Monasteri e Coventi

 

A pranzo dalla Badessa

Un anno di clausura nel Monastero di Santa Chiara di Corigliano

 

di Luigi Petrone

 

Le porte del monastero da molto tempo sono chiuse. Pure la chiesa, del più bel rococò che si possa ammirare, è malandata e con il capo chino, a pregare che qualcuno si ricordi di lei. Eppure per circa trecento anni (1630-1919) qui visse un’operosa comunità di Clarisse che contribuì ad arricchire di fede e di educazione giovani fanciulle di distinte famiglie coriglianesi.

Primi decenni del Seicento, Corigliano è un borgo antico e nobile. Molti Ordini religiosi vi hanno già fondato conventi e monasteri (carmelitani, francescani, paolotti, domenicani, basiliani). Così pure le monache di Santa Chiara. Ma si sono insediate in un posto malsicuro, fuori le mura, e abbisognano di un altro edificio. Il nuovo monastero viene rifondato nel 1622, questa volta dentro il paese, nel luogo che ancora si ricorda come le “Monachelle”. Pur tra mille difficoltà è portato a termine, con tenacia e volontà, grazie ai generosi lasciti delle famiglie Cioffo, Persiani e Saluzzo. Il riconoscimento canonico è concesso da Urbano VIII nel 1630[1].

Nel breve volgere di alcuni decenni il Monastero delle Vergini di Santa Chiara crebbe di fama e di vocazioni, diventando tra i più ricchi monasteri della città[2]. Le famiglie nobili e benestanti affidano all'educazione delle clarisse come educande le loro figliole; a loro è chiesto di insegnare e guidare il cammino di queste fanciulle proteggendone la loro condizione d’innocenza ma, anche, dalle oggettive circostanze di pericolo prima del matrimonio.

Sebbene si entrasse in monastero per non uscirne più, l’ingresso spesso non era per sempre. Talvolta però quella decisione non era frutto di autentica vocazione. Quali sentimenti agitavano l’anima di una giovane che era monacata a forza? Come non pensare allora alla dolorosa vicenda della “monaca di Monza” di manzoniana memoria. Per i nati per secondi, l’entrata in monastero era programmata già da quando erano ancora nel ventre della madre; i genitori sapevano bene quel che si doveva fare rimanendo soltanto da conoscere se sarebbe stata una monaca o un monaco. La consapevolezza che l’entrata in monastero avrebbe cancellato i loro sogni, che non avrebbe potuto maritarsi e di godere delle gioie della vita, provocava uno struggimento incolmabile; in quei momenti, per la prima volta, malediva di essere nata ricca e sperimentava l’invidia verso le derelitte che fuori del monastero potevano sperare ad un destino migliore del suo. Quel turbamento toglieva il sonno più di mille penitenze, ma poi subentrava l’accettazione e, nella parte più riposta della sua mente, capiva che non vi era altra scelta, che doveva rimanere lì, per i suoi familiari che si sarebbero compiaciuti per la sua obbedienza, per le suore che così avrebbero fatto un buon acquisto di dote3 e di lustro per il monastero ed infine per lei che accettando la clausura, con il suo sacrificio, contribuiva a lasciare intatte le sostanze e il decoro della famiglia. Quanti giovani, dell'uno e dell'altro sesso, furono destinati al chiostro, alla toga o all’uniforme militare per lasciare intatte le sostanze al primogenito destinato a perpetuare il casato. Questo la storia non c’è lo dirà mai e forse neanche è giusto pesare queste cose alla luce del giudizio del nostro tempo. Ma torniamo alle vicende del nostro monastero.

