella si comporta come una sorta di atrio alla cappella stessa. La disposizione planimetrica adottata ruota attorno alla Cappella del Sacramento il cui rapporto con lo spazio absidale è sottolineato dalla differenza di quota, come il tetto a quattro spioventi che lo ricopre ne sottolinea l’autonomia costruttiva.

I rifacimenti di questo periodo modificheranno profondamente l’aspetto cinquecentesco, ma resta in qualche modo documentato il passaggio dalla forma precedente a quella successiva. In un documento del 1719, a lavori non ancora intrapresi, la navata aperta da due ingressi era coperta con una “tempiata a quadretto” (un soffitto piano a cassettoni), ed abside costolonata con copertura a lamia a croce, termine con il quale i costruttori indicavano la forma arcuata di una copertura. Promotore di questi importanti rimaneggiamenti fu Francesco Maria Malavolti eletto arciprete il 14 ottobre 1734. Non del tutto compiuta, viene riconsacrata il 24 novembre del 1744 con il titolo di Santa Maria Maggiore come rammenta una modesta epigrafe posta a destra della porta d’ingresso. I lavori settecenteschi cancellarono completamente le ultime vestigia della costruzione cinquecentesca che mostra ancora su un fianco della chiesa tracce di finestre architravate.

La rielaborazione degli interni ci fornisce una gradevole interpretazione del rococò napoletano nelle esuberanti decorazioni in stucco e nella dinamica sistemazione degli spazi. L’impiego del marmo lavorato a tarsia viene adoperato come motivo ornamentale unitario [ii]. Molto belli gli altari settecenteschi in commessi marmorei che adornano il presbiterio e le cappelle laterali realizzati, senza timore di deludere i precedenti committenti, da maestranze napoletane. I suoi altari in commesso sono tra le prime mense marmoree a comparire in città.

Gli artefici di queste trasformazioni furono capomastri di grande perizia che seppero inventari spazi riccamente articolati e conclusi. La decorazione plastica, almeno inizialmente, viene affidata a decoratori del circondario. Nel 1698 Francesco Antonio Toscano di Terranova esegue la decorazione in stucco nella cappella delle Grazie. Il decoratore si impegnava a «...stucchiare di stucco vero il primo arco dalli Capitelli, e per tutta la circonferenza di detto arco in quel modo, che appare l’arco della ven.e Cappella del SS.mo con farci di vantaggio tre puttini, …due sole fruttere cascanti …e dentro delli spazi di detti lati farci due figure della festività di una signora una per lato …e nelli quattro angoli pittarci à sguazzo li quattro evangelisti...». Analoghi interventi sono compiuti nel 1756 nella cappella del Purgatorio dallo stuccatore Donato Sarnicola di Paludi che, insieme a Carmine attivo nel 1757 nella chiesa di Santa Maria Maddalena di Morano, elabora motivi barocchi diffusi da Napoli.

Mentre è elevata la navata principale e ridefinita la zona absidale, viene realizzata la nuova facciata. Disposta su tre ordini, questa è delimitata da pronunciate lesene angolari raccordate con altre curve che le conferiscono un caratteristico aspetto inflesso. Al di sopra di un portale incorniciato da una piattabanda in arenaria, l’infittirsi di modanature in progressivo aggetto forma due cornicioni tra i quali si apre un finestrone dal mosso profilo racchiuso da una cornice rococò. La facciata, tra ornati di forma capricciosa e mossi, si conclude con grande equilibrio in un timpano di coronamento, ricco di motivi decorativi, di volute e pinnacoli, che accoglie in una nicchia la statua lignea a tutto tondo dell’Assunta. L’armoniosa scansione, l’equilibrio compositivo e l’intenso pittoricismo indicano quale sconosciuto autore di questa facciata uno stuccatore capace d’intendere con originalità la lezione barocca. All’esterno le aperture sono ridimensionate nei consueti finestroni barocchi dalla forma panciuta inflessa in alto.

L’edificio presenta una pianta a navata unica aperta, sul fianco di ponente, da tre profondi arconi che danno andito ad un’ampia cappella accompagnata da altre due di minori dimensioni. L’orientamento attuale probabilmente solo in parte rispetta quello precedente. A questo proposito è utile rilevare come la cripta ipogeica sia posta non al di sotto dell’attuale presbiterio, come si dovrebbe attendere, ma della cappella del SS. Sacramento quasi a ricordare una diversa sistemazione.

