Falcone
di Teresa Gallina

Benvenuti nel gran teatro di "Farcuni", tra 'scerre", matrimoni e "suparrìni" sconsolati
Belle ragazze e "maschiature", litigi furibondi che duravano settimane, feste familiari che portavano un momento di allegria. E poi tanta miseria a far da sfondo a una "danza della vita" frenetica e solidale.
Negli anni attorno al 1950 Corigliano centro contava una popolazione di quasi 20 mila abitanti. Non c'era un solo quartiere, o per meglio dire"nu vicinanzi", che non fosse sovraffollato. Nuclei familiari di dieci, dodici, tredici persone vivevano in una o due stanze. Si trattava spesso di seminterrati bui ed umidi, privi di finestre e balconi; solo dallo sportello della porta filtrava un flebile raggio diluce. Io abitavo in vico primo San Francesco, poi denominato vico 7 Falcone. Intorno c'erano "u vicinanzi i Farconi" e ru vicinanzi "i sutta santu Japichi". Pare che tale Falcone fosse un signorotto proveniente dalla vicina Acri a cui era appartenuto quel pezzo di collina che pian piano, si era urbanizza dando così origine ad uno dei rioni più popolosi di Corigliano. "Farconi" comprendeva vinelle e piccoli slarghi, una cittadella compatta dove erano rappresentati tutti i ceti medio-bassi, con poche eccezioni che in genere abitavano ai piani superiori o si affacciavano su via San Francesco. Per accedere alla mia casa si entrava nel "gafio di Bomparola", un'arcata laterale di via San Francesco. L'abitazione era posta al terzo piano. Sotto il terrazzo della camera da letto dei miei genitori c'era un'ampia gradinata in pietra che scendeva fino "aru valluni i Farconi", mentre dall'altro lato vicoli e vicoletti s'incrociavano confluendo su via San Francesco, via 4 Novembre, via Madonna della Catena e Piazza del Popolo. Dal terrazzo e dai balconi riuscivamo a vedere il prospetto della chiesa, nonché la parrocchia di San Giovanni Battista, che distavano da casa mia circa trenta metri in linea d'aria. Dovunque mi affacciassi,sotto di me era un pullulare di famiglie: giovani,adulti,vecchi,bambini, ma soprattutto ragazze avvenenti dal corpo statuario, dal viso vellutato e colorito con due "schiocche" che sembravano petali di rose. I giovanotti, specialmente di domenica, sostavano ore ed ore avvinghiati alla ringhiera adiacente alla parrocchia per guardarle e corteggiarle. Madre natura era stata molto generosa con loro e la cosa suscitava invidia, in particolare ad una vicina di casa alla quale erano nate molte figlie femmine alquanto bruttine, che venivano affettuosamente chiamate in tutto il vicinato le "maschiature". Un giorno, mentre due di quelle belle fanciulle passavano sotto il naso della sventurata signora , questa, incurante della loro reazione, esclamò : "Vira a bbiri, sti ruva malicuntenti!! Abbè, un tenìni manchi l'uocchi ppi cianciri e suni tanti sanizzi! Chini i cuverna, u Bommini? Atri ca chilli nnerameti irifigghi mmia! Abbè tutti i iuorni i ncuji i sutti e ddi supra e r'assimigghini tanti jiittilli, chi si bbo mangeri a rienzia maronna mija!" Il mio vicinato era un teatro vivente, le scene che si susseguivano erano talmente frenetiche da tenerci incollati mezza giornata alla finestra. Tant'è che la mamma o la nonna o parrinella erano costrette a prenderci per i capelli o per meglio dire "iru chepi ccierri" per riportarci a quelli che erano i nostri compiti quotidiani da svolgere. Ad ogni ora della giornata la scena cambiava, ma era sempre animata da accadimenti nuovi o da sceneggiati che si ripetevano puntualmente. La mattina il palcoscenico era riservato alle donne che, immancabilmente, impastavano un nuovo litigio o riprendevano quello non del tutto consumato il giorno precedente, ma che veniva interrotto perché i mariti rientravano dal lavoro e qualora' non avessero trovato le mogli pronte a servire non ci avrebbero pensato due volte a mandare la casa "scianchi all'aria". II pomeriggio, invece, la scena si apriva con i