I Cappuccini

di Rosa Esposito

I Cappuccini

(Racconto estrapolato dal libro “La Via delle Rimembranze - Frammenti di Ricordi”)

 

Noi abitavamo in via delle Rimembranze, all’epoca il viale più bello di Corigliano. Il palazzo era molto grande, vecchio e all’antica; si entrava in un androne grande ma senza il portone di chiusura; era abitato da famiglie anche il piano terra; al primo piano c’era una lunga ringhiera con cinque ingressi, due a destra e tre a sinistra; le finestre di queste abitazioni si affacciavano sul viale Rimembranze; al secondo piano, dove abitavamo noi, c’era anche una ringhiera con due porte a destra e tre a sinistra, ma queste abitazioni avevano anche un balcone che si affacciava sul viale. Noi entravamo nella seconda porta a sinistra e la nostra casa era formata solo da due  stanze, anche se grandi. Sopra c’era un altro piano senza la ringhiera ma con un corridoio di accesso che rimpiccioliva un po’ le case. La gente ci invidiava questa casa, anche se non era di nostra proprietà, perché all’epoca le abitazioni di Corigliano, quasi tutte nel Centro Storico, erano costituite spesso da una unica stanza, anche per famiglie molto numerose. Questo palazzo apparteneva a un unico proprietario don Pietro C., che riscuoteva l’affitto di tutti gli inquilini. Anche se vecchio, il fabbricato aveva una bella esposizione; la mattina quando sorgeva il sole s’illuminava tutta la stanza con il balcone e quella luce penetrava nella stanza; il sole poi girava e nel pomeriggio illuminava e riscaldava la parte con la ringhiera, dove erano le porte di ingresso; quando d’inverno  faceva freddo il sole oltre a   illuminarci   ci   scaldava     anche; d’estate non si poteva sostare sulla ringhiera perché il sole riscaldava il pavimento fino a farlo diventare simile a un forno. Dal balcone si vedeva uno spiraglio di mare e la mattina  c’era  quella lieve brezza fresca che dava sollievo; si vedeva il sole sorgere mentre si specchiava nel mare; era uno scenario molto bello da vedere; al tramonto il sole se ne andava dietro le colline della Costa ed era incantevole guardare quel crepuscolo con le colline che si illuminavano e diventavano tutte merlettate di oro e di tanti colori cangianti. Quando veniva qualcuno a trovarci restava incantato a guardare quegli spettacoli meravigliosi che la natura ci regalava ogni giorno per la felice posizione di quel vecchio palazzo. Questo era di fronte  all’ospedale Compagna e, quando venivano le belle giornate di primavera, gli ammalati e anche i medici e gli infermieri a volte si affacciavano dalle finestre e ci salutavano. Allora c’era solo il vecchio ospedale, non ancora grande com’è adesso, ma fuori c’era tanto spazio, anche se recintato con un muro. Lo spazio attorno era per tutti noi “la villa dell’ospedale” e qui i malati meno gravi andavano a passeggio nelle belle giornate. Quando si sentiva arrivare il suono di un clacson prolungato, senza interruzioni, tutti erano preoccupati per l’arrivo di qualche ferito. Quando qualcuno moriva in ospedale da una finestra chiamavano il sacerdote, don Ciccio F., che abitava sulla stessa ringhiera dove abitavamo noi e che era il responsabile della chiesa dell’ospedale. Il telefono a quei tempi, bene di lusso, si usava poco e l’unico ad averlo nel palazzo era il sacerdote della ringhiera; quando c’era necessità di usare il telefono si ricorreva a lui che si mostrava sempre disponibile con tutti. Molti  degli inquilini di quel palazzo erano artigiani o contadini con le  eccezioni del citato sacerdote, di Maria C., una gentilissima maestra elementare che abitava all’ultimo piano e di un bravo professore di musica, il prof. Martino, che abitava al primo piano; per tutti era  il professore, aveva il pianoforte e dava anche lezioni private di musica; in effetti era un pensionato che aveva prestato servizio nell’esercito italiano;  non  era  coriglianese,   veniva  da un paese del nord ed era abbastanza cordiale con tutti; aveva tre figli che spesso erano fuori per motivi di lavoro o di studio, non ricordo bene perché erano più grandi di noi; li vedevamo