Sam Prancischi, Farconi e Virnucci
di Angelo Foggia

Un racconto di Angelo Foggia: 'U vicinanzi miji
Ho vissuto a Corigliano centro, alla via San Francesco, per quarantadue anni, prima di trasferirmi allo Scalo. Quanti ricordi ho lasciato chiusi dentro di me, custoditi nel mio cuore. Ho conosciuto personaggi di grande umanità, negli anni trascorsi nel vecchio borgo, con i quali ho condiviso amicizia ed affetto. Uomini e donne che nel loro piccolo hanno contribuito a costruire la storia di Corigliano. Tanti vicinanzi formano il puzzle della Città e, in essi, generazio-ni di persone sono cresciute. Il mio è quello di San Francesco, di Falcone e di Virnuccio.
Come non ricordare Checchina ‘i Mariannini, all’anagrafe Francesca Iannini, per tantissimi anni, meglio dire da sempre, donna tutto fare della mia famiglia. Ella ebbe sei figli e anch’essi, chi in un modo chi in un altro, furono al servizio ‘i ri Pulicaštri con dimora in Falcone. Checchina era una donna sorprendente. Intelligente e disponibile allo scherzo. Indimenticabili i dialoghi con mio zio medico, Francesco Policastri. Checchina dimostrava tutta la sua bravura recitativa. Quando è mancata, ho sofferto molto; ella mi ha cresciuto come se fosse una seconda madre. Non solo Checchina rappresentava il vicinato, anche un certo Francischi ‘i ĉhirivillichi, Francesco Taranto, che poi un “certo‟ non era. Lui svolgeva le mansioni di bidello presso l’edificio scolastico di San Francesco, a ri Cappuccini, dove io frequentavo le scuole elementari. Piccolo di statura, capelli brizzolati, occhiali spessi, sempre in movimento. Ora che ci penso, era l’unico personale ATA, come chiamano ora i bidelli di una volta, in servizio nella scuola. Oggi è impossibile che ciò accada! Ricordo che ogni mattina, prima che iniziassero le lezioni, ci consegnava il calamaio con l‟inchiostro e la relativa penna. Quando si avvicinava l’ora d’uscita, lui, veloce, entrava in classe esclamando: Finis! Quando tutti erano usciti, da solo metteva in ordine le aule per accogliere gli alunni del turno pomeridiano, quello delle 14,30. Al termine delle lezioni della giornata, oltre le diciotto del pomeriggio, mogli e figli lo aiutavano nelle pulizie non solo delle aule, circa venti, ma dell’intero edificio. Anche zu Francischi è stato un personaggio che la storia, mi riferisco a quello scolastica, ha dimenticato. Speriamo che qualcuno se ne ricordi, per dedicargli qualcosa.
Infine, volgendo lo sguardo verso San Francesco, come non ricordare quello straordinario personaggio sopranno-minato ‘u pitissi, al comune Salvatore De Cicco. Il soprannome, di origine argentina, a dimostrazione del periodo in cui egli è stato in Sudamerica, è dovuto alla statura non molto alta. Elegante nel suo abito color marrone, con in testa ‘a gorra portata sulle ventitré. Il labbro carnoso, il suo modo gentile di parlare in italiano. Amava bere e, quando Bacco prendeva il sopravvento, Salvatore diventava un’altra persona. Lo si vedeva triste; lo leggevi nei suoi occhi scuri. Molte volte è stato a casa dei miei, accolto come un amico di vecchia data. Veniva per salutare mia nonna, verso la quale nutriva considerazione. Ha sempre manifestato grande dignità.
Quante storie e quante persone sono passate ‘ntra chillu vicinanzi. Sembra che nulla abbiano lasciato, invece, resta un segno nel cuore di chi le ha vissute e di chi le ha conosciute e ha voluto loro bene.(I parte)