Quando la vocazione era vera la fede incendiava l’animo; allora le tappe del cammino per diventare monaca era un percorso cosparso di petali di giglio. Ma anche così entrare in monastero era una faccenda che solo famiglie benestanti, o appartenenti al ceto nobiliare, potevano permettersi. Don Giuseppe Antonio Caninea, ad esempio, oltre alla dote, per il vitto di sua figlia entrata come novizia nel 1773 pagava 5 ducati l'anno e poteva ritenersi fortunato per avervi trovato posto4. Il monastero delle nostre Clarisse era in quel tempo un affollato stuolo di “monache”. Nella Casa di Corigliano, come altrove, la gerarchia claustrale prevedeva i passaggi da postulante a novizia prima di vestire l'abito di monaca professa. Conforme alle norme dell’Ordine vi erano rappresentate tutte le figure: la madre badessa (eletta dalle consorelle, che restava in carica tre anni ed era rieleggibile), le monache professe, le converse e poi tante postulanti, novizie ed educande. Ma come si diventava clarissa? La prima tappa per diventare monaca era quella del probandato o postulato. Questo era il periodo di prova in cui la giovane, indicata appunto come Postulante, chiedeva di essere ammessa nel monastero. Lo scopo era quello di approfondire la propria vocazione religiosa, conoscere la spiritualità clariana e, non ultimo, verificare l’idoneità della giovane alla vita religiosa. Il postulato durava da sei mesi ad un anno; al termine, se la Comunità si pronunciava per l’ammissione della postulante alla vestizione, ovvero alla professione dei voti semplici, questa era ammessa al Noviziato. La Novizia veniva preparata a “separarsi” dal mondo secolare, taglia i suoi capelli, indossa un abito nuovo ed il velo bianco, cambia il nome. Ora è un’aspirante monaca che condivide con le altre i ritmi quotidiani, i vari momenti di preghiera, di lavoro, i pasti, dove non troverà mai la carne, sperimenta la solitudine della cella. Trascorsi due anni, al termine del noviziato, con il parere vincolante delle monache, dava i voti di povertà, castità ed obbedienza ed entrava ufficialmente in clausura ammessa come Professa alla professione temporanea ancora per un anno. Alla fine di tale periodo la Professa rinnovava i voti della consacrazione verginale e di appartenenza totale a Dio e davanti al Vescovo, la badessa, i preti secolari, i parenti, e gli invitati, similmente ad un giorno di nozze, indossava l’abito monacale e pronunciava i voti della professione perpetua a vita. C’erano infine le Converse, donne laiche che si associavano all’Ordine con un voto semplice di povertà e d’obbedienza. Erano destinate a lavori “impegnativi”, di solito assegnate in refettorio e in cucina; non erano obbligate alla clausura stretta e talvolta vivevano fuori del monastero allo scopo di poter sbrigare le faccende esterne. La cura spirituale delle monache era affidata ad un sacerdote confessore secolare, nominato dal Vescovo, che spesso svolgeva anche la funzione di Vicario del monastero.

Come trascorreva la vita tra le mura? Documenti d’interesse per apprendere la storia del monastero sono i Libri d’esito vale a dire i libri dei conti sui quali era annotato minuziosamente tutto; sono questi i documenti che offrono un vero spaccato sulla vita economica e sociale di questa clausura. Noi vi abbiamo curiosato sfogliando, a caso, alcune pagine di un Libro d'esito. 

Anno del Signore 1791. All’interno del monastero la vita scorre scandita dai momenti di preghiera. La celebrazione dell'Ufficio divino, diviso in varie parti con la liturgia delle Ore, è occupata prevalentemente dalla preghiera e dalla pratica delle Quarant’Ore. Questa si svolge sia oralmente con salmi, letture bibliche e patristiche, intercessioni, sia nel silenzio della meditazione. Il silenzio era certamente uno dei più ricorrenti interrogativi e “misteriosi” per chi oltrepassava quelle grate, ma fondamentale per ascoltare, nella sua interezza, la voce del Signore. Ma il silenzio non era sempre uguale e c’era silenzio e silenzio. I “tempi del silenzio” comprendevano l'ora di silenzio rigoroso, dalle 13.30 alle 15.00, in cui ogni sorella poteva occupare il suo tempo alla preghiera, al riposo, allo studio o alla lettura spirituale personale; l'ora del silenzio della notte, ultima espressione corale di preghiera, che terminava con l'Ora Terza, cioè circa intorno alle 8.00. Il tempo ovviamente non era dedicato solo alla preghiera e alla contemplazione. Le suore dedicavano molte ore ai lavori manuali tipici del mondo femminile come il lavoro di cucito nel quale erano maestre e nel ricamo che praticavano con gran perizia nell'adornare pianete, stole e piviali con fili d'oro; alcuni di questi manufatti si possono ammirare tra i paramenti dell'arcipretale di Santa Maria Maggiore. In fine, ed era il più atteso per le più giovani novizie, era il momento riservato agli incontri in parlatorio con i parenti, l’unica occasione per sapere cosa accadeva al di là delle grate. C’erano in verità altri momenti d’incontro ‘pubblico’ diciamo così. E ciò accadeva in occasione di qualche solenne cerimonia. L’attesa festa di Santa Chiara, l’11 agosto, che le Clarisse aspettavano tutto l’anno e preparavano con cura consci dell'azione promozionale che questa festività aveva per il loro monastero, era certamente la più importante; questa ricorrenza era attesa dalle novizie con la stessa emozione con cui le loro coetanee vivevano le feste religiose popolari. Nel 1791 fanno preparare al Padre Maestro Rago un panagirico e spendono grana 20:0 per la polvere da sparo da appiccare per la festa della loro santa patrona e 1 ducato, l'anno dopo,  a Fedele La Rocca «per lo sparo di mortaretti» mentre bambine vestite come ex voto con l’abitiello di Santa Chiara le mamme accompagnano in chiesa per avergli concesso una grazia. E poi c’erano funerali, più frequenti delle feste. I funerali di Teresia Crociana sono svolti in pompa magna; per le sue esequie, le clarisse organizzano una processione al quale prendono parte i «PP. Paulini, Reformati, e di S.Antoo convenuti dentro la Chiesa del M.nro»5. Anche la vita delle monache si concludeva con un funerale, sepolte nel monastero, alla presenza delle sole consorelle.