L’interno, illuminato da vetrate (moderne), si presenta come quello di una tipica chiesa barocca, con diffuso paramento in stucchi chiari e altari sulle pareti. Il percorso inizia dal primo altare di destra dove una tela con una drammatica Crocifissione precede un dipinto accademico settecentesco raffigurante la Vergine col Bambino tra i Santi Francesco Saverio e Antonio da Padova. Del terzo altare situato in corrispondenza del presbiterio rimane soltanto la pala d’altare, un’opera del pittore serrese Pietro Costantini una delle poche figure di pittori di cui si conoscono gli estremi biografici (1731-1793), eseguita nel 1758 con l’immagine di San Francesco d’Assisi in adorazione del Bambino. In prossimità della linea del presbiterio si ammira il pulpito confessionale in legno di noce, lavoro d’intaglio della seconda metà del ‘700.

Sul lato opposto, tra la prima e la seconda campata della navata, si osserva un’interessante espressione del barocco napoletano. Il fonte battesimale, eseguito dal marmoraro napoletano Marino Palmieri nel 1782 per conto di Giovan Vincenzo della Cananea, è una pila circolare cadenzata da cherubini e da una graziosa colomba di candida pietra posta alla sommità di un cappello ottagonale fabbricato con tarsie marmoree di grande effetto decorativo. Due balaustrate marmoree del XVIII secolo, aperte da cancelletti d’ottone a due battenti, separano la navata dalle cappelle.

La zona presbiteriale è separata dal resto dell’aula con un ampio arcone a tutto sesto e da una balaustra a tarsie di vari colori aperta nel mezzo da un cancelletto bronzeo simile ai precedenti. I ricercati cromatismi delle incrostature e dei riccioli, delle ‘carteglorie’ e dei cherubini scolpiti sull’altare maggiore, reso più prezioso perché fatto di marmi provenienti dai più remoti luoghi del regno, catturano lo sguardo dell’osservatore. Lo fece realizzare l’arciprete Malavolti da sconosciute quanto abili maestranze napoletane intorno al 1750. Ai suoi piedi un andito resta ad indicare il sepolcro di una famiglia patrizia (De Rosis).

Nell’abside quadrangolare, secondo un gusto pienamente rococò, la collaborazione tra stuccatori, intagliatori e pittori diventa corale. Il coro ligneo, scolpito con intagli di grande qualità, meriterebbe un discorso a sé. Manufatto di severa bellezza, sedici stalli affiancati gli uni agli altri, seguendo il perimetro dell’abside fanno da corona ad una sontuosa cattedra presbiterale ornata sul fastigio da un paracielo merlettato. Voluto dell’arciprete Carlo Maria Montera, fu realizzato nel 1784 dall’abile ebanista moranese Agostino Fusco (? – 1795) che lo fece in legno di noce con sottili intarsiature in acero bianco. Sul leggio della stessa mano, intorno al quale a semicerchio si sistemavano i chierici, sono appoggiati antifonari e salteri del ‘600. Sopra la parete del coro campeggia, tra una numerosa schiera di angeli, la fulgida immagine di un’Assunta eseguita con luminose cromie demuriane nel 1757 dal Costantini, opera della sua prima maturità.

Nel Settecento la navata, voltata a sesto ribassato, vide il completamento della decorazione del soffitto con motivi sacri raffiguranti, procedendo verso il presbiterio, una Visitazione, la Gloria del Santissimo Sacramento (un trionfo di nubi con il sacro ostensorio e l’angelo che regge l’ombrello processionale) e l’Assunzione della Vergine tutti del Costantini.

Nella sagrestia, già sacrario del clero (come ricordano le iscrizioni dedicatorie sulle pareti), è custodito il tesoro della chiesa in parte sottratto nel 1806 quando truppe francesi saccheggiarono la chiesa portando via gli oggetti più preziosi che vi si conservavano. Qui trovano posto oltre all’archivio parrocchiale, antichi paramenti sacri, reliquiari e argenti di pregevole fattura opera di argentieri napoletani. Tra le carte dell’archivio, una raccolta che inizia dalla seconda metà del XVI secolo, si ricorda un corpus di 38 pergamene la più antica delle quali, miniata nel 1555, è l’atto di aggregazione dell’Arciconfraternita del Sacramento con quella romana di Santa Maria sopra Minerva.

