Sam’Prancischielli
di Giuseppe Pellegrino

Sono nato, nell’esatta metà degli anni ’50, a Sant’Antonio, in una casa dell’INA. Dopo soli pochi mesi, però, la mia famiglia si è trasferita a San Francesco, più precisamente in quella stradina, chiusa al traffico e alla quale si accede tramite un cancello, che porta dalla piazza a Sam’ Prancischielli, l’antico Romitorio del Santo Patrono di Corigliano. In seguito, verso la fine degli anni ’60, sono andato a vivere nel Rione Ariella, dove vivo tuttora. Ma quando si parla di “vicinanzo” la mia memoria va solo ed esclusivamente all’esperienza di "Sam’Prancischielli". Il "vicinanzo" era quello, in senso stretto, ma per me, ragazzino vivace e ansioso di socialità, ovviamente si estendeva al sottostante rione “Santi Japichi”, che casa mia sovrastava e con sconfinamenti frequenti a “Farcone da un lato e ai “Capuccini” dall’altro. L’Ariella era ed è un quartiere che, sebbene alla nascita avesse la pretenziosità della modernità, adesso non rappresenta più né il vecchio né il nuovo. Rappresenta però, nell’immaginario collettivo, insieme al quartiere Acquedotto, che nasceva nello stesso periodo, l’inizio della scomparsa dei vicinanzi, così come sono comunemente intesi. Nei quartieri moderni la gente abita nei cosiddetti appartamenti e già nella definizione si ha l’idea dell’appartarsi, dell’isolarsi. Prima, invece, le abitazioni non avevano queste caratteristiche, ma erano sistemate, di necessità, in modo che spesso la vita vi si svolgeva in modo più comunitario. Certo i nobili e i benestanti cercavano comunque di salvaguardare la propria privacy, ma i più vivevano, spesso loro malgrado, molto in comunione e addirittura, i più poveri, anche in promiscuità con le bestie. Il concetto di abitazione era completamente diverso dall’attuale. Gli spazi interni erano molto limitati, per cui molte attività umane si svolgevano all’aperto. I rapporti sociali erano regolati da una larga diffusione della cultura della tolleranza (si faceva di necessità virtù) e la vita nel "vicinanzo" appariva come una vera e propria scena teatrale all’aperto, dove il reale si mischiava con l’esagerazione, facendone risultare uno spettacolo unico ed irripetibile. Il mio "vicinanzo", e le sue più vicine propaggini, San Giacomo ed i Cappuccini, erano, tutto sommato, zone abbastanza tranquille, di un ceto mediamente non disperato. Sono usciti da lì tanti ottimi professionisti, che tuttora occupano posti di rilievo nella società cittadina, ma anche al di fuori di essa, così come tanti eccellenti insegnanti, impiegati, artigiani, imprenditori. Certo non mancavano, per lo più collocati nelle dimore più infime, alcune famiglie davvero disagiate, composte da numerosi componenti. Questi, inconsapevolmente, rappresentavano la parte più folcloristica del "vicinanzo", con la loro rozzezza, la loro volgarità, la loro ignoranza ed il parlare sguaiato, che troppo spesso viene confuso con il dialetto originale, e non sempre il resto della comunità riusciva a contenerne le esagerate intemperanze con atteggiamenti scongiuranti. Manifestazioni molto caratteristiche di queste circostanze erano le cosiddette “scerre”, che spesso sorgevano improvvise e violente (verbali soprattutto). Erano dei momenti molto plateali, che potevano durare poco, se l’altro contendente scongiurava, oppure potevano avere un decorso degno delle più lunghe telenovelas, se l’altro rispondeva per le rime. In questi casi era prevista anche la partecipazione di un coro, a volte aizzante ed a volte rappacificante. Tuttora, quando vengono riproposte nelle rappresentazioni teatrali, da parte di compagnie locali, suscitano ancora intensa curiosità e divertimento assicurato. Durante i nostri frequenti scorrazzamenti attraverso i vicoli e le viuzze era frequente assistere ad attività della vita quotidiana che si svolgevano all’aperto, sotto gli occhi di tutti: l’accensione del braciere, la “scapatura dei pesci", lo “spennamento” di un pollo, racconti di fatti, specialmente pettegolezzi, la “ligatura” dei capelli, che per le donne anziane era un vero e proprio rito quotidiano, con, in alcuni casi, il relativo “scazzamento” delle lendini e dei pidocchi, che affliggevano grandi e bambini, la preparazione delle conserve e cosi via. I pasti venivano spesso consumati, in particolare dai miei coetanei, per strada. Ciò suscitava in me tanta invidia, costretto come ero, da severe imposizioni familiari, a regole di buona creanza, che non capivo, mentre il loro correre per la via, con una barchetta di pane in mano, riempita da una forchettata di rape o da qualche “sarda arriganata”, mi sembrava il trionfo della libertà. Il mio "vicinanzo" comprendeva, dal lato destro, guardando il Romitorio, uno spiazzo libero, incolto, che era conosciuto come “l’uorto di ronna Vicenza” che veniva utilizzato, da noi ragazzini, per alcuni dei giochi di moda allora. Lì ci scatenavamo in epiche partite di “mazza e