alcune volte in compagnia di ragazzi più grandi di noi; la moglie del professore era una signora piccoletta di statura ma abbastanza energica; la famiglia abitava in tutta la parte destra, entrando dalle scale, della ringhiera al primo piano in un appartamento molto più grande degli altri, che aveva una seconda porta esterna di lato con una scala che portava accanto alla fontanella pubblica detta “‘u canalicchji ‘i ri cappuccini”, tuttora esistente. Queste tre famiglie, particolari rispetto alle altre, se la passavano un po’ meglio di tutte le altre, ognuna delle quali aveva solo due stanze per abitazione e qualcuna ne aveva solo una. Le nostre  due stanze erano così sistemate: nella prima c’erano il forno e il focolare in fondo nell’angolo a sinistra; sotto il forno c’era uno spazio abbastanza grande  dove mettevamo la legna e anche qualche recipiente; sempre a sinistra, nell’angolo vicino all’ingresso, c’era un letto che era nascosto da un tenda che si estendeva per tutta la parete fino a nascondere anche il forno; nell’angolo a destra vicino all’ingresso i servizi igienici erano costituiti solo da una tazza, nascosta da una piccola tenda; in fondo a destra c’era un divano letto; al centro della stanza c’era la tavola, il cassettone, un’altra cassa e la macchina per cucire; nella seconda stanza c’erano tre letti, uno grande e due piccoli; c’erano due comò, la cristalliera e l’armadio , il tutto insaccato là dentro per servire a una famiglia come la nostra che era formata da otto persone; l’acqua in casa non l’aveva nessuno; tutti andavamo a prenderla con recipienti di fortuna alla vicina fontanella sulla strada. Il professore di musica, attraverso la porta laterale, stendeva un tubo di plastica fino alla fontanella e riempiva in casa quattro o cinque fiasconi da cinquanta litri e così faceva la provvista di acqua. Le altre famiglie si arrangiavano come meglio potevano fare; quando pioveva si approfittava della perdita di acqua di un pluviale discendente che dava un bel getto direttamente nella ringhiera : si sistemava una vasca sotto il getto d’acqua e tutti i vicini venivano a riempire qualche secchio per fare provvista. L’acqua mancava in tutto il paese e anche per questo il pomeriggio non veniva erogata per evitare sprechi; veniva un addetto con una grossa chiave e chiudeva l’erogazione per tutti, affinché  nel serbatoio si potesse accumulare un po’ d’acqua per il nuovo giorno. La mancanza di acqua si faceva molto sentire e spesso scoppiavano delle liti per avere la precedenza alla fontanella e qualche volta  nella rabbia venivano rotti gli orcioli degli avversari. Chi ne aveva la possibilità andava a prendere l’acqua fuori del centro abitato e ne approfittava per lavarvi anche i panni. Mio padre, con l’asino, portava i panni da lavare dai nonni in collina, a più di un chilometro di distanza, dove c’era una grande vasca di cemento che raccoglieva l’acqua di una piccola sorgente locale; da qui si prendeva l’acqua da portare a casa con l’asino dentro i barili. La fontanella “dei cappuccini” non veniva chiusa;  si trovava nella parte più alta del paese ed erogava l’acqua per chi ne avesse bisogno durante la chiusura; permetteva anche di abbeverare la mattina i molti asini e muli con i quali molti contadini andavano a lavorare in montagna. Verso la fine degli anni cinquanta è stata captata e portata a Corigliano l’acqua della Sila in un grande serbatoio costruito un po’ più sopra dell’ospedale; questo posto da allora ha preso proprio il nome da acquedotto. Tutto il paese rimase contento e quasi euforico per l’arrivo della nuova acqua che per qualche giorno è stata fatta scorrere all’aperto proprio per farne ammirare la quantità abbondante da tutti i cittadini che si recavano sul posto con un bicchiere  per assaggiarla; tra questi “visitatori” c’erano anche molte donne che non uscivano quasi mai da casa, come avveniva  spesso a quei tempi. In seguito a ciò molte famiglie hanno chiesto e ottenuto l’allaccio dell’acqua in casa, cominciando magari con un solo rubinetto e poi man mano arrivando a tante prese d’acqua in cucina, nel primo , nel secondo e anche nel terzo bagno e allo spreco odierno del prezioso liquido. Comunque gli anni cinquanta e anche i sessanta erano ancora molto duri per tutti.  