'U Castilluzzi
di Rinaldo Longo

Il Castelluccio, un bene da conoscere e salvare
Premessa
Il Prof. Giovanni Scorzafave, che, attraverso quanto ci fa leggere e vedere in Internet sul suo interessante sito, va dando prova di grande amore per la nostra Corigliano Calabro e in particolare per il cuore del suo centro storico, il quartiere Castelluccio (dial. Castilluzzi), mi chiede un mio intervento proprio su questo argomento, sapendo, egli, che io ntru Castilluzzi sono nato e sono cresciuto. È con immenso piacere che soddisfo questa sua richiesta.
Ebbene ritengo, e suppongo che egli sarà d’accordo, sia utile soffermarsi dapprima sul contenitore, cioè sul Castelluccio come struttura abitativa e poi sul contenuto cioè sui suoi abitanti nel tempo e sulle cose o i fatti loro riguardanti, naturalmente per quanto io ne possa sapere.
Per quello che dirò sono pervenuto alla convinzione che la struttura abitativa de ilCastelluccio può essere considerata il quartiere più antico di Corigliano Calabro. Ma procediamo con ordine e cerchiamo di dimostrarlo.
La parte del centro storico, con tale nome, come ho già scritto in altro luogo (Vetera Nova, anno 1, num. 8, Corigliano Calabro, 2013, p. 2) “in senso largo è quell’area cittadina posta tra la Chiesa di San Pietro, il Municipio vecchio, la Chiesa di Tutti i Santi, la Portella, Casa Spanò e Casa Garetti, in senso stretto è quell’area quadrangolare (a sud della piazzetta Municipio), alla quale si arriva da cinque accessi, quattro coperti a “suppuorti” e uno no, ma non è da escludere che anche questo lo fosse”. Generalizzando quando si parla di Castelluccio si intende quella parte urbana che sta a destra della chiesa di San Pietro fino alla Portella, là dove inizia l’avvallamento di Cirria.
“La zona del Castelluccio fu abitata, fin dall’antichità, secondo alcuni col nome Auxon (Ausonia), da popolazione italica, enotria o bruzia, parlante l’osco-umbro-sannito, una lingua di varietà indoeuropea come la lingua latina. Certo è a questo sostrato osco-umbro-sannito che si devono in particolare alcuni elementi distintivi della parlata coriglianese, per esempio il nome dialettale della città: Curgghjeni [kurggenə]a frontedel latino Corelianus. È questo il nome che il sito assunse dopo la conquista romana e la sua assegnazione a Corelius che qui, si può presumere, abbia costruito la sua villa” (Vetera Nova, cit.). Non solo, ma, presentandosi la collina di Corigliano come un punto strategico importante per scoraggiare i Bruzi, posizionati sulle montagne a Sud e a Sud –Ovest della stessa, da eventuali voglie di disturbo e di dominio su Copia-Thuri e sul suo territorio, in particolare sul praedium Corelii, i romani vi innalzarono un tipo di castra stativa, cioè un accampamento o una fortezza di tipo permanente per lo stazionamento di una guarnigione di soldati. Tale, molto probabilmente, era allora quello che abbiamo chiamato il Castelluccio in senso stretto. Ora, tutti sappiamo che castelluccio è il vezzeggiativo di castello e quindi, come quest’ultimo, da cui deriva, ha la sua origine nel sostantivo latino castrum(=accampamento oppure costruzione fortificata per motivi di difesa). L’accampamento del tipo castra stativa spesso ha dato origine a paesi, centri fortificati o città (cfr. Castrovillari).
Ma, se sappiamo che nel territorio di Corigliano sono certe delle tracce di insediamenti del periodo neolitico o dell’età del bronzo o di gente bruzia o enotria, al contrario del primitivo nucleo insediatiativo sulla collina in epoca romana per ora abbiamo solo due indizi:
1) Il nome Corigliano (dial. Curgghjeni) che ha l’odierna città, nome che, come abbiamo detto, deriva dal latino Corelianus, -um, che significa che appartiene a Corelio o Corilio, podere di Corilio, territorio che appartiene e Corilio, ma anche villa o villaggio di Corilio;
2) Il nome di un quartiere di Corigliano, il Castelluccio (dial. Castilluzzi), termine che ha la sua origine nel lat. castrum,cosa agevole da verificare su un comune dizionario etimologico.