Le rendite e gli introiti provenienti da gabelle, dalla vendita di prodotti provenienti dai numerosi fondi e dalle doti delle novizie e delle professe, erano considerevoli. Ma altrettanto importanti erano le spese per la vita del monastero che ospitava in quegli anni, tra suore e converse, non meno di 30-35 persone. Come spendevano le loro rendite le monache? Grande spesa impegnavano per le vettovaglie. Il monastero era dotato di tutti gli ambienti necessari alla vita comunitaria, la cocina, il refettorio (1755), il dormitorio e le fornaci che hanno appena rifabbricato6. Le religiose avevano un'alimentazione piuttosto varia ma dalla quale, come impone la regola, era bandita la carne. Consumavano prevalentemente ortaggi, frutti, legumi, percochi, uva passa, miele, chiappere, olive, ceci e cicerchie, baccalà, ed altro. Il latticinio era il prodotto maggiormente consumato; nei registri dei libri degli esiti le spese per il loro acquisto occupano fogli interi. Per avere solo un'idea di quanto era speso per le cibarie e cosa consumassero apprendiamo che 12 rotoli di zucchero, à gna [grana] 52: il roto [rotolo], costavano 6 ducati e 24 carlini, mentre «per mezo cantajo di cascio» occorrevano 10 ducati. Non mancavano prodotti ricercati come zuccaro, sale e café che allora si trovava ancora su poche tavole. Alla cucina erano addette le converse che svolgevano quest’occupazione con cura e diligenza, a cominciare dal pentolame che dovevano tenere in buon uso pagando un Mastro Caldarajo che «per stagnare la rama del Monastero per uso della cocina» riceveva tuttavia meno di un ducato ed altri 1.40 ducati per acquistare «sei libre di stagno, e tre libre di piombo». Anche la pulizia della biancheria era affidata all’esterno. Teresia di Mercante riceveva per questo lavoro ducati 2.10 «per polire le biancherije sia panni per uso del M.nro». Ad ogni modo era il vestiario che aveva i costi maggiori perchè «per l'abbiti à diecinove Religiosi professe» si spendevano ducati 80 e 75 e 4 ducati e 80 per «due cambisciotti di due serve».

Alla fine dell’anno, la vita delle monache era regolata sempre dalle preghiere e dai rigori dell’inverno. Per la fornitura di legna e carboni, il 16 dicembre 1791 si accordavano con un tale di nome Costantino Miranta con il quale per 20 ducati per «cantaja cinquanta di carboni», questi si obbligava a garantire la legna per tutto l’inverno al monastero impegnandosi a trasportarla sino «…a tutto Agosto 179due». Tra tante cose da fare le Clarisse non dimenticarono di fare i regali di Natale e al Monsignore in Rossano, l'arcivescovo, inviarono con largo anticipo, il 18 dicembre, il loro «...rigalo di Natale...e ad altri per parte del Monastero»7. Ma cosa gli regalarono non lo sappiamo, perché le monachelle preferirono lasciarlo nella penna.



[1] Il Breve di Urbano VIII, che concedeva la facoltà di fondare un «monasterio pro 25 monialibus Ord. S.Clarae...» viene emanato il 4 giugno 1630 (F. Russo, Regesto Vaticano per la Calabria, vol.6, p.249).  

2 Un autentico e vero dossier sul patrimonio delle Clarisse di Corigliano è rappresentato dalla Platea di tutti i fondi rustici appartenenti al Monastero di S.Chiara (1770) conservata nell’Archivio Parrocchiale della Chiesa di Santa Maria Maggiore(Archivio di Santa Maria Maggiore, Archivio del Monastero di S.Chiara, n.173). La badessa Suor Rosa Maria Giglio, anche per tutelari gli interessi del monastero e metterlo al riparo da eventuali contestazioni sui fondi da questo posseduti (come documentano le numerose controversie contro terzi), fece compilare un libro mastro, un inventario delle loro proprietà terriere, affidandone l’incarico all'Agrimensore ed Architetto Don Carlo Migliacci e al Vicario Giuseppe Caruso nella quale disegnarono tutti i possedimenti con vari cabrei, carte topografiche dell’epoca. 

3 La dote era costituita da un vero e proprio corredo e da una cospicua somma di denaro. Oltre a questo il padre, o chi per esso, era tenuto al pagamento della retta d’entrata che si aggiungeva a quella annuale per il mantenimento della figlia. Il genitore, in questo modo, assegnandogli la dote ottemperava alle norme del diritto di famiglia, sia che la figlia contraesse matrimonio, sia che si ritirasse in monastero; senza dote non si veniva ammessi in comunità o, tutto al più, se la dote era inadeguata, si poteva aspirare al ruolo di conversa. 

