Santuori
di Giorgio De Rosis

“Santuori” è un rione ubicato nella storica zona della “Giudecca” e vi si può accedere sia dalla strada del vecchio Municipio sia dalla gradinata della “Portella”.
Vi si trova l’antica chiesa di Tutti i Santi, dalla quale il rione prende il nome.
“Santuori” mi è molto caro, perché ci sono nato e cresciuto fino all’età di vent’anni, lasciandoci i ricordi più belli, legati alla mia infanzia e alla mia adolescenza.
Ogni volta che mi si presenta l’occasione, ci ritorno ben volentieri, anche se negli ultimi anni noto un degrado che fa spavento : case abbandonate e diroccate.
Quando capita, mi siedo un attimo su uno dei gradini della scala della chiesa Ognissanti e ritorno indietro nel tempo. Quanti ricordi e quanti personaggi che mi affiorano alla mente.
Mi rivedo ragazzo, quando giocavo, insieme a tanti compagni, a pallone nel vicoletto stretto e angusto, che per noi rappresentava un piccolo stadio. Poi, oltre al calcio, si giocava a ‘’Manuè-manuè-zazà’’, a “uno si monta la luna”, a “Scintilli scintilli vulanni”, a “Zurri-zurri-ttà”, a “Ru mazzuni”(alcune volte, con spirito malevole, veniva messo un sassolino nel fazzoletto per fare sentire più dolore), a “ra mazza e trugghji” (quanti vetri di finestre rotti cu ru trugghji!). Qualche volta, non ascoltando i consigli dei nostri genitori, facevamo dei “giochi violenti”. Tra questi, quello della “Guerra tra vicinanzi” era molto pericoloso. Si utilizzavano, soprattutto, pietre e frecce. Le prime, che si trovavano facilmente sulle nostre strade non ancora asfaltate, le lanciavamo agli avversari, ‘a ri nimici, pronunciando la fatidica frase : «A chjini chjava, chjava, a capa unn’è dda mija”». Le seconde, erano delle vere e proprie frecce, realizzate con le bacchette dei vecchi ombrelli, alle cui estremità si metteva un filo di lenza e si utilizzava un altro ferro di ombrello, appuntito, come freccia.
Un altro gioco altrettanto pericoloso era quello della “fontanella”. Quest’ultimo consisteva nel fare una buca, appunto la “fontanella”, e vi si versava un po’ d’acqua, poi il carburo; si metteva un barattolo rovesciato, ‘na rametta, con un piccolo foro sul fondo e si chiudeva bene la buca con terra. In pratica, si realizzava una camera di scoppio che a contatto con il fuoco, spesso un pezzetto di carta di giornale accesa con un fiammifero, il barattolo si trasformava in un pericoloso proiettile. Un gioco pericoloso e anche proibito. Beata incoscienza!
‘I cumpagni ‘i ri juochi erano tanti. Tra questi, ricordo Giovanni De Vincenzo, detto Giuvann’u rizzi, figlio di Angelo ‘i baff’i quagghji, Franco Manna, noto come ‘u King, Tonino Stefano Celico, detto Mazzola, Premio Leonino, Gianfranco Cicero, Ciccillo Taverna e Rocco Cimino.
Alla sera avevamo l’abitudine di ritrovarci seduti sulla piccola gradinata della chiesa ‘i Santuori a raccontare favole sulle case degli spiriti. Erano racconti, immaginari, di storie talmente di orrore, che si concludevano sempre con l’accompagnarci alle rispettive abitazioni l’uno con l’altro per la paura. Faceva eccezione uno solo. Il cosiddetto ‘u giovanotti, che, per farsi notare e assumere l’atteggiamento di leader della compagnia, se ne tornava a casa da solo.
Santuori era un rione piccolo con numerose famiglie, con le case che si abbracciavano tra loro attorno alla chiesetta. Ci conoscevamo tutti, anche dai semplici e inconfondibili toni di voci : dalla voce baritonale di Angelo ‘i baff’i quagghji, a quella della suocera, Sant’ì palummi, una donna dalla prestanza fisica eccezionale, che faceva la lavandaia.
Dietro la chiesa di Ognissanti ricordo le famiglie dei Misurelli, dei Longo, delle maestre Ciampa, dei Serra, di Maria Santa ‘i bricichetta, di Schavunia i’Nili, e tante altre ancora.
Alcune famiglie si distinguevano per la loro gentilezza e sopportazione nei nostri confronti. Altre, al contrario, per la loro intolleranza. Tra le prime, le famiglie di Taverna, dei Cimino, dei Leonino, dei Cicero, degli Agrippino e moltissime altre ancora.
Tra le seconde … meglio non fare i nomi. Queste ultime ci ostacolavano nei nostri giochi con gridate, bestemmie e, qualche volta, non mancavano sulle nostre povere teste secchiate di acqua dalle loro finestre. Ancora oggi, dopo tanto tempo, sento le terribili gridate, tanto per non fare il nome, di don Michele De Gennaro, un uomo dal carattere intransigente e severo, che ci incuteva paura.
Tra i tanti personaggi che vedevo passare, il pomeriggio, dal mio vicinanzi era Genoveffa, moglie di Salvatore Veronese, noto come Sarbaturi u lupimannari. Come il marito, è stata una donna che ha vissuto onestamente del suo grande e faticoso lavoro. Mentre Sarbaturi portava sulle spalle quintali e quintali di sacchi di farina, di pasta,…., lei, che faceva la lavandaia, qualche volta andava anche a “riempire l’acqua””, ‘a ru canalicchj’i Santuori, alle famiglie che ne facevano richiesta. Riusciva, in perfetto equilibrio, a portare insieme vari recipienti d’acqua : na ciarra sulla testa, rua trimunielli sotto le ascelle e rua vummuli con le mani. Una cosa incredibile. Ancora oggi non riesco a capire come faceva a non rompere neanche uno di quei benedetti recipienti per l’acqua. Grande Genoveffa.
I bei ricordi col tempo sbiadiscono e tutto di allora sembra strano rapportato al mondo di oggi.
Mi capita qualche volta parlare con degli amici di quel tempo ed emerge subito che uno dei rimpianti è quello di non aver potuto trasmettere e far conoscere ai nostri figli l’amore e la fratellanza che ci teneva uniti tutti ntru vicinanzi. Sarà colpa del progresso e del benessere? Mah…
(non saprei rispondere)