Arredi sacri e paramenti, attraverso donazioni e commesse, segnano la storia di questa chiesa. Nell’armadio della seconda metà del ‘700, restaurato dall’ebanista Alfonso Gaiani (1989), si conservano una purpurea cappa appartenuta al pronipote di Sisto V, il cardinale Alessandro Peretti, della fine del ‘500, una dalmatica tessuta nel 1701 (una pianeta in seta verde impreziosita con ricami in filo d’oro che ben documenta la magnificenza e la ricchezza del ‘700 calabrese), ed altri lavori eseguiti dalle Clarisse. Tra gli argenti sono da vedere una grande croce d’altare in lamina d’argento damaschinata fabbricata nel 1742 dall’argentiere napoletano Domenico De Angelis, un bel reliquiario cesellato in lamina d’argento con fiorame a sbalzo, un turibolo con navicella, una pisside tardo barocca, manifattura francese del 1840 laminata in oro, decorata con la Carità, due croci astili, un ostensorio della fine del ‘700 figurato sulla base con un’altra Virtù Teologale (la Fede), un reliquario in argento fuso a forma di ostensorio ed altri oggetti che meriterebbero un discorso a sé. A fianco si conservano opere ed altri arredi realizzati tra il XVII ed il XVIII secolo. Tra queste una bella Madonna della cintola tra i Santi Monica ed Agostino di anonimo pittore, alcune statue lignee (un Redentore, Santa Barbara proveniente dalla chiesa dei padri riformati, e una Santa Teresa D’Avila), ed altre in cartapesta (un gruppo raffigurante la Visita di Maria a Elisabetta, l’Addolorata, una Santa Lucia di Paolo De Angelis del 1878 nonché un’Immacolata realizzata dal leccese Luigi Guacci). Un dipinto di ridotte dimensioni trafugato nel 1972, riproducente San Francesco di Paola, non è stato mai restituito. Qui è accolta anche una statua lignea policroma raffigurante Santa Filomena, manifattura napoletana degli inizi dell’Ottocento, proveniente dalla chiesa della Riforma.

Proseguendo in direzione della facciata si incontrano le cappelle. Il piano del pavimento, come pure il presbiterio, è leggermente sopraelevato rispetto a quello della navata. La prima cappella fondata dalla Congrega delle Anime del Purgatorio è dedicata a Santo Stefano protomartire. L’altare intarsiato con marmi di colore diverso ed un ciborio ingentilito da cherubini, mostra le insegne della famiglia committente ed un dipinto rifatto con la Madonna delle anime purganti.

Con un’ampia arcata a tutto sesto si accede alla cappella del Santissimo Sacramento sede dell’omonima Confraternita istituita nel 1539. I sodali, come motiva la singolare ampiezza di questa cappella profonda come l’abside, si disponevano sui lati tra gli stalli di un coro non più esistente. L’altare, scostato dalla parete ed impiallacciato come gli altri, trova negli angeli capoaltare la sciolta e graziosa gaiezza dell’arte plastica del Settecento. Medesimo gusto si coglie nel rivestimento della cappella pavimentata con tessere bianche e nere che concorrono a formare un unico suggestivo ambiente barocco. Dietro l’altare, ricavati nella parete, si osservano piccoli stipi dal profilo sinuoso. Sui lati sono sistemate alcune tele settecentesche di modesta fattura, mentre la volta è ornata con una pittura murale raffigurante l’Ultima Cena (attribuita a Pietro Costantini ma con elementi che richiamano la maniera del terranovese Saverio Riccio) che raccoglie ad ogni tramontare, dall’ampio finestrone che si apre sul muro di ponente, sempre nuovi colori.