4 APC, Archivio di Santa Maria Maggiore, Archivio dell'ex Monastero di Santa Chiara di Corigliano, Carte diverse riguardanti la vita e i beni del Monastero, Carte diverse, c.27. 

5 Ibidem,  Archivio del Monastero di S.Chiara, Conti di Amministrazione 1773-1792, Libro di Esito del 1791, cc.899, 931, 928. 

6 Ibidem, Archivio  di Santa Maria Maggiore, Archivio dell'ex Monastero di Santa Chiara di Corigliano, Libro d'esito del cor.te  anno 1774, c. 114. Si tratta di grossi volumi in scritti su due colonne, di cui quella di sinistra riporta le voci di spesa e quella di destra le somme versate per la spesa stessa. 

7 Ibidem, Archivio  di Santa Maria Maggiore, Archivio dell'ex Monastero di Santa Chiara di Corigliano,   Libro di esito del  1791, cc.902, 903.

 

A mia madre, a Mastra i Pinuccia, precettrice di tante ragazze nell’arte del cucito e del ricamo.

 Il monastero di S. Chiara

 

 Nel 1919 Carmela, serva esterna delle “Monachelle”, vende per le strade di Corigliano, in una grande cesta di vimini, gli ultimi dolci preparati dalle Clarisse: “graffaiuoli” di pan di Spagna con rosa rossa di Alchermes e “pupicelle” di miele, farina e zucchero. Ormai, e dal 1862, le Clarisse si mantengono con il ricavato della vendita di prodotti del loro lavoro: dolci e ricami artistici. Nel 1919, le Suore, ridotte a tre, con l’ultima Badessa Suor Crocefissa, promotrice, non potendo resistere al degrado economico - organizzativo del convento, abbandonano la sede di Corigliano, per essere integrate in quella di Rossano dello stesso ordine. Eppure il convento delle Clarisse, unico femminile nella storia della nostra città, dalla fondazione alla devoluzione del suo patrimonio al demanio, avvenuta appunto nel 1862, non aveva mai conosciuto crisi di alcun genere. Florido economicamente, strabocchevole di religiose ed educande, svolgeva la sua funzione ascetica, didattica e sociale...Dalle “Monachelle” Corigliano ha ereditato, oltre che ovvie influenze sulla integrità dei costumi, una scuola di fini ricami, i cui insegnamenti, purtroppo, non sono stati incanalati ed utilizzati convenientemente né dall’iniziativa privata né da quella pubblica.

(Pasquale Tramonti, Mullichelle)

 

Il frate interrato

La miracolosa storia di un frate cappuccino.

di Luigi Petrone

La storia del Convento dei Cappuccini di Corigliano fonda le sue origini in un evento prodigioso accaduto oltre quattrocento anni fa.

Il luogo destinato ad accogliere il nuovo monastero venne scelto lontano dalla città, un bosco di ulivi lontano dai chiassi secolareschi. La costruzione del convento non si allontanava dai modelli del tempo, una fabbrica quadrata racchiudente un chiostro delimitato da arcate a tutto sesto e chiesa rivolta verso la città. Padre Paolo da Morano, che redasse nel 1650 la relazione innocenziana, ce lo descrive «… situato fuori della medesima Terra, un quarto di miglio in circa lontano dall’habitato, in luogo aperto, in strada pubblica, vicino al quale sono alcuni oliveti… eretto secondo la povera forma cappuccina, con celle numero venti quattro» [1].

 

Storia di un miracolo

 

Superate le difficoltà per l’utilizzazione del suolo (concesso dalla chiesa collegiata di San Pietro che si riservò il diritto del possesso), nel 1581 si diede principio alla costruzione del convento.

I lavori non sono che all’inizio quando, si narra, avvenne un fatto prodigioso. A riferircene è padre Antonio da Paterno autore di una cronaca cappuccina rimasta manoscritta. Durante il lavoro di scavo delle fondamenta, un laico cappuccino di sessant’anni originario di Castelvetere (l’attuale Caulonia) incaricato di eseguire il compito, fu improvvisamente travolto da una gran massa di terreno. Frà Raffaele da Martirano, un sacerdote avanti negli anni, racconta che nell’anno 1581 «… un frate detto per nome frat’Antonio da Castelvetro laico vecchio di sessant’anni attendendo a cavar la terra per fare il piano dove si ponesse la pianta del luogo gli cadè sopra un gran monte di terra da venti palmi in circa, nel quale stato dimorò per spatio d’un hora. Quando i frati s’avvidero del successo, con molta fatica lo scoprirono dalla gran massa di terra, et fuor della loro opinione lo trovorno vivo, et meravigliandosi sopra modo come tanto gran peso non l’havesse ucciso, rispose esso frat’Antonio dicendo: quando cadè la terra sopra di me apparve una Donna in veste bianca, qual disse: non haver paura, e postomi la mano sul capo mi preservò dalla morte; la qual Donna, confessò poi egli medesimo, che fusse la Madre di Dio, di cui era devotissimo»[2].