trugghjo” (lippa) o a “fontanelle”, variante della precedente, con regole complesse e fantasiose (l’andare a “surici” , i vincoli della “fonta caura e fonta fridda”, la toccata dell’orecchio, a cui il giocatore di ritorno dai “surici” non si poteva sottrarre e che, a seconda del calore, faceva pendere la decisione su chi avesse nascosto il “trugghjo” ecc.) con pegno finale per chi perdeva. Si giocava lì molto anche alla “staccia” e a tutte le sue varianti, con passaggi di mano di figurine vorticoso. Il giorno fortunato riempivi le tasche e magari il giorno dopo “sballevi” completamente. Un altro gioco che ricordo bene era quello della cattura degli uccellini, con un sistema che allora appariva a me molto sofisticato e difficile. Si posizionava un recipiente, di solito un setaccio o una piccola cesta, sollevata in parte da terra e retta da un bastoncino. A questo veniva legato un filo e sotto la trappola veniva messa un’esca per gli uccellini: miglio, olive, pane e tutto quello di cui si disponeva. Ci si metteva poi ad una certa distanza, reggendo il filo ed osservando con estrema attenzione quello che succedeva nei pressi della trappola. Allorché l’uccellino si intrufolava dentro, con un colpo secco si tirava il filo e la preda rimaneva intrappolata. Veniva poi, con molta destrezza, recuperata. Detta così sembra facile, ma vi assicuro che molti uccellini riuscivano a scappare, in specie non appena si sollevava la cesta. I più ambiti erano i cardellini, che finivano nelle gabbiette dei ragazzi o venivano venduti a chi li comprava per lo stesso scopo. Sul lato opposto all’orto, dall’altro lato della chiesetta, c’era allora uno spazio, di appartenenza al convento dei cappuccini, che si presentava come una pietraia. Poiché non avevamo uno spazio per giocare al pallone, si decise di togliere quei sassi e di ammucchiarli in un angolo, per renderlo agibile al calcio. Facemmo una fatica immane per dei ragazzini, per lo più neanche adolescenti, ma finalmente avemmo il nostro campetto, che ci riempiva di orgoglio e ci consentiva di organizzare tornei tra rioni, molto partecipati. Ci creò anche dei problemi però, perché, quando la nostra fatica fu terminata, i frati cappuccini, che fino ad allora non si erano per nulla curati di quel posto, istigati dai ragazzi della Azione Cattolica, si accorsero di questo nuova opportunità e ne rivendicavano la proprietà. Il nostro “diritto” lo dovemmo difendere con le unghie e con i denti e con qualche sassaiola, come deterrente ad invasioni non autorizzate da noi. Nella parte pavimentata invece la facevano da padrone i giochi come il “carruocciolo” (la trottola), “u ruolli” (il cerchio), la campana, nascondino, “scintille”, palla velenosa ecc. La parte, invece, che si estendeva alla piazza S. Francesco ci era in qualche modo interdetta dalla presenza dei ragazzi più grandi, che lì stazionavano a frotte e noi li avvicinavamo solo per osservarli e per ascoltare ammirati le loro gesta millantate di avventure galanti. Il massimo della curiosità, però, veniva suscitato dai racconti della Germania, quando i “germanesi” ritornavano per le ferie. Stavamo ore ad ascoltarli ed a fantasticare su quel mitico luogo. Ci sarebbe tanto da scrivere. Tanti episodi meriterebbero un racconto a parte. Circostanze e personaggi si affollano in modo confuso nella mente, suscitando sentimenti diversi. Spesso si guarda a tutto ciò con nostalgia. Specialmente per noi, che allora eravamo giovani o fanciulli. In fondo è normale: ci ricorda il nostro recente passato, la nostra spensieratezza. Ma possiamo ritenere che quelle condizioni, quel modo di vivere potessero rimanere inalterati; che quelle condizioni fossero ancora accettabili, con il progredire del progresso e le nuove esigenze imposteci da un consumismo a cui siamo stati indotti in modo tanto aggressivo? Specialmente i soggetti più poveri, che allora, secondo una moda del tempo, dalla classe intellettuale venivano definiti come proletari, mentre tra le classi culturalmente meno avvedute, ma che si auto referenziavano “perbene”, venivano definiti semplicemente come “malaviti”, senza che però ci fosse nessun riferimento ad attività criminali, non erano per nulla soddisfatti della loro situazione, tant’è che sono bastati pochi anni di “Germania” ed il raggiungimento di un minimo di benessere, per far scappare migliaia di persone verso condizioni abitative più idonee. Purtroppo, con l’esodo, anche il meglio dello spirito del vicinanzo e con esso molta della cultura e delle tradizioni del luogo si sono, in gran parte, disperse, mentre il linguaggio, sotto l’influsso della scolarizzazione di massa e della diffusione dei media si è modificato clamorosamente. Ma, quando passo con qualcuno da quelle parti e sento dire : <<Peccato che queste case sono tutte abbandonate!>>, non posso fare a meno di replicare: << Per fortuna!>>, nonostante il magone per il tempo lieto che fu per me abitare in quei luoghi.