La miseria si faceva sentire pesantemente. Nel nostro condominio eravamo poveri e tutti ne avevamo piena consapevolezza. Però c’era tanta dignità in tutte le famiglie e tutti cercavano di mascherare lo stato di bisogno. Tutti i sacrifici che si facevano venivano affrontati con coraggio e persino con un certo umorismo, un po’ sottinteso, e con un pizzico di rappresentazione comica : un po’ come nelle opere di De Filippo. Non mancava il coraggio di andare avanti con viva forza cercando di superare le dure prove che la vita quotidiana presentava. Tutti cercavano di fare bella figura dando il meglio di se stessi, usando sempre la cortesia e cercando di acquisire sempre qualcosa di positivo. Si rispettavano le tradizioni  paesane, mettendo in evidenza, ognuno nel suo piccolo, al momento opportuno, il proprio patrimonio di arte, di cultura di capacità di accogliere. Si parlava della vita coriglianese e dei suoi personaggi più notevoli come Francesco Dragosei, giornalista e impresario cinematografico e teatrale, come Francesco Maradea, Vincenzo Tieri,  Francesco Pometti  e tanti altri che davano lustro a Corigliano. L’ abitazione del sacerdote e quella della maestra avevano una superficie pari a circa il doppio delle altre abitazioni del palazzo e occupavano la parte ultima, a destra, del terzo e del quarto piano. La maestra abitava, al quarto piano, insieme a un fratello Salvatore; un altro fratello medico abitava a Firenze. Quando il fratello che abitava con lei si è sposato, lei è rimasta a vivere da sola. Siccome amava la compagnia era contenta quando gran parte del vicinato andava ad ascoltare la radio a casa sua che così diventava un vero e proprio luogo di spettacolo; la prima stanza era infatti attrezzata con sedie e divani per accogliere “gli spettatori” che dopo si fermavano a discutere del più e del meno. Nelle feste natalizie, sempre a casa della maestra, noi ragazzi organizzavamo delle tombolate che all’epoca ci sembravano grandi cose. Mentre giocavamo ed aspettavamo che uscisse qualche numero per vincere qualcosa stavamo con il cuore in gola come se stessimo vivendo chissà quale avventura e comunque qualunque numero estratto ci creava contentezza o delusione a seconda che fosse presente o meno sulla nostra cartella; quando mancava un solo numero per fare tombola la tensione saliva alle stelle. Allora si giocava con cinque o dieci lire, ma noi tutti contavamo quei soldini come se fossero monete d’oro. Così si passava il tempo. La ringhiera del secondo piano era come una sala riunione di una grande famiglia; spesso scendevano anche quelli del terzo piano e si faceva un gran salotto. Tutti conoscevano i fatti di tutti; c’era la mamma del prete, za Grazia, che era la signora più anziana e si sentiva una matrona rispetto alle signore più giovani; dava consigli a tutte le altre con una certa autorevolezza e le altre accettavano tranquillamente che lei dicesse e facesse quello che riteneva di dover fare o dire, anche se qualche volta la prendevano bonariamente in giro e scherzosamente la contestavano; lei stava allo scherzo pur continuando a mantenere le sue opinioni. Quando mia madre, Antonietta Capristo, faceva il pane faceva anche le “frese”; la madre del prete andava al forno a controllare che le frese fossero ben asciutte e alla fine ne prendeva due o tre per regalarle alla lavandaia che le portava i panni lavati e asciugati. A mia madre voleva molto bene e spesso le dava un aiuto a intrattenere i figli piccoli in caso di necessità. Era una vecchietta risoluta; certe volte quando andava in chiesa e il marito, zu Vicienzi, non era ancora tornato dalla campagna gli lasciava una sedia nella ringhiera davanti alla porta perché aspettasse lì seduto il suo ritorno. Una volta mi ricordo che i ragazzi più grandicelli, Vincenzo (Cenzino), Alfredo, Luigi(Gigino) andavano a bussare alla suo porta per scherzare ; la vecchietta correva a vedere chi fosse venuto a