L’eco del miracolo accaduto a Corigliano si diffuse in tutta fretta. Paolo Gualtieri, cronista vissuto a cavallo dei Seicento, qualche decennio più tardi narra un episodio che indirettamente ci informa del miracolo capitato al nostro cappuccino. Durante la costruzione del convento di Galatro, scrive il Gualtieri, ad un monaco intento a lavorare un campo certo Giovanni Galati, apparve una frate vestito con il saio dei Cappuccini il quale, indicando il luogo dove egli si trovava, gli rivelò che «qui abitarono frati vestiti come sono io e un suo figlio Cappuccino si nominò fra’ Antonino da Castelvetere»[3].

Altri storiografi del tempo (come il Martire, il Paolocci, Antonio da Paterno) narrano l’evento miracoloso che precedette la fondazione del convento di Corigliano. Ma l’opera che a noi interessa è Flores Seraphici, un resoconto particolareggiato su personaggi, vite e imprese di illustri frati, compilato da Carlo di Aremberg cappuccino belga[4].

Stampata a Colonia negli anni 1640-42 dal tedesco Costantino Munich, in 4o grande, l’opera è ricavata dagli Annales Ordinis Capuccinorum (1632-1639) di Padre Zaccaria Boverio, annalista ufficiale dell’Ordine. Lo studio è un’antologia di episodi legati a miracoli e apparizioni mariane[5], testimonianze agiografiche che come in uno straordinario affresco si rivelano di grande interesse per una conoscenza della storia della santità e della religiosità dei Cappuccini. La lettura di queste pagine consente di ricostruire, oltre agli aspetti dell’esistenza materiale, gli atteggiamenti mentali relativi alla religiosità popolare, al miracolo e alla pratica religiosa. L’impresa, che aveva il chiaro scopo di colpire immediatamente l’immaginario visivo impressionando ed educando il lettore alle verità della fede, contribuiva ad accrescere l’attenzione ed il consenso sulle prime avventurose vicende della Controriforma Cappuccina. Ma, come tante opere di quel tempo, risente inevitabilmente del clima autocelebrativo tanto caro e prediletto ai lettori.

Quest’opera, tuttavia, si segnala non tanto perché si basa sulle cronache del Boverio  che tramanda fatti a lui contemporanei ma, soprattutto, per il corposo corredo grafico che alla narrazione scritta ne unisce un’altra, un racconto iconografico poco conosciuto a molti studiosi di cose francescane. La tavola oggetto di queste considerazioni, incisa in rame da H. Coffler, raffigura in primo piano Frate Federico da Tiferno, in estasi di fronte all’apparizione della Vergine, contornato sullo sfondo da tre episodi illustranti vicende memorabili di altri confratelli. La scena, dopo le figure che individuano i frati Federico, Angelo da Vado e Antonio da Fano, nella 4a apparizione mostra il laicus Antonius a Coriolano[6] nel momento in cui gli appare la Madonna. L’incisione è commentata da brevi storie che descrivono in maniera pittoresca quanto si vede riprodotto.

Le pagine di testo, in latino, raccontano che «il frate Antonio da Corigliano, laico della Provincia di Cosenza, mentre compiva sollecita l’attività di scavare le profonde fondamenta, all’improvviso ad opera del diavolo, fu ricoperto per un’altezza di venti palmi dal terreno cavato dalle fondamenta. I fratelli, subito accorsi al rumore della terra che cadeva, non vedendo Antonio da nessuna parte che pure poco prima avevano lasciato affaccendato e sudato al suo lavoro, lo immaginarono senza alcun dubbio sprofondato sotto terra. Poiché inutilmente cercavano dove scavare per portare aiuti al sepolto, ricoperto in lungo e in largo dalla terra, ai confratelli turbati nell’animo presto apparve un fanciullo sconosciuto che indicò il luogo in cui dovevano scavare: questi obbedendo alla parole del fanciullo iniziarono a scavare finché non trovarono vivo e vegeto il frate che ritenevano morto soffocato dopo un’intera ora trascorsa sotto quell’immensa gravità di terra. Tutti innalzarono lodi al Signore. Levate le mani al cielo per rendere grazie a Dio e alla Beatissima Vergine, non appena uscì dalle viscere della terra Antonio raccontò che subito dopo che fu schiacciato dal peso della terra la Vergine, adorna di una candida veste, gli si avvicinò e incoraggiandolo disse: “Non avere paura Antonio, questa frana non ti farà nulla”. Poi raccontò che, abbandonatosi su un morbido giaciglio, si rassicurò fiducioso sotto il peso di quella terra. Tutti insieme nuovamente recitarono lodi alla Beatissima Vergine e innalzarono ringraziamenti alla sua divina generosità. Nell’anno 1581» [7]. L’apparizione mariana venne collegata alla Madonna di Loreto cui si dedicò la chiesa non appena fu ultimata.