L’ultima cappella dedicata alla Visitazione è la sede della Confraternita di Santa Maria delle Grazie. Nelle arti plastiche i risultati migliori furono raggiunti in questa cappella. La parete di fondo è rivestita pressoché integralmente con un commesso marmoreo della metà del ‘700, paraste sormontate da ricchi capitelli e un timpano spezzato che racchiude una cimasa mistilinea. La parete fa da sfondo ad un altare in marmi mischi dello stesso periodo e ad una tela raffigurante la Visita di Maria a Santa Elisabetta del 1757, opera autografa del pittore di Serra S.Bruno Pietro Costantini, eseguita dietro incarico dell’arciprete Francesco Maria Malavolti, compiuta con una maggiore qualità pittorica e una migliore capacità compositiva. In questo dipinto, come è già stato proposto, il Costantini rivela l’adesione alle opere dei maestri del tardo cinquecento che sicuramente conosce attraverso stampe, come rivela la derivazione compositiva di questo dipinto da un analogo soggetto seicentesco eseguito del pittore umbro Cesare Nebbia che richiama quello più celebre eseguito da Federico Barocci per la Chiesa Nuova di Roma. Prima di proseguire, sulla cantoria dell’atrio d’ingresso è posto lo splendido organo settecentesco, eseguito con brillante gusto rococò dal gioiese Pasquale Iorio nel 1757, in legno intagliato e dorato e con le canne disposte ad “ala d’angelo” . Restaurato dai Ruffatti nel 1983, le parti meccaniche di questo strumento risalgono al Cinquecento.

Dalla cappella delle Grazie si accede agli altri ambienti. In una sorta di piccolo museo sono raccolte altre preziosità tra le quali un paliotto in scagliola realizzato nel 1722 da Stefano del Riccio, una Via Crucis dipinta su vetro, un busto ligneo di San Giovanni da Capestrano ed una statua lignea policroma settecentesca rappresentante l’Angelo Custode. Su una parete, sebbene ancora improntata allo statico e devoto classicismo tardocinquecentesco, si può ammirare una secentesca Sant’Agata in carcere attribuita a Cesare Fracanzano (1605 ca-1652 ca), che per la sua incertezza tra estasi cristiana e ‘scandalosa’ devozione alla bellezza pagana, è forse il dipinto di maggiore interesse conservato in questa chiesa. Da qui, per mezzo di una scaletta, si accede alla cripta occupante l’area sottostante le prime due cappelle. Essa è formata da una serie di ambienti contigui e intercomunicanti voltati a botte che si sviluppano su due livelli. Alcuni di questi erano utilizzati come sepolcro - singolare l’accesso al sacello dei Luzzi - altri come ripostiglio di grossi otri in cui si raccoglieva l’olio da servire per i lumi. Altri ancora erano utilizzati dalle Confraternite che se ne servivano, come provano scanni in muratura, per riunirsi. Qui sono conservati anche i vestimenti delle confraternite ed alcuni lampioni da processione del XVIII secolo.

Dalla cappella della Visitazione si accede alla torre campanaria. La costruzione, situata a lato della facciata, sembra risalire al XVI secolo periodo in cui (1590) abbiamo i primi riferimenti[iii]. Le forme attuali comunque risalgono al XVIII secolo quando con la riformazione settecentesca che aveva comportato l’elevazione del tetto della navata, imposero di elevarlo. I lavori, invero, non furono portati subito a termine perché gli abbellimenti interni sottrassero tempo e denari alla fabbrica del campanile. Fu Carlo Maria Montera (1716 ca-1780) che, a sue spese e delle Confraternite delle Grazie e del Santissimo Sacramento, il 15 ottobre del 1777 riuscì a portarlo nelle forme e all’altezza che guardiamo[iv]. In un periodo successivo venne invece realizzata la cella sommitale dell’orologio per sostituire la vecchia cuspide che concludeva l’estremità del campanile.