cercarla alla porta e non trovava nessuno perché i mascalzoncelli correvano e si nascondevano nelle scale; il fatto si ripeteva più di una volta consecutivamente; un giorno c’era il figlio e quando i monelli sono andati a ripetere lo scherzo sono stati inseguiti e raggiunti e si sono presi un pò di paura per la forte sgridata e per la minaccia di spruzzarli con il DDT, dopo di che hanno promesso di non ripetere più quella cattiva azione. A me c’era una cosa che metteva molta paura; era una macchia che si trovava sul muro della  scala, originata forse da un pò di umidità che aveva fatto cadere giù un pezzo di intonaco; era una macchia nera non molto grande e posta in basso; quando salivo le scale e mi veniva davanti quel quadro non solo avevo paura ma mi assaliva un incubo; quando arrivavo là, a quella rampa, salivo i gradini in gran fretta, come se ci fosse qualcosa che mi afferrasse e non mi facesse respirare; arrivavo sopra l’altra rampa affannata e solo allora respiravo a lungo; mi succedeva quando nelle scale non incontravo nessuno; invece se sentivo che c’era qualcuno che potessi incontrare oppure se ero già in compagnia non avevo alcuna paura. Comunque di questa mia paura non ho mai parlato con nessuno, perché sapevo anche che era una paura irrazionale. Andavamo al catechismo dalle suore della Sacra Famiglia, che erano le suore che prestavano servizio in ospedale; con loro in occasione delle feste di natale facevamo le recite e ci fermavamo in sagrestia per fare le prove; un pomeriggio siamo uscite per ultime io e un’altra ragazzina, Gina, e, dato che la porta della chiesa era chiusa, siamo passate dalla porta che dava sul giardino; mentre andavamo via abbiamo visto due rose bellissime una color rosa corallo e un’altra rossa; ci siamo fermate a guardarle e la mia amica ha detto : “ le prendiamo queste rose?”; “si sono belle” ho detto io; piano piano, attente a non pungerci con le spine, abbiamo staccato quelle belle rose e ce ne siamo andate; il secondo giorno le suore si sono accorte che mancavano le rose ed hanno individuato le due responsabili, che erano state le ultime a uscire; non solo ci hanno picchiato sulle mani, ma ci hanno anche accusato con i genitori che ci hanno sgridato. Se fossimo uscite ognuna per conto proprio sicuramente non ci saremmo fermate e non avremmo rubato le rose. Sotto l’ospedale c’era un grande spazio che noi chiamavamo “ ‘u campicielli”; tutti i ragazzi del vicinato ci andavano a giocare e anche a raccogliere i fiori di campo; quando c’era qualche processione di qualche santo, al passaggio di questa noi buttavamo dal balcone i fiori raccolti; nel detto campo ci andavamo anche perché non c’era il pericolo che passassero delle auto, che tra l’altro allora a Corigliano erano davvero poche, in quanto era lontano dalla strada. Un giorno ci siamo messi a gridare e la montagna di fronte ci ha risposto con l’eco; prima abbiamo avuto paura e siamo scappati, in seguito, quando abbiamo capito come funzionava, ci andavamo apposta per parlare con la montagna. Era un bel divertimento andare fuori a fare giochi un po’ selvaggi come correre o arrampicarsi; per noi potere fare questo era un bel vantaggio, anche se alcune volte noi femminucce non avevamo il permesso di andarci. Certe volte le nostre mamme andavano a sentire il giornale radio dalla maestra e portavano anche noi; si parlava di tante cose, specialmente della libertà nazionale riconquistata a caro prezzo, delle dure prove che la gente aveva dovute superare e delle grandi ristrettezze in cui ancora bisognava vivere. Si parlava anche del famoso film di Roberto Rossellini, che qualcuno aveva visto o di cui aveva sentito parlare, “Roma città aperta” in cui si narravano le crudeltà dei tedeschi  nazisti occupanti di Roma dopo il ’43; si parlava anche di un alto famoso film di Vittorio De Sica “Ladri di biciclette” che illustrava realisticamente la miseria e il malcontento del dopoguerra, che portava la gente a compiere azioni da miserabili con riferimento a quel povero uomo che aveva trovato un lavoro proprio perché possedeva una bicicletta e quando