'U Cuozzi 'i Cimino

di Bina Zagordo

‘U Cuozzi ‘i Cimino

In via 4 Novembre, una volta via della SS Trinità, nota oggi col nome “ ‘U Cuozzi ‘i Cimino “, c’è il “vicinanzi” della mia infanzia. Si tratta di un’arteria molto importante perché allora era l’unica via di sbocco a Piazza del Popolo oltre a via S. Francesco.

Sono nata al numero civico 41, di fronte alla più nota abitazione del dott. Saverio Avella, aveva un balconcino carino che si affacciava su via IV Novembre, il resto della casa invece su rione Falcone. Oggi questa strada sembra disabitata ma nei primi anni cinquanta era piena di vita, di suoni, di odori e di festosi scampanellii delle vicine chiese di S. Francesco e S. Giacomo.

Per me questa strada era come la mia casa, lì mi sentivo al sicuro e quasi coccolata da tutto il vicinato, persone brave della media borghesia, e proletariato, molti dei quali erano miei parenti. La strada si apre con il palazzo Gianzi sulla destra e sulla sinistra quello della famiglia Lucarelli, delle signore pie che a quei tempi facevano dolci su ordinazione.

Andando più avanti si trovava un piccolo slargo con un terrazzino, “astrachiello”, meglio noto a noi bambini come “u Fierri ‘i still ‘i Murruni”, ossia il balcone della signora De Carlo.

Questo era il punto di ritrovo di noi bambini, perché ci piaceva fare le acrobazie a questa inferriata, specialmente d’estate eravamo in tanti: Serafina e Salvatore Visciglia, Silvana De Carlo, Pompea Ferri e i miei cugini Pasquale e Luigi Altomonte. Su questo slargo, sulla sinistra, si trovava l’abitazione dei cugini di mia madre, la famiglia Pirro.

Questa famiglia era molto numerosa in quanto composta dai coniugi e dai 6 figli, tre maschi e tre femmine, tutti allora non coniugati e tali sono rimasti in seguito. La loro casa era un porto sicuro, mi volevano un gran bene, lì correvo quando mi sbucciavo le ginocchia, lì andavo a fare merenda; il momento che ricordo con piacere era quello in cui gli uomini della famiglia tornavano dalla campagna. Erano agricoltori e le donne casalinghe, li attendevano con gioia e al tempo stesso con un senso di devozione, chi correva a prendere i vestiti puliti, chi la bacinella per lavarsi i piedi. C’era un gran tramestio in questa casa e vi regnava una grande armonia, ricordo la tavola imbandita con ogni ben di Dio, non mancava nulla, quando erano tutti seduti era un gran festa. Nel periodo invernale io quasi tutte le sere ero lì, mi piaceva quel momento.

Essendo una bimbetta molto sveglia cantavo loro le canzoni di Sanremo, il mio show piaceva molto ed io mi sentivo galvanizzata. Specialmente d’estate trascorrevo molto tempo da loro di mattina per vedere i film in bianco e nero che venivano trasmessi a settembre in occasione della festa del levante di Bari. La famiglia Pirro era una delle poche famiglie a possedere un televisore, stiamo parlando degli inizi degli anni 50.

Dirimpetto a questa casa viveva la famiglia Marinaro, i quali avevano un negozio, ma non ho mai capito cosa vendessero, forse legumi, ed era gestito dalla signora Marittella e dal marito. La stessa era molto amica della zia Giuseppina Candia, mamma della mia compagna di giochi Serafina Visciglia e stavano spesso davanti al negozio a sferruzzare splendidi pizzi e per forza di cose sapevano tutto di tutti.

La zia Giuseppina abitava proprio sotto casa mia ed era molto amica di mia madre, per cui nel periodo estivo quando si noleggiava la macchina per andare solo per 15 giorni al mare i suoi figli venivano invitati a venire con noi. Anche i miei cugini venivano al mare con noi. La mia famiglia a quei tempi era composta solo dai miei genitori, me e da mio fratello Franco, quindi la macchina era semivuota e la si doveva riempire per forza, non si poteva sprecare lo spazio; infatti in quel periodo le macchine che andavano per “i bagni” a Schiavonea venivano riempite come scatole di sardine.

Un po’ più avanti, sulla destra c’era la casa della famiglia Terzi e al piano di sotto la casa della mia nonna materna. Lì davanti c’era uno slargo dove aveva un negozio di generi alimentari mia zia, sorella di mia madre: a “Sè Carmenia ‘i Momò”. Questa zia era un personaggio mitico, tutti la conoscevano per la sua modernità, grinta e schiettezza, in molti la odiavano perché chiedeva loro soldi per la “crirenza” ossia merce venduta a credito.

Sulla sinistra c’era la casa della mia nonna paterna le cui finestre affacciavano sullo slargo. Spesso mi affacciavo con nonna da quelle finestre e mi sembrava di stare a teatro per le varie scene singolari a cui si assistevo.

Nella casa della mia nonna materna (Sè Maria i Momò) abitava mio zio Cosimo Altomonte con la sua famiglia, il suo soprannome era Galli ‘i razza, perché era l’unico figlio maschio in una famiglia di otto donne. Ho amato tanto questa casa perché lì vivevano ancora i miei nonni e ogni domenica tutte le figlie andavano a fare visita ai loro genitori, per cui si può immaginare che grande baldoria c’era. Ogni figlia aveva almeno due figli di età diversa. La casa era grande e noi bambini venivamo sistemati nella prima stanza e li ci divertivamo a giocare, ma c’era mio cugino Luigi Altomonte che era molto dispettoso, a noi femminucce tirava i capelli e strillavamo a gran voce. Le nostre mamme esasperate ci riportavano a casa, ricordo ancora la mia delusione quando la visita durava poco.