Rispetto alle altre narrazioni, il racconto del Boverio è più completo (la figura del fanciullo, le parole rassicuranti della Vergine), ma si differenzia per l’assenza degli elementi biografici che individuano in Antonio da Castelvetere il cappuccino miracolato. La salvezza è avvenuta per intercessione della Vergine apparsa vestita di bianco, di un candore soprannaturale che attenua il buio che avvolge il cappuccino, ma l’umile frate è certamente dotato di una fede prodigiosa che lo aiuta a non disperare e a sopravvivere sotto quel cumulo di terra che per arte del demonio – Doemonis arte contigit – lo ha travolto e sprofondato. Per descrivere tutto questo l’incisore utilizza un tratto semplice ma vigoroso. La rappresentazione di gusto popolare fiammingo, mostra il frate racchiuso in una sorta di cavità in preghiera di fronte ad una Vergine radiosa di luce mentre, più in su, due monaci si affrettano a liberarlo dalla gran massa di terra che lo ha sopraffatto. La scena raffigurante il frate cappuccino costituisce l’unica testimonianza iconografica di questo episodio, forse, benché priva di alcuna connotazione urbana, la più antica immagine dedicata in qualche modo alla città di Corigliano.

L’editoria cappuccina di quegli anni è ricca di racconti leggendari e di fatti prodigiosi. I cronisti secenteschi dell’Ordine abbondano di storie, miracolose ed incredibili, nelle quali prevale la dimensione soprannaturale e simbolica. Molti frati, oltre al dono della profezia, sono in grado di operare prodigi ed altre cose mirabili, a cominciare dal padre fondatore di cui si narrano cose straordinarie compiute in vita e dopo la morte.

Ma perché tanta letteratura religiosa di quel periodo è ricolma di richiami autocelebrativi? Che bisogno avevano i Cappuccini di esaltare la loro riforma?

 

La riforma Cappuccina

 

Nella prima metà del ‘500, un progressivo «sfervoramento della regolare osservanza che si era dilagato in tutto il vasto Ordine Francescano», aveva portato alla nascita di un movimento innovatore[8]. La Riforma Cappuccina osteggiata sin dal suo nascere, aveva visto molti dei suoi seguaci vessati dai confratelli Osservanti. Nel 1532 il loro P. Generale, ingannevolmente, estorse al Papa una Bolla di scomunica per i Cappuccini calabresi che non fossero ritornati all’Ordine che avevano abbandonato [9]. Gli Osservanti non si accorgevano che il loro mondo stava mutando e che accanto ad una ‘riforma’ ne stava accadendo un’altra in seno al loro Ordine. Il bisogno di provare e, quindi, di dimostrare che il movimento dei Cappuccini avveniva con il consenso della Vergine e del poverello d’Assisi era considerata un’opera necessaria. Questa concezione non tralasciava nulla, dai monaci dotati del dono della profezia o in grado di operare miracoli, ai crocefissi ‘espressivi’ posti all’interno delle chiese. Le cronache cappuccine si dilungano ampiamente su fatti e personaggi di santa vita. Esse avevano l’intento di tratteggiare la memoria di quei confratelli che più degli altri si erano distinti nell’esercizio delle virtù ed additarli come esempi da imitare[10].

L’opera di propaganda veniva svolta anche attraverso la stampa alla quale i frati affidano le prediche impartite dal pulpito e le loro riflessioni teologiche. Inoltre, per mezzo di questa essi potevano raggiungere un più ampio numero di persone e, in particolare, «…quelle che, sapendo leggere, a differenza della massa del popolo troppo spesso analfabeta, non frequentavano la predicazione con assiduità»[11], persone colte la cui favorevole influenza giocò un ruolo importante nella diffusione del loro movimento.

Ed i frutti in qualche modo si colsero se in pochissimi anni, come una holding antesignana, nella sola provincia di Cosenza i Cappuccini assistettero ad uno sviluppo inarrestabile. Nell’arco di un decennio, tra il 1581 e il 1591, furono fondati ben dodici conventi mentre quattro erano in via di completamento, in media un convento all’anno. Tra quelli edificati in questo periodo troviamo anche il cenobio coriglianese [12].