gliela rubano si sente costretto, dalla disperazione o dalla necessità, di diventare a sua volta ladro di biciclette; con la differenza che lui viene scoperto e arrestato, in una scena straziante, sotto gli occhi del figlioletto che lo seguiva sempre. […] Nel palazzo di via Rimembranze c’era una grande varietà di idee e di opinioni, ma c’era anche tanta tolleranza da parte di tutti; a volte si litigava per delle cose banali, magari per i figli oppure per qualche parola sgarbata che sfuggiva, ma poi si aggiustava tutto e il vicinato rimaneva una grande famiglia. Al piano di sopra c’erano due signore più propense a litigare; quando lo facevano tra di loro, ad un certo punto della lite, una abbracciava l’altra e le diceva qualcosa all’orecchio; allo stesso modo l’altra rispondeva, anche lei con un abbraccio, sempre parlando all’orecchio: una lite visibile ma segreta nelle cose dette, per modo di dire, perché in effetti si rinfacciavano all’orecchio i piccoli favori che si facevano tra loro ognuna per vantare con l’altra il suo buon comportamento; qualcuna del vicinato, scherzando, chiedeva il motivo delle parole segrete ma le due rispondevano con una risata e professavano il loro volersi bene e l’innocuità delle cose segrete, che venivano dette a bassa voce perché loro erano educate e non litigavano ad alta voce. Nel vicinato era normale chiedere e ottenere in prestito un po’ di tutto : una padella, un uovo, un po’ di olio o qualche altra piccola cosa; una signora aveva un padella con la quale cucinava le melanzane “nere”, cioè le melanzane fatte a fettine lunghe e cucinate, in questa padella di ferro, con foglie di alloro ed aglio;  le melanzane così cotte  erano molto scure e avevano un sapore molto buono e quasi tutte le vicine chiedevano in prestito questa padella così speciale. Nel palazzo del nostro condominio c’era l’abitudine di riunirsi la sera per ascoltare le favole, racconti meravigliosi che noi ragazzi ascoltavamo con grandissimo interesse, specialmente nelle serate d’inverno attorno al braciere; aspettavamo con impazienza l’inizio di una nuova storia; alcune volte erano favole che mettevano paura, ma noi volevamo ascoltarle egualmente; spesso erano lunghe e il racconto veniva fatto a puntate perché quando si faceva tardi si interrompeva e si rinviava. C’era una signora, ‘a mastra Carmenia, che raccontava storie con personaggi dal carattere un po’ debole, come quelli che dicono sempre si a qualunque richiesta,ma solo perché non hanno il coraggio di dire no. Erano delle storielle che alla fine avevano una loro  morale e, seppure inventate, mettevano in evidenza le varie debolezze umane. […] Nel nostro vicinato, nelle ricorrenze delle festività dei santi paesani, i ragazzi trovavano grande divertimento a fare dei grandi falò sulla strada, che allora era acciottolata. In occasione della festa di S. Giuseppe e anche di quella di S. Francesco da Paola i falò si facevano  per tre serate consecutive; tutti i ragazzi andavano a raccogliere delle frasche nei campi vicini in grande quantità e in più chiedevano qualche pezzo di legno a tutte le famiglie del vicinato; la sera, quando s’era raccolta un bel po’ di gente, si  accendeva il fuoco e tutti attorno facevano gran festa; un tipo di frasca particolare era quella detta “friapisci” perché al fuoco scoppiettava allegramente e perciò era divertente. Se il fumo del falò dava fastidio agli occhi,  si esorcizzava cantando una canzoncina in dialetto che recitava così : “ fumi e fumetti vattinn’i chilla banna ca c’è na vecchjarella chi ti fè ra pitticella”. Così il fumo sarebbe andato dall’altra parte. L’allegra comitiva dei ragazzi rimaneva a chiacchierare fino a tarda sera ad ascoltare, attorno al fuoco, le favole che raccontavano gli anziani o a fare dei giochi paesani. Alla fine della serata tutti quelli che avevano offerto della legna ricevevano la brace  per il braciere di casa che rappresentava una benedizione del santo. Oggi, con le strade asfaltate, ciò sarebbe impossibile da fare e qualche volta i falò si fanno d’estate sulla spiaggia.