ragazzi che, subito dopo aver mangiato, uscivano fuori spinti dalle loro stesse madri che dovevano ripulire quella stanza. Mi ero sempre domandata come facessero tante persone a dormire in quell'unica stanza, finché una sera, sul tardi, capitò che dovetti andare a bussare ad una di quelle porte per una necessità; mi ritrovai di fronte ad un'enorme camera da letto , ne contai sei ed una specie di culletta. La maggior parte della famiglia alle otto di sera già era a letto; su un lettone giacevano almeno tre persone, alcune con i cuscini, altri senza e sistemati i "ri pirizzi", con i piedi sul petto dei primi; sotto il letto, invece era sistemata una "caggia" in cui erano "ammasunate" tre 'galline, le quali avevano il compito di produrre le uova che rappresentava per quelle famiglie l'unica risorsa in grado di "acciteri u stomichi chi schcameva". Il giorno dopo, con una scusa, ritornai in quella casa e vidi che i letti e le brande e le famose dormose erano sparite, nascoste forse sotto i due letti matrimoniali ancora visibili, mentre erano ricomparsi tavoli e sedie. Insomma, non avendo altri ambienti, quell'unica stanza per forza di cose, era polivalente, ossia, diventava , secondo le ore del gìorno, cucina, soggiorno, sala da pranzo o tinello e la sera camera da letto. Non era cosa facile vivere nei "vicinanzi", anche per chi come noi aveva una casa molto più comoda e posta ad un piano superiore. IL chiasso che veniva dai ragazzi,che alternavano giochi e litigi mentre giocavano "ara mazza e ru trugghi o a scintilli" o dalle donne che, avendo finito di rassettare , si inventavano litigi, forse, per passare il tempo o per antipatia o invidia verso la vicina di casa, era avvilente. Alcune dì quelle "scerre",che di solito accadevano nel primo pomeriggio, meritavano di essere godute dall'inizio alla fine e non ero la sola a pensarla così. Dalla mia finestra, mezza socchiusa, riuscivo a vedere che tutti quelli che abitavano di fronte a noi, come la famiglia Mazziotti, la famiglia Amato, le famiglie Benvenuto, Favaro, Malena, Policastri, Caldeo erano a godersi lo spettacolo senza mai mancare, anch'esse dietro gli spiragli delle finestre. A questo punto sento il bisogno di raccontarvi una scena che non ho mai dimenticato. Era il periodo di Natale, il freddo incalzava, Ninetta che era sull'uscio di casa sua si accingeva ad accendere il fuoco nel braciere con la "carbunella i rivatti", comprata da "sochita a ciella", un venditore ambulante. Per accendere la carbonella si era attrezzata, per dispetto, di "nu zunzulicchi gunteti i grassi i puorchi iru granchi", il risultato dell'accessione fu rapido, come pure le esalazioni che da esso si sprigionavano, impregnando tutta la "vinella". Tirisina, che abitava al piano superiore, con quanto fiato aveva in gola, si mise ad urlare: “E mo... cchi sta cumbinanni goi, a morta acisa rispriggianta? Chi cci vò muriri aru fieti iri carbuni, maronna mia!!! Pienzi ch'addi ferì abbivisciri i muorti iri 15-18? ". Affacciatasi dopo nell'astrachiello,vide una fumata nera che salendo andava ad inquinare i suoi panni stesi ad asciugare; a questo punto, apriti cìelo! Poco mancò che non le piombasse addosso, per darle la lezione che meritava; poi inveì: "e ssi', ccu ttija stei parranni,fa addiri ch’un sienti? E d’accullì m’avia rinnuciri i nzoni lavati?” Ninetta rispose: "E chilli mi chiemi puri nzoni laveti? Abbè assimigghini a ru culuri'iru cafè! E ppu cchi bu?... ghè ra terza vota chi stei appicianni u vrasciéri e tu, addispietti, mi spanni i robbi culanni ppi mu stuteri!" Tirisina, infuriata: "Ah accussì rici tu? E mo ti fazzi a birriri ghia!" Rientrò in casa, prese una brocca d'acqua e la scagliò addosso a Ninetta, che cadde a terra, tramortita. Pochi minuti dopo si rialzò e si mise ad urlare a mo' di sirena dei pompieri ed a bestemmiare, facendo " arrancheri tuttu u vicinanzi", che si trasformò in un vero e proprio Far West. Da ogni