Questi due indizi sono il risultato di un’indagine linguistica. In particolare, riguardo al primo la ricerca, condotta sul finire degli anni sessanta e pubblicata nel 1975 presso la Tipografia A.G.J., con il titolo Donde il nome a Corigliano?, porta la mia firma. Con questa ricerca ho cancellato tutte le ipotesi precedenti sull’origine del nomeCorigliano perché fantasiose e senza nessun fondamento scientifico valido e ho proposto Corelianum (o Corillianum) da Corelium+anum (dove Corelius, -um è il nome di un membro di una nobile famiglia equestre romana mentre –anus, –anum è un suffisso prediale) etimologia condivisa oltre che da Gerard Rohlfs anche dagli storici coriglianesi più recenti come Luigi De Luca e Enzo Cumino.
Ebbene oggi, dopo quaranta anni, mi accingo a fare nuovamente da battistrada per una ricerca che partendo dal nome del quartiere Castilluzzi, farà luce sul sito del primo nucleo del centro urbano di Corigliano Calabro in epoca romana.
Sul finire degli anni ’80 si ritenne che il primo nucleo del centro urbano di Corigliano fosse sul colle del Serratore (cfr. Enzo Cumino, Storia di Corigliano Calabro, Tip. MIT, Cosenza 1992, p. 18), cioè a destra e a sinistra dell’ultima parte di Via Toscano, che arriva fino alla chiesa di San Luca con annessa grancia del Patire, ora ridotta a più elementi abitativi, e con il palazzo Castriota. Io dichiaro di non condividere questa affermazione per vari motivi. Infatti, mentre sono d’accordo sul fatto che un borgo medioevale bizantino, risalente al X secolo d. C. possa essere nato con l’insediamento dei profughi di San Mauro sul colle del Serratore, ce lo lasciano capire chiaramente le chiesette di San Luca, Santa Venere, San Basilio, San Nicola, non ritengo sia stato quello il sito del primo nucleo abitativo della città di Corigliano.
Io credo che ai tempi di Copia-Thuri, cioè a partire dal II secolo a. C., nei pressi di una villa, un villaggio, un podere, un proedium Corellii dal nome appunto Corelianum(poi Corillianum diventato Corigliano, ma è attestato in passato anche Corliano a cui si richiama l’odierna pronuncia osco-umbro-sannita Curgghjeni) esistesse un campo fortificato, un piccolo castrum, cioè “u Castilluzzi” (il Catelluccio in senso stretto) con una guarnigione di soldati romani a protezione della villa di Corelio e per tenere a bada i Bruzi della zona di Acri e della Sila, che avrebbero potuto infastidire Copia-Thuri. Era quindi un campo fortificato del tipo castra stativa.
Attorno al detto castrum si è sviluppato il primo nucleo urbano chiamato Corilianum, che nei primi secoli dopo Cristo corrispondeva al Castelluccio in senso lato come sopra delineato.
Qui termino il mio discorso, sperando che altri, pieni di perizia e di amore per la nostra città di Corigliano Calabro, possano, ad esempio, scoprire il decumano e ilcardo, il forum e/o il pretorium di questo castrum. Io ho motivo di credere che ilcastrum in questione fu innalzato con la piazza o l’ufficio pretorio rivolto ad Est che poi è il lato più vulnerabile (per intenderci la via che da Piazza del Popolo porta alla Portella).
Il Castelluccio in passato già colpì la fantasia dello storico Giuseppe Amato che nella sua Crono-Istoria della città di Corigliano Calabro (Tipografia del Popolano, Corigliano Calabro 1884) così ne parla: “Il Castelluccio era un luogo di Presidio, come l’addimostra l’aggregamento delle fabbriche, la loro forma, la loro costruzione, non solo, ma ancora quell’arco, che tutt’ora esiste, e su cui ora è poggiata la casa Chiappetta” (p. 58). In un’abitazione accostata a questa casa io sono nato, li è iniziata a formarsi la mia memoria, lì ho lasciato il mio cuore. In questo quartiere affondano le mie radici socio-culturali.
“La struttura abitativa del quartiere Castelluccio, conservatasi ancora tipicamente medioevale , negli anni ’40-’61 era popolatissima. Vi abitavano famiglie di tutte le classi sociali: braccianti, giornalieri di campagna, artigiani, massari, professionisti, impiegati, gentiluomini e baroni. Il rapporto fra tutte le famiglie era buono. Non vi era spazio abitativo che non fosse abitato, non vi era locale che non fosse utilizzato. So che oggi così non è” (Vetera Nova, cit.).