Alla torre si accede dalla cappella delle Grazie. Di forma quadrata, è articolato su cinque ordini, scanditi da isolate monofore centinate a sesto rialzato che gradualmente si ampliano man mano che salgono verso l’alto. A causa del marcato dislivello che esiste tra la base della torre e l’ingresso della chiesa, il primo ordine poggia sull’antico rione della Giudecca con un alto stilobate che si conclude in prossimità della cornice marcapiano che segna il terzo ordine. Sul lato rivolto verso la sottostante piazza, sotto la cella campanaria, nel 1777 venne realizzata una meridiana declinata a sud che si arrotonda in parte al di sotto del semiquadrante e allo gnomone di un’altra meno antica ad ore francesi. La cella campanaria è aperta da monofore a doppia centinatura definite all’esterno da lesene angolari. Al di sopra, aperta dai tondi perfetti dei quadranti, sta quella per l’orologio conclusa con bell’effetto da un lanternino metallico. Gli ultimi importanti interventi di restauro (1980-1994), oltre a restituirci la magnificenza del tempio, hanno riconsegnato anche la solitaria bellezza della sua torre campanaria.

Il campanile accoglie sei campane, quattro nella cella campanaria, due sistemate sotto la lanterna. Tralasciando la campana nel 1789, che non offre elementi di particolare interesse, di diversa fattura e significato sono invece le campane realizzate tra il 1791 ed il 1794 dalla celebre fonderia degli Olita di Monteleone. Le preziosità descrittive dei rilievi, la ricerca dell’armonia tra bellezza e misura, fanno di queste campane manufatti di singolare bellezza.

Il primo campanone, fuso nel 1791 da Luigi e Saverio, è sistemato sul lato che dà sulla piazza. Sul corpo, al di sotto di una mitria raffigurata in bel rilievo, si legge il motto Fidelitas et Amor dell’arciprete Gian Vincenzo della Cananea (1742-1819). Sulla gola rivolta invece verso il sagrato si vede il fregio di un’Assunta coronata da cherubini. Fra queste due decorazioni s’inserisce il marchio dei fonditori inscritto in cornici mistilinee dalle quali occhieggia una testolina di putto. L’altra campana colata nel 1792 venne presto rifatta nel 1794. I maniglioni reggono un lavoro che ripete nelle scelte le medesime figurazioni della campana precedente. Anche i rilievi, sebbene diversi nel disegno, una mitria coi nastri cadenti e l’immagine frontale dell’Immacolata, ripropongono le analoghe scelte figurative. Ma Andriana, è questo il nome della campana, sembra esprimere meglio la magnificenza e la ricchezza tutta barocca di una campana che resta in assoluto la più bella. Un cartello identico al precedente racchiude l’insegna della fonderia cui segue, dopo quella dei Cananea, la singolare legenda in caratteri greci M NHMEION / PRESBYTATON / TOYTOY NEO (Il ricordo più antico di questo tempio)[v].

L’ultima campana è un modesto lavoro del fonditore roglianese Rosario Grandinetti che la fabbricò per conto del curato Raffaele Bruno nel 1846. Quelle dell’orologio, prive di decorazioni e ornamenti, furono invece realizzate nel 1839 nella fonderia dei Provenzano a Cortale.

 

Luigi Petrone 



[i] L. Petrone, Campanili e campane di Corigliano… cit., pp. 59 e sgg.

[ii]T.Gravina Canadé, Le Chiese raccontano... cit., p.119.

1946 - La Chiesa di S. Maria Maggiore violata

Eccezione fatta per l’incidente verificatosi 17 o 18 anni fa nella chiesa della SS. Madonna di Costantinopoli, causato dalla Compagnia teatrale Pozzi, per cui la stessa chiesa veniva interdetta dalle Autorità Ecclesiastiche competenti, la religiosa popolazione di Corigliano non ricorda casi analoghi.

Solo oggi, per l’antidemocratico modo di vedere di alcuni facinorosi, la nostra popolazione ha dovuto assistere allo scempio di vedersi interdire la chiesa di Santa Maria Maggiore, in seguito ai fatti di domenica scorsa (28 luglio).

I fatti, secondo la versione del Reverendo don Luigi Guidi, appositamente intervistato, possono riassumersi nel modo seguente:

Nelle prime ore del pomeriggio di domenica scorsa, il Segretario del Partito Comunista, su regolare invito, si recava alla Caserma dei Carabinieri, dai quali veniva diffidato per il mantenimento dell’ordine pubblico. Il Segretario si rese garante dell’ordine stesso ed ottenne dal Maresciallo l’intercessione presso l’Arciprete di S. Maria Maggiore, affinché venissero... (per continuare la lettura, clicca su: https://www.coriglianocal.it/come-eravamo/correva-l-anno/1946/