angolo accorsero, come cavallette, comari e "cormnarélle", pettegole intriganti che, invece di gettare acqua sul fuoco, incitavano le litiganti a continuare la lite. Dì li a poco si passò alle mani. In genere, durante la lotta, non venivano mai usate armi micidiali, ma oggetti alla portata di tutti. Si trattava di "vetti, laghinaturi, scupi, ligni, zuocchili, tappini e cupierchi". Stremate e malconce, le malcapitate vennero trascinate in casa dai mariti che erano sopraggiunti, messe a letto e rifocillate con "una tassarélla i gagumillia vulluta e tre pampinelli i lavuri ppi si carmeri i nierbi". Le liti tra due vicine potevano durare un'intera settimana ed oltre. Il segno della continuazione era legato ad un rituale tipico di ogni vicinato. Ogni sera veniva appoggiato in bella mostra "nu muzzuni i scupa" capovolto davanti alla porta o "all’astrachiello" delle due signore in questione, a voler significare: "domani secondo tempo". Spesso era costretto a intervenire anche il nostro parroco, giacché la parrocchia dominava il teatro dì "Farconi". Un giorno, esasperato dalle urla che arrivavano oltre l'altare maggiore, impedendogli di cantare in santa pace le lodi al Signore, si affacciò alla ringhiera esordendo: "Vergognatevi! Vi dovreste solo vergognare! Il Signore vi farà'vedere iì paradiso "ccu ru binoculi” Qualcuno di rimando: "Suparrì a prierica va fé i supi u pruppiti, e ppi cunti mia a po fera chiù longa e chiù cumbricheta iru juovi ssanti, ca prima mi nna ffatti jrì ara lamienta epù m'ha ffatti pij'eri u suonni ntri scanni". Il parroco, contrariato e rassegnato ribatteva: "Cosa volete che vi dica? Peggio per le vostre anime nere" .E tornando in chiesa: "Avijni raggiuni le mie devote, quando dicevano chi sutta Santu Japichi libbiranni sdomini!!!" Tutte queste scene, a distanza di anni, ritornano nella mia mente così come il passaggio di tanti personaggi mitici: lo stagnino a domicilio, detto "trullallà", u capilleri, l'umbrilleri, a sarcinera , a fimmina i l'acqua, a lavannera, u picureri , il gelataio "Spiriti i Pittìneti", l’Achitreni Zu Petrangili", il banditore Gigi, esiliato politico del nord Italia e, in particolare, Francischi "a Zirra" il quale, precursore del Colonnello Bernacca, comunicava all'intero vicinato le previsioni meteo della giornata, il merciao Zingone che, con la sua voce cavernosa e in un italiano sgrammaticato e corrotto, vendeva la sua merce ogni mattina facendo la tiritera che tutti conoscevano a memoria: "Achi, spinguli e specchi ppi ri frminini vecchi! E furcini, cucchieri e curtielli, piettini, pettinissi curchetti e spatini. Abbiame fruoffici, forbicetti, tomatichi e jiriteli , matasselli , spagnoletti , sapuni , sapunetti e rucchetti marca busta. Avimi puri a miricina dei moschi , cinque pezzi lire cento lire!!! Accattàtilla, donni! Ca se no vi viene la scabbia e poi vi rattati tutti ujuorni". Quanti ricordi! Certo, c'era tanta miseria, sofferenza, disagi, liti, ma c'era anche, vorrei dire, la danza della vita, con i suoi momenti di festa e di allegria; penso ai battesimi e ai matrimoni, che avvenivano sempre in quelle misere case dove esplodeva una gioia spontanea e spensierata, in cui si potevano cogliere, finalmente, alcuni sprazzi di liberazione dai pensieri della triste realtà. Ricordo i momenti di umana solidarietà che, puntualmente, nelle famiglie maggiormente generose, si ripetevano quando veniva fatto il pane in casa. Il calore del forno si trasformava in calore umano: quante "pitte" uscivano da quel forno per omaggiare tutte le comari, i vicini più intimi e i più bisognosi, raggiungendo le case delle persone alle quali arrivava il profumo del pane. Mi assale una nostalgia ed un nodo mi stringe la gola quando oggi rivedo tutte quelle porte chiuse e quel silenzio, quasi come se fosse calato il sipario su quel misero ma, nel contempo, gioioso teatro della vita di allora.
(Fonte : Il Serratore di E. Viteritti)