Dal periodico Vetera Nova (dicembre 2013)
Il Castelluccio (U Castilluzzi) è probabilmente il quartiere più antico di Corigliano. In senso largo è quell’area cittadina posta tra la Chiesa di San Pietro, il Municipio vecchio, la Chiesa di Tutti i Santi, la Portella, Casa Spanò e Casa Garetti, in senso stretto è quell’area quadrangolare a sud della piazzetta Municipio alla quale si arriva da cinque accessi, quattro coperti a “suppuorti” e uno no, ma non è da escludere che anche questo lo fosse. Sopra uno di questi accessi sono nato nel 1940, al Vico IV Municipio (l’abitazione è quella con scala di entrata sopra “u suppuorti” ed è all’ultimo piano). Qui ho vissuto fino al 1962. La zona del Castelluccio fu abitata, fin dall’antichità, secondo alcuni col nome Auxon (Ausonia), da popolazione italica, enotria o bruzia, parlante l’osco-umbro-sannito, una lingua di varietà indoeuropea come la lingua latina. Certo è a questo sostrato osco-umbro-sannito che si devono in particolare alcuni elementi distintivi della parlata coriglianese, per esempio il nome dialettale della città: Curgghjeni [kurggenə] a fronte del latino Corelianus. È questo il nome che il sito assunse dopo la conquista romana e la sua assegnazione a Corelius. La struttura abitativa del quartiere, conservatasi ancora tipicamente medioevale, negli anni ’40-’62 era popolatissima. Vi abitavano famiglie di tutte le classi sociali: braccianti, giornalieri di campagna, artigiani, massari, professionisti, impiegati, gentiluomini e baroni. Il rapporto fra tutte le famiglie era buono. Non vi era spazio che non fosse abitato, non vi era locale che non fosse utilizzato. Oggi così non è. In questo quartiere affondano le mie radici socio-culturali. Ora, pur vivendo a 50 chilometri dalla mia città, mi capita spesso di sognare ad occhi aperti e di ritrovarmi bambino, o ragazzo, o giovane in quel quartiere. Uno dei momenti più ricorrenti che vi rivivo è quello natalizio. Quando questo mi accade, si affollano nella mia mente volti, voci, scene, riti, cibi, leccornie, suoni, canti, detti, oggetti, regalini (di scarso valore, ma di alto potere emozionale). Cerco di soffermarmi su qualcuno di questi ricordi, da me ritenuti più significativi. Ebbene, se penso che è prossimo l’inizio di dicembre, come un riflesso condizionato le mie narici sembrano respirare quel buon profumo di cose fritte che si spandeva dalle porte e dalle finestre delle case, con esclusione di quelle disturbate da qualche lutto. Era il profumo dei crùstuli (lat. crustulum), della pasta cumpetta, dei cullurielli (greco volgare colloùra) ruteti o ‘i pasta crisciu-ta, dei pittulilli (greco volgare pìtta), della giurgiulena (arabo giungiulán, in italiano sèsamo), era il profumo della cannella, del miele d’api o di fichi, del moscato e del passito con cui questi prodotti tuttora vengono lavorati. A proposito di “crustuli”, il loro impasto viene annaffiato da un eccellente vino bianco e da uno squisito olio extra vergine di olive nostrane. Mia madre utilizzava il passito di Pantelleria, grazie alla bontà di mio zio Antonio Ungaro, il poeta Ciccuzzo, che ce ne regalava un bottiglione di due litri di quello che vendeva ai distinti clienti nella sua cantina di Via Roma. Quanto all’olio, era mio zio Vincenzo Casciaro (Ligni ‘i Vrica), fattore di Don Rocco Garetti, a regalarcene di buona qualità. Nel Castelluccio vi era una cantina gestita da Nardi ‘i Pallotta. Egli iniziava a vendere il suo vino nuovo all’approssimarsi dell’Immacolata, nel rispetto del detto “a ra Mmaculeta ogni bbutta è ntrivilleta”. A diffondere la notizia il banditore, Zu Francischi Ponti. Lo stesso che nel secondo dopoguerra, all’approssimarsi delle feste natalizie, ci aiutava a vendere una diecina di pani, che mia madre aveva preparato con quell’unico bene che possedevamo, la farina, per poter disporre di qualche soldino con cui comprare qualche prodotto da consumare nei pranzi e nelle cene delle feste, come baccalà, salsiccia, broccoli, “cipullizzi”. Avvicinandosi l’Immacolata ci si accingeva ad allestire il Presepe. Primo atto era quello di andare a scorticare dai muri o dal terreno, con una palettina, del muschio che portato a casa serviva a formare il piano su cui poggiavano la capanna della