Proseguendo per la via sulla destra c’era il palazzo del farmacista Malena e della famiglia Cilento, di fronte a questa c’era la casa di zio Battista Zagordo, dove abitavano i miei cugini Cosimo e Francesco. Proseguendo, ancora, la casa Borromeo, sotto la quale abitava la sorella di mio padre Mammazia con la figlia Rosetta.

A quei tempi le porte delle abitazioni erano aperte e i vicini entravano anche senza chiedere il permesso come se fosse casa loro, si condivideva tutto: quando si ammazzava il maiale, quando si facevano le conserve, quando si facevano i fritti per Natale, tutto il vicinato si adoperava ad aiutarsi a vicenda.

Proseguendo si arrivava ad una curva dove poi la strada proseguiva per via corso Garibaldi, proprio in quella curva sulla destra abitava mia zia Assunta, coniugata La Grotta, sorella di mia madre con le sue tre figlie: Carmelina, Gina e Franca. Lì finiva per me la strada e il mio mondo, oltre quella curva mi era proibito andare, anche perché oltre non abitava nessuno dei miei parenti. Anche in questa casa ho trascorso belle giornate trastullata dalle mie cugine che mi consideravano la loro bambola, il loro gioco preferito era pettinare e lavare continuamente i miei riccioli bruni.

La strada era frequentata da diversi personaggi che oserei definire bizzarri, C’era “Bbicienzi” che attirava molto la mia curiosità di bambina, vestiva da uomo aveva la barba ma sferruzzava tutto il giorno maglie di lana. C’era Ginuveffa che portava l’acqua alle famiglie, mi incuteva paura e quando la vedevo correvo a nascondermi. C’era poi “Totonnielli ‘i ra Carbunella” sempre sporco e nero, “Ruminichielli ‘i 33 anni” affetto da nanismo. A quell’epoca non passavano macchine, solo alla sera arrivavano i traini (carri) e si sentiva il calpestio degli zoccoli dei cavalli sull’acciottolato. C’era un carro che veniva parcheggiato proprio di fronte alla casa Terzi e noi bambini, nelle sere d’estate, ci salivamo sopra e ci inventavamo molti giochi. I nostri genitori non avevano paura a lasciarci di sera per strada, perché non correvamo alcun pericolo ed inoltre eravamo costantemente sorvegliati; a qui tempi in casa ci sentivamo prigionieri, non c’erano videogames né la TV che trasmetteva continuamente cartoni animati. Nei giorni che precedevano la festa del santo patrono, S. Francesco da Paola, la strada si animava ancora di più. Erano giorni di grande attesa e di gran fermento e noi bambini ci spostavamo sul tratto che porta da via IV Novembre in prossimità del santuario, perché lì era la festa, le luci, decine di bancarelle che vendevano di tutto, ma per lo più generi alimentari: mostaccioli, torroni e i cavallucci di pasta di caciocavallo tanto amati da noi piccoli.

In prossimità della chiesa vicino al “gafio” del palazzo Mazziotti, c’era un mendicante senza gambe che ripeteva come una cantilena “fate la carità povera vita mia sventurata senza le gambe”. Io con la mia curiosità di bambina mi fermavo ad osservarlo e mi chiedevo come facesse ad arrivare fin lì senza gambe.

Un altro momento in cui la strada si animava di più era il giorno del Corpus Domini e per via IV Novembre si faceva a gara a chi faceva l’altarino più bello. Venivano tirate fuori ‘i ri casciuni, cassoni in legno con coperchio, le coperte più preziose e i broccati più pregiati per allestire gli altarini, il più bello per me era quello che si faceva davanti al portone Gianzi, perché veniva curato dalle sorelle Lucarelli che abitavano lì vicino. Noi bambini stavamo lì in attesa, in religioso silenzio ad aspettare l’arrivo del Santissimo. Anche la festa di S. Giuseppe era un evento importante per noi perché ci dedicavamo alla raccolta ‘i ri juricielli (fiorellini) nel rione Falcone dove ancora l’edilizia non si era sviluppata ed era piena di prati in fiore. Poi si andava sui balconi e sulle ringhiere per lanciare i fiorellini al Santo che passava. Mentre i bambini andavano a “Virnucci” a raccogliere le frasche per fèri ‘u pagghjari.

Oggi tantissime tradizioni si sono perse, la modernità ha cancellato tutto, anche i valori. Oggi quella strada sembra deserta anche se quasi tutta abitata, le porte e le finestre sono sbarrate come se ci fosse il coprifuoco. Che peccato! A volte quando ripercorro quella strada in quel gran silenzio sento riecheggiare le spensierate voci di noi bambini, il profumo delizioso del ragù della domenica, le allegre note delle canzoni di Modugno allora in voga come “La donna riccia” o “Volare” e capisco che quello è e resterà per me il luogo dell’anima.

Sulla destra il portone di casa dell'autrice del racconto
Sulla destra il portone di casa dell'autrice del racconto