L’approvazione delle superiori divinità celesti poteva manifestarsi sin da subito, addirittura prima ancora della fondazione di un convento. Gli Annali dell’Ordine, ad esempio, ricordano il convento di Seminara dove nel luogo dove poi sorse il monastero, dal nulla apparve un vescovo accompagnato da due Cappuccini per dimostrare che quello era il luogo da doversi fabbricare; come a Taverna dove l’erezione del convento fu preannunciata da lingue di fuoco scendenti dal cielo[13] o a Scigliano la cui fondazione del monastero fu preconizzata da una moltitudine di angeli[14]. Diverso nel racconto ma non nel contenuto è quanto avvenne per il convento di S. Caterina dello Jonio dove durante la costruzione alcuni asini precipitati in un burrone per il troppo carico caddero senza riportare alcun danno. Anche la fondazione del convento di Corigliano non si sottrasse a questo fenomeno. La protezione di Antonio provava la sacralità del luogo e la predilezione della Vergine verso i Cappuccini che con quel prodigio voleva significare che quel sito era un “luogo prescelto”.

Quanti di questi fossero autentici prodigi o accorte strategie pubblicitarie tuttavia non lo sapremo mai.

Ma autentica era la fiducia e la fede che il popolo riponeva in questi frati. I Cappuccini non portarono un ondata di fervore soltanto nell’Ordine Francescano. Il loro zelo di evangelizzazione e il loro operare nei vari campi dell’apostolato determinarono una fioritura umanistica importante nella società calabrese, promuovendo un’azione sociale autenticamente catechetica e missionaria che gli valse il nome di “frati del popolo” [15]. E’ un mondo in cui circolano mai come prima religiosi di grande spirito, pensatori, studiosi e persino artisti, sorprendenti interpreti di un’interessante scuola di intaglio.

Da quel giorno incominciò un capitolo nuovo per la storia sacra e sociale della città, feconda di presenze che hanno lasciato un passato di vera grandezza. Luminoso luogo di spiritualità, non mancarono tra i Cappuccini di questo convento pensatori illustri per scienza e sapienza. Tra i padri Coriglianesi degni di essere ricordati menzioniamo Matteo Persiani e Francesco Longo (vissuti entrambi tra la seconda metà del Cinquecento e la prima del ‘600), predicatore di grande valore da meritare la stima di Urbano VIII il primo, “vir eruditissimus” per la sua versatilità nelle scienze l’altro[16].

Il convento da molto tempo non esiste più. Resta invece di quel periodo la chiesa, costruita come tante chiese cappuccine con un’unica navata cui è addossata una laterale racchiudente le cappelle, che recenti restauri hanno restituito alla primitiva bellezza e alla fede della sua gente. Alcune testimonianze di quei padri Cappuccini sono ancora conservate qui, custodite nell’antica chiesa dove una prezioso Crocifisso ligneo della seconda metà del Seicento ci attende con le braccia aperte.

 

FLORES SERAPHICI

Ex amoenis Annalium hortis

Adm: R.P.F. Zachariae Boverij

Ord: FF. Minorum

S. FRANCISCI

Capucinorum Definitoris

Generalis collecti

SIVE

ICONES, VITAE ET GESTA

VIRORVM ILLUSTRIVM;

(qui ab Anno 1525 usque ad Annum 1580 in

eodem Ordine, Miraculis, ac viate sanctimonia

clarvere:) compendiose descripta

Auctore

R.P.F. CAROLO DE AREMBERG

Bruxellensi, eiusdem Ord: Praedicatore

 

COLONIAE  AGRIPPINAE

Apud CONSTANTINVM MVNICH.

Anno 1640

 

IV

APPARITIO

 

 

Frater Antonius à Coriolano, Laicus Consentinae Provinciae, dùm strenuam in effodiendis altiùs fundamentis operam navat, Doemonis arte contigit, ut tellure, quae viginti palmorum altitudine altiùs à fundamentis eminebat, cadente, ab ea repentè obrueretur. Protinus fratres ad terrae cadentis strepitum accurrentes, cùm Antonium, quem paulò antè ei operi insudantem reliquerant, nullibi conspicerent, procul dubio humo sepultum suspicantur: verùm, cum humo longè lateque prolapsa locum ignorarent, in quo foderent, ac  sepulto suppetias ferrent; en puer ignotus extemplò apparens, fratribus mente perplexis locum indigetat, in quo fodere debeant: illi statim pueri dicto acquiescentes terram effodiunt, & quem post integram horam immenso illo terrae pondere praefocatum, atque extinctum putabant, vivum, ac incolumen recipiunt. Mox cuncti in Dei laudes erumpunt: Antonius verò, ubi è terrae visceribus evasit, tensis ad sydera palmis Deo, ac Beatissimae Virgini gratias reddit, narratque cum primum eo terrae pondere obrutus fuit, Beatissimam sibi Virgini, albis vestibus indutam, sibi adfuisse, quae illi animum addens, ait: Ne timeas Antoni, nihil tibi hic telluris casus officiet. Post haec quasi in molli culcitra collocatum, tutum se inter ea terrae pondera quievisse refert. Quapropter rursum universi in Beatissimae Virginis laudes vocem extollentes, cum ea divinam quoqué benignitatem laudibus efferunt. Anno 1581. pp. 21, 22

 



[1] Archivio Generalizio dei Cappuccini, Roma. Relazione dello stato dei conventi dei FF. Minori Cappuccini delle Province di Reggio e Cosenza fatta l’anno 1650 per ordine del Sommo Pontefice, fol. 15.