[…] Un giorno nel palazzo di via delle Rimembranze, mentre era tutto tranquillo, si è sentito il rumore  di qualcosa che crollava e poi tante grida confuse provenienti dalla ringhiera del primo piano; in una casa di quel piano tutti gridavano in una grande confusione; poi si sentì il capofamiglia che chiedeva a gran voce alla figlia di prendere l’ascia più grande per sfondare la porta; tutti nel palazzo corsero a vedere cosa fosse successo e possibilmente portare aiuto in caso ce ne fosse stato bisogno; era successo che il figlio più piccolo, l’unico maschio dopo tante sorelle,di circa otto anni di età, era andato a giocare in uno stanzino che quell’appartamento aveva in più rispetto agli altri e che era situato dietro il vano delle scale; questo stanzino era usato dalla famiglia come ripostiglio ma conteneva anche il forno; quando il bambino era entrato aveva chiuso la porta per giocare più tranquillamente; di fatto per gioco era salito sopra la volta del forno che però non aveva retto il peso ed era crollata; quando tutti lo chiamavano dopo il crollo e gli chiedevano di aprire, lui, che era rimasto illeso sopra il cumulo di macerie, non rispondeva perché aveva paura di prendere le botte e per questo piangeva, ma così aumentava la preoccupazione che fosse successo qualcosa di grave; quando con l’ascia venne sfondata la porta ci si accorse di cosa fosse effettivamente accaduto e finalmente venne meno lo stato di terribile apprensione e tutti abbracciarono  il bambino che continuò a piangere a lungo.[...] Erano tutte laboriose le donne del nostro vicinato, nessuna se ne stava con le mani in mano; c’era una signora, za Carmenia, che aveva un telaio e vi lavorava come tessitrice; il telaio era un arnese abbastanza ingombrante, aveva circa le dimensioni di un cubo con il lato di due metri; era fatto di tavole, corde e fili e giù c’era una pedana manovrabile con i piedi per gestire l’andamento della tessitura; il tutto a vederlo sembrava molto complicato;  la persona che tesseva sedeva al centro dell’apparecchiatura su un sedile di legno; in mezzo c’erano come dei grandi pettini nei quali cresceva la tela per mezzo di una spola che passava e ripassava trasversalmente tra i fili che erano posti longitudinalmente; la spola veniva spinta con la mano per attraversare la tela da destra verso sinistra e poi da sinistra a destra e così via; ogni volta i pettini venivano sbattuti per fare assestare la tela che doveva venire fitta e consistente; noi piccoli andavamo spesso a guardare estasiati tutto il processo della tessitura e guardavamo crescere la tela, mentre la stessa tessitrice   era   contenta   di  mostrarci   tutti   gli  aspetti del suo lavoro e i punti particolari da riportare sulla tela: i quadretti per le salviette da cucina, le bordature per le tovaglie lisce da tavola e per gli asciugamani, la tela tutta liscia per le lenzuola e così via. C’era una signora, Pippinella, che si prestava a fare da infermiera se c’era necessità di fare delle medicazioni o disinfettazioni, o delle punture, che allora non erano monouso come oggi e richiedevano che la siringa stesse nell’acqua che bolliva in un pentolino prima del riuso. [...] Una volta la maestra, Maria C., che abitava al quarto piano era uscita nel corridoio di accesso alla casa per parlare con la vicina e aveva dimenticato di portare con sé le chiavi; un folata di vento però fece richiudere la porta e così la maestra restò fuori di casa; si fece un po’ di chiasso sul fatto e tutti si misero a pensare a una qualche soluzione per aprire quella porta; arrivò il sacerdote e propose di provare a una a una tutte le chiavi che teneva in un mazzo molto voluminoso che ne conteneva qualche decina; ma l’esito della lunga prova fu negativo; la preoccupazione cresceva e la padrona di casa era molto amareggiata e pensava di essere costretta a sfondare la porta; mentre tutti continuavano a cercare una possibile soluzione, come per un miracolo, la porta chiusa fino a quel momento si aprì; dietro la porta ormai aperta c’era il figlio bambino della vicina di casa, che quando si chiuse la porta era in mezzo a tutti gli altri preoccupati