Altro personaggio caratteristico del mio rione, Vicienzi ‘a fimminella, ovvero Vincenzo Berardi. L’aspetto esteriore ‘i Vicienzi non era gradevole. Egli non vestiva il suo corpo, lo copriva soltanto. I suoi indumenti, una maglia di lana pesante, bene per l’inverno che per l‟estate, con la variante della manica corta, e un pantalone a zumpa fuossi, mantenuto in vita da una corda o da una cinta usurata. I capelli, neri, ritti, sembravano uscire da una scossa elettrica, la barba dura e incolta. Un occhio strabico lo rendeva pauroso ai bambini. Lui rideva di ciò, mostrando i pochi denti che gli rimanevano in bocca. La caratteristica ‘i Vicienzi era però un’altra: una certa conoscenza della lingua latina e greca cosicché c’erano studenti, che a lui si rivolgevano per chiedere consigli, dietro un compenso, molte volte irrisorio. Lo ricordo seduto sugli scaloni del portone di casa mia, su via S. Francesco, mentre discuteva con i giovani, che, invece di essergli grati, lo prendevano in giro. Quando se ne accorgeva, diventava un altro ed era capace di essere anche violento. Però la sua indole era diversa. Si racconta che un forte esaurimento nervoso in età giovanile, quando era studente, gli avesse impedito di proseguire gli studi. L’appellativo ‘a fimminella non era dovuto a tendenza sessuale, ma al fatto che Vincenzo era bravo nel cucire e nei lavori di maglia, spettanze tipiche della donna. Essendo celibe e non avendo alcun lavoro, era lui stesso che provvedeva alle cose necessarie, come le maglie o le calze di lana. Altra caratteristica era quella di elencare, se ti conosceva, l’albero genealogico della famiglia. Una memoria impressionante! Famosi i rimbrotti verso il Primicerio, mons. Antonio Colosimo, parroco della Chiesa di S. Giacomo, il quale, forse per errore di parallassi o altro nella lettura dei brani evangelici, saltava alcuni passi del testo, provocando la reazione ‘i Vicienzi che lo richiamava ad una maggiore attenzione. Infine, lo ricordo quando veniva a casa. Se ne stava sull’uscio della porta come se fosse un appestato. Mia nonna lo invitava a sedere e lui, timido e impacciato per l’offerta, preferiva rimanere al suo posto. Nonna Concetta gli offriva del cibo e del vino, che egli, col sorriso largo e la barba sempre incolta, ricambiava con la sua stridula voce.

Altro personaggio, noto ai tempi della mia gioventù, pur non vivendo ‘ntru vicinanzi mii, ma diventato parte di esso per le funzioni svolte, è stato Battista ‘u sacristani della parrocchia di San Giacomo. Affacciato dal balcone di casa in via San Francesco, lo vedevo salire, lenta-mente lungo la sterrata strada piena di grossi ciottoli e di pietre azzurrastre laviche. Il suo andare, considerata l’età – io, da giovinetto, lo ricordo vecchio – era buffo. Indossava un solo abito, rigorosamente grigio, buono per tutto l’anno. Il vestito, troppo grande per la sua statura, lo copriva tutto. Le braccia scomparivano dentro le maniche della giacca, mentre dai pantaloni, anch’essi troppo lunghi, appena si vedeva la punta delle scarpe, una gorra, dello stesso colore del vestito, copriva interamente il capo, costringendolo, per poter vedere, a spostare la visiera da un lato. Battista era il sacrestano della Chiesa di S. Giacomo, parrocchia del vicinato, retta dal Primicerio mons. Antonio Colosimo. Ogni mattina, alle sette in punto, Battista suonava le campane, avvisando i fedeli della prima messa del mattino. Era molto bravo, non sbagliava un colpo e credo che non dipendesse dall’esperienza, ma dall’amore con il quale adempiva alla funzione. Mi manca il suono di quelle campane che svegliavano un pò tutti la mattina. Purtroppo, Battista, come tanti di Corigliano, era oggetto di scherzi di ogni natura, alcuni dei quali rasentavano la cattiveria pura. Esilaranti le liti con il Primicerio per come il povero Battista si comportava e viceversa. Non ha mai disubbidito ad un suo ordine e ricordo che una volta lo fece andare in Piazza del Popolo più di una volta. Lascio immaginare le imprecazioni di Battista. Il suo parlare era lento e cadenzato. Molte volte non si riusciva a capire quello che diceva perché parlava come se in bocca avesse qualcosa. La sera, dopo la messa delle sette, il Primicerio tornava a casa, Battista rimaneva da solo a mettere a posto le sedie e dopo aver spento le luci e chiusa a chiave la porta della chiesa, si avviava lentamente, lungo il lato sinistro della strada di via San Francesco verso casa, vicini ‘i canali ‘i l’Acquanova. Sembrava, da lontano, un fantasma con quel suo incedere, un caro fantasma.
Fonte : Veteranova (periodico di Giulio Iudicissa)