[2] Antonio (P.) da Paterno, Cose notabili occorse particolarmente nella Provincia di Cosenza, 1612, ms., pp.101,103 citato in Giocondo Leone, I Cappuccini e i loro 37 conventi in Provincia di Cosenza, Fasano Editore, Cosenza 1986, vol. II, pp.133,134.

[3] P. Gualtieri di Terranova, Glorioso trionfo ovver leggendario dei SS. Martiri di Calabria, Matteo Nucci, Napoli 1630, pp.280, 281.

[4] C. De Aremberg, Flores Seraphici Ex amoenis Annalium hortis Adm R.P.F. Zachariae Boverij sive Icones, Vitae et Gesta virorum illustrium (qui ab Anno 1525 usque ad Annum 1580 in eodem Ordine, Miraculis, ac vitae sanctimonia clarvere) compendiose descripta. Auctore Carolo De Aremberg, Apud Constantinum Munich, Coloniae Agrippinae 1640.

[5] Tra i ritratti di Cappuccini Calabresi che troviamo tra i “fiori serafici” – ne citiamo soltanto alcuni – si riconoscono frate Antonius a Francica, F.Petrus Uffugensis (Montalto Uffugo), F.Vincentius a Noromano (Mormanno), F.Petrus Petaciensis (Pedace), F.Giovanni a Soriano, F.Bernardino Cataciensis (Catanzaro), F.Anselmus Roscimanensis (Rossano). Quelli memorabili per virtù e santità sono F.Bernardinus Cataciensis (Catanzaro), i frati reggini Bernardinus e Matthaeus, F. Franciscus a Palamone pure di Reggio Calabria, F.Franciscus a Soriano, F. Bonaventura a Raticina (Taurianova) e F.Ioannes a Terra Nova nonché frate Silvestro da Rossano.

[6] I frati Francescani, quali appartengono i Cappuccini, secondo l’usanza prendevano il nome dalla loro città di origine. Il frate Antonio, pur essendo di Castelvetere è tuttavia ricordato come “di Corigliano”.

[7] C. De Aremberg, Flores Seraphici … op. cit., pp.21, 22.

[8] R.A. Le Pera, I Cappuccini in Calabria e i loro 85 conventi, Edizioni Frama Sud, Chiaravalle C.le (CZ) 1982, p.23.

Gli studi critici attribuiscono la nascita di questo movimento a due francescani calabresi, Ludovico Comi e Bernardino Molizzi, entrambi di Reggio, che anticiparono quello promosso nelle Marche da Matteo da Bascio che insieme a quello calabrese diede vita alla serafica Riforma Cappuccina nell’Ordine Francescano.

[9] G. Leone, I Cappuccini e i loro 37 conventi… op. cit., vol. I, p.26.

[10] Cfr. nuovamente G. Leone, op. cit.

[11] Ibidem, vol.I, p.194.

[12]Nel 1582, anno in cui venne posta la prima pietra di questo convento cappuccino, lo scenario religioso vedeva, tra gli Ordini più importanti, i Carmelitani, i Paolotti ed i Francescani Conventuali. Questi ultimi pur possedendo un monastero tra i più ampi della città,  dotato di benefici e di favori, avevano un bel da fare con i monaci del Convento della Santissima Trinità fondato nel 1475 da un altro francescano ribelle. Pur di aggiudicarsi la leadership cittadina, nel 1616 non rinunciarono a fare carte false (occultando intenzionalmente i registri notarili che riconoscevano a San Francesco di Paola il patronato su Corigliano già nel 1598) per contendere ai Paolotti il privilegio del santo patrono. E’ probabile che l’arrivo dei Cappuccini possa aver acuito un conflitto già in atto che, se non sempre palesato, doveva certamente sussistere. Prova evidente di questi contrasti è il rifiuto dei Cappuccini a partecipare l’anno successivo alla processione di Sant’Antonio cui invano i Conventuali cercheranno di obbligarli rivolgendosi alla Sacra Congregazione dei Riti (R. Benvenuto, L'origine del patronato di san Francesco su Corigliano, " Il serratore", IV [1991], 17, pp. 47-49).

[13] R.A. Le Pera, I Cappuccini in Calabria …cit., p.314-336.

[14] G. Leone, I Cappuccini e i loro 37 conventi… op. cit., vol. II, p.292.

[15] Ibidem… op. cit., vol. I, pp. 160 e sgg.

[16] A. Zavarroni, Bibliotheca Calabra sive Illustrium Virorum Calabriae qui litteris claruerunt Elenchus, Neapoli 1753, p.131.

 

    Si ringrazia per la cortese disponibilità Oriana Abbiati.