per l’accaduto; tutti rimasero sbalorditi e increduli su come avesse potuto risolvere il problema; in effetti il bambino dopo avere sentito tutto ciò che pensavano i presenti, era uscito, inosservato, sulla strada per verificare se fosse aperto il balconcino-finestra della maestra che distava circa quattro metri da uno analogo della sua casa; visto che era aperto, è rientrato in casa sua, è salito sul balconcino di questa e ne è uscito, tenendosi con le mani al cornicione del palazzo e camminando con i piedi su una sporgenza che era larga circa dieci centimetri, fino ad arrivare all’analogo balconcino della maestra dal quale è entrato nella casa di questa per poi aprire la porta. Nessuno aveva notato la sua assenza per tutto quel tempo e perciò aveva potuto fare quell’azione tanto bella ma tanto rischiosa, che ha fatto correre i brividi nella schiena alla povera madre ignara che stava con tutti gli altri e non sapeva che il suo piccolo stava rischiando la vita. [...] In occasione delle feste paesane le mamme davano ai figli qualche spicciolo da spendere alle bancarelle; si comprava qualche cioccolatino o un po’ di noccioline, e per il resto si passeggiava per le strade principali del paese; in occasione della festa di Sant’Antonio ci si poteva spingere fino al quartiere omonimo arrivando fino alla “Fishkia”, che era una fontana monumentale ora sparita, e aspettando di vedere il famoso “ciuccio” , un particolare tipo di fuochi artificiali tipico della festa. Si passava poi, solo lateralmente, da piazza del Popolo, la famosa “Acquanova”” che era il vero centro di Corigliano e che era frequentata per lo più da uomini; invece piazza San Francesco era frequentata da tutti specialmente per la presenza di due chiese, quella appunto di San Francesco e quella, che era una parrocchia, di San Giacomo; in occasione della festa del Patrono, il venticinque aprile, una marea di gente affollava le strade e questo accade tuttora;  in primavera, vicino la scuola di S. Francesco, veniva aperto un chiosco a forma di poligono, fatto di tavole di colore azzurro vivo, per la vendita di dolciumi e gelati; un cono gelato costava cinque lire e qualche rara volta lo compravamo anche noi e sembrava di qualità eccezionale, perché a quei tempi qualsiasi cosa sembrava buona, perché c’era tanta fame; mia madre, per risparmiare, come dolci  ogni tanto ci preparava le frittelle; impastava farina e uova e preparava la sfoglia; poi ritagliava da questa dei dischetti con il bordo di un bicchiere e li friggeva; a parte preparava la crema, che, una volta raffreddata, metteva in mezzo a due dischetti fritti; erano dei dolci veramente buoni. Quando doveva fare il pane mia madre sceglieva di farlo sempre di notte; nella serata impastava  nella madia, ‘a mailla, per poi reimpastare in piena notte e alle prime ore del mattino accendeva il forno; quando il forno aveva raggiunto, a suo parere, la giusta temperatura, lo puliva con gli appositi attrezzi; poi infornava prima le focacce bianche, che sarebbero state usate per farci le frese, di seguito infornava il pane; ad avvenuta cottura del pane si spandeva in tutta la casa il buon profumo caratteristico e noi che stavamo ancora dormendo venivamo svegliati in maniera deliziosa; la mattina mandavamo una focaccia bianca ai vicini di casa più prossimi che la mangiavano per colazione con vero piacere e anche noi facevamo colazione allo stesso modo; le focacce rimaste si tagliavano in due di piatto e diventavano frese; il pane veniva conservato sopra il “cannizzo”, che era una pergola in legno a quadrettoni larghi sospesa al soffitto, e veniva coperto con una tovaglia; a quel tempo lo spazio nelle case era molto limitato e si utilizzavano tutte le possibilità per conservare ciò che serviva; il pane in particolare stava sul “cannizzo” sia perché così si recuperava spazio sia perché il pane rimanendo ventilato non prendeva la muffa; così messo si conservava a lungo, anche per quindici giorni, ed era sempre buono anche se un pò indurito. In quegli anni nel nostro vicinato ma anche in tutto il sud si viveva così, una vita di pura