Natività e i pastori. Ricordo che un giorno di dicembre dei primi anni cinquanta, si diffuse la notizia che nella carbonella del braciere, a casa della famiglia dei “Tagghjachesi”, era apparso un Bambinello. Si gridò al miracolo. Da tutta Corigliano la gente veniva in pellegrinaggio per vederlo. Andai tra i primi a vederlo anch’io. Quando arrivò il mio turno vidi che era un Bambinello di creta bruciacchiato. Dopo qualche giorno arrivò la notizia ufficiale. Si trattava di un Bambinello di creta, che era finito nel braciere mescolato alla pagliuzza con cui erano stati accesi i carboni. Il pellegrinaggio finì. La pagliuzza l’aveva portata a casa per smaltirla il giovane Giorgio che aiutava il signor Luigi Grillo, padrone della cartoleria, che vendeva pastori da presepe “a ra Gghjazza”. Ma con l’avvicinarsi dell’Immacolata, oltre alla realizzazione del Presepe, ci procuravamo anche un ramo di “pizzinganguli” (it. corbezzolo), già bello con i suoi frutti, e lo si abbelliva ulteriormente, appendendovi caramelle, cioccolatini, arance, mandarini: era quello il nostro albero di Natale. Il tredici dicembre, Santa Lucia, sulla tavola si mettevano le tredici cose. Erano, in genere, tredici tipi di frutta, fresca o secca; non dovevano mancare “amelle” (le nespole invernali che maturano nella paglia) e mirtilli. Alcune notti di dicembre erano suggestive per la musica e i canti che risuonavano nei vicoli. L’atmosfera inteneriva i nostri cuori attra-verso le note della ciaramella di “Mazzoni” e della voce di “u Nìvuri” che abitava nel Castelluccio. Serenate portate ad alcune famiglie del quartiere, delle quali ricordo alcuni versi iniziali: “Senz’essiri chjameti sugni vinuti”, “Ohji cumperi mia ri gran valuri”. Si chiudeva sempre con l’invito ad entrare in casa per bere un augurale bicchiere di vino. La vigilia di Natale noi ragazzi, bene equipaggiati con cappotti e sciarpe, giravamo a gruppi per le case per chiedere la “ninnarella”, che di solito consisteva nella regalìa di un “crùstuli”, un “cullurielli”, un rombetto di “giurgiulena” o di “pasta cumpetta”, un mandarino, un’arancia, delle noccioline o altra frutta. La “ninnarella” si chiedeva, quasi nascondendosi il volto e con questa espressione: “Ninna, Ninnarella, n’a runeti ancuna cosicella ppir amuri ‘i ru Santi Bommini?” Se la richiesta non veniva esaudita, la vendetta era: “Ti vo ccariri u càntiri mmienz’a chesa”. Vi confesso che l’arrivo delle feste natalizie era per me, ragazzo, l’occasione per mettere da parte qualche soldino nel sacchettino, che si riempiva non tanto con le strenne che raccoglievo, quanto con le regalìe ricavate dalla distribuzione, che effettuavo per conto del Barone Don Pasquale De Rosis, di piatti di capitoni e ostriche a persone altolocate e professionisti. Ne arrivavano due ceste da Taranto, dove si diceva che il Barone avesse un “giardino di allevamento” di questa merce. La distribuzione cessò con la morte di Don Pasquale, “u Signurini” (il Signorino). La sua abitazione e la mia, ben più modesta, avevano l’accesso dallo stesso portone e dalla stessa scala. Il 24 dicembre, a cena, sulla tavola della maggior parte delle famiglie del Castelluccio non mancavano, oltre a vino, pasta e broccoli neri o pasta e ceci, baccalà fritto e in umido o con patate, “ngille” di melloni (strisce ricavate dalla sottocorteccia del mellone essiccare; rigenerate nell’acqua, si preparano infarinate e fritte o in padella con olio di oliva e pepe rosso), frittelle di broccoli neri o di cavolfiori bolliti e passati in pastella, “cipullizzi” (lampascioni cucinati con aceto, olio di oliva e pepe rosso). La Notte di Natale vedeva riuniti noi del Castelluccio nella Chiesa parrocchiale di San Pietro per la solenne Messa cantata celebrata da Mons. Celestino Colosimo, Vicario foraneo e nostro parroco. Di questa Chiesa ho frequentato l’oratorio e qui avevo molti amici. Di Don Celestino avevo memorizzato, insieme con loro, le frasi iniziali delle omelie per le maggiori feste della cristianità. Quella riservata al Natale arrivava immancabilmente sempre la stessa: “Venti secoli or sono nasceva a Betlemme in una mangiatoia un Bambinello”. I nostri sguardi si incontravano e le nostre bocche modellavano un affettuoso sorriso.
Rinaldo Longo