sussistenza, cercando di spendere il meno possibile perché di soldi ce n’erano veramente pochi. Ricordo che dal nostro balcone si vedeva uno spicchio di mare e io lo guardavo con ammirazione e qualche volta pensavo a quanto fosse bello  stare a prendere i bagni, ma poi tornavo alla realtà e mi ricordavo che il mare di fatto non l’avevo mai visto da vicino. Quando l’ho visto per la prima volta avevo quasi dieci anni; sentivo dire che il mare Jonio era molto profondo e immaginavo questa profondità in modo confuso, non riuscivo a capire per esempio che questa grande profondità si raggiungeva gradualmente a partire dalla riva; infatti, quando per la prima volta mi stavo avvicinando all’acqua, fui assalita da una grande paura perché credevo di andare subito giù in quella grande profondità delle acque di cui avevo sentito   parlare;   poi piano piano capii tante cose, la discesa graduale nel mare,il movimento delle onde e pensai che solo l’esperienza diretta ti fa conoscere la realtà e ti toglie tutti i dubbi che ti assillano su una determinata questione.[…] Il tempo passava e i cambiamenti erano scarsi e lenti; cominciavano a circolare un po’ di automobili ma la maggioranza delle persone non ne possedevano; il viale delle Rimembranze, specialmente nei giorni festivi, era sempre affollato di pedoni che, specialmente dopo cena, si ritrovavano lì sia per passeggiare sia per scambiarsi opinioni; nello spazio a fianco del convento di San Francesco, d’estate, si proiettavano dei film all’aperto a pagamento; si chiamava Arena Italia; spesso si vedevano ragazzini che cercavano con difficoltà di vedere il film spiando da qualche fessura del recinto o arrampicandosi sul muretto dello stesso. Tra i film proiettati ci fu anche “La Dolce Vita” di Federico Fellini con Anita Ekberg e Federico Fellini di cui tutti noi sentivamo parlare ma che non andammo mai a vedere per il solo motivo che non ci potevamo permettere quella che sembrava una piccola spesa ma per noi non lo era; ci saremmo più tardi accontentati di vedere qualche film, ovviamente di quelli più vecchi, alla televisione magari a casa di qualche vicino “più ricco”.[…] Verso la fine degli anni cinquanta si incominciava a vedere un miglioramento nel tenore di vita medio; alcune persone riuscivano ad allacciare l’acqua in casa, a comprare l’automobile, una bella radio, a festeggiare le ricorrenze familiari, magari ancora in casa, ma  con più   abbondanza   rispetto a prima;   i matrimoni venivano festeggiati ma non in maniera dispendiosa e i regali avevano sempre una concretezza e una essenzialità; mia madre a una vicina di casa che si sposava ha regalato, per esempio, una sveglietta che oggi farebbe sorridere ma allora era un regalo apprezzato, specialmente per il marito camionista che doveva alzarsi presto la mattina; in quegli anni si sentiva parlare della televisione ma era vista quasi come una cosa miracolistica; quando il nostro vicino sacerdote, don Ciccio F., ha comprato un televisore era consapevole che l’intero vicinato si sarebbe riversato a casa sua in occasione delle trasmissioni che all’epoca erano molto popolari: “Lascia o raddoppia” presentato da Mike Bongiorno il giovedi e “Il musichiere” presentato il sabato da Mario Riva; ne era consapevole e ne era anche contento perché condivideva con gli altri la bellezza di quel nuovo strumento; un altro avvenimento televisivo seguitissimo fu il festival di Sanremo della canzone italiana che fece entrare nelle case dei possessori di un televisore moltitudini di vicini che vi si recavano come se andassero in un teatro o a cinema; nel nostro vicinato dopo poco tempo anche la maestra comprò un televisore e la sua casa divenne in quel periodo un luogo di pubblica frequentazione perché la padrona di casa era gentilissima e amava stare con il vicinato, che specialmente in occasione dei teleromanzi si riversava numerosa in casa sua. Queste frequentazioni di massa rafforzarono ancora di più lo spirito di coesione del vicinato e anche adesso, dopo tanti anni, quando si incontra uno di quei vicini è come se si incontrasse quasi un fratello.