Cirrìja
di Franco Caravetta

Ricordi di Via Piave
Via Piave, alias Cirrjìa o Cirrìji, dove io ho trascorso gran parte della mia adolescenza, è stata una delle più importanti vie di accesso a Corigliano. Questa via, infatti, ha rappresentato per lunghi anni, e fino ai primi anni 60, l’unica via per la quale gli abitanti di grosse frazioni di Acri potevano accedere a Corigliano. Gli acresi (achitréni, per i coriglianesi), prove nienti dalla via mulattiera della Costa, raggiungevano Corigliano solitamen te a piedi. Anche i proprietari di un asino (tanti), di un mulo o di un cavallo (pochissimi) usavano i propri piedi come unico mezzo di locomozione, dovendo le cavalcature trasportare legna da ardere ( ‘na sarma”, una salma, che non era un cadavere, ma una misura di volume per la legna trasportata dagli asini-una soma-) o derrate alimentari varie: fichi (jetti, fichi a pallotta, fichj alici, skarcellj, filerj…) grano,castagne, granturco, mele, pere, pomodori, fagioli (sgusciati o nel baccello – famose i vajanelli ciote della barzelletta riferita a un noto vigile urbano del tempo) da vendere ai coriglianesi, in attesa lungo Via Piave o in Piazza del Popolo (l’Acquanova) . Io ero tra i più fortunati perché, quando da piccolo, dalla mia abitazione di contrada Monsignore, scendevo a Corigliano con mio padre, gran parte della strada la percorrevo in groppa al nostro bellissimo cavallo che a quei tempi, in mezzo a tantissimi asini, era l’equivalente di una Lamborghini oggi in un parcheggio di utilitarie. Il confronto trova la sua giustificazione nel fatto che su Via Piave gli asini venivano parcheggiati in fila, sui due lati, tranne pochi fortunati che trovavano ospitalità in qualche stalla privata dove potevano ripararsi dalla pioggia o dal caldo.
Chi giungeva a Corigliano dalla via della Costa, già a un paio di chilometri di distanza in linea d’aria, avvertiva la voce del paese: un vocio di donne e di bambini che sembrava una torre di babele, ma era una musica dolcissima perché più aumentava di volume e più segnalava l’avvicinamento alla città. Raggiunto il Coriglianeto, torrente assai generoso a quei tempi, si poteva sentire il suono dell’acqua che scendeva copiosa. Arrivati al primo mulino (quello di Zu Sarbaturi ‘i lacrimella), si sentiva lo scroscio dell’acqua sulle pale e il rumore monotono e costante delle macine che trasformavano il grano o il granturco in farina. Attraversato il ponte sul Coriglianeto, che è una vera opera d’arte, iniziava lieve la salita verso l’abitato. Quando la salita diventava più ripida, si veniva investiti dal puzzo della fogna che come un torrentello in piena emergeva da un tubo di terracotta e incominciava la sua corsa all’aria aperta verso il Coriglianeto o verso i primi giardini di aranci. Non mancavano i profumi supplementari dei vasi da notte (‘i cantiri) che alcune donne in processione quotidiana svuotavano nella fogna, nonché l’odore delle stalle e dei porcili dislocati lungo il percorso. Finalmente, dopo due e per qualcuno tre ore di viaggio a piedi, si raggiungevano le prime case. D’incanto scompariva la stanchezza, scompariva l’aria puzzolente, scompariva il dolore ai piedi martoriati spesso da scarpe strette o riciclate. Si era arrivati a Corigliano! In città! Una città accogliente, florida, bella, elegante, piena di vita.
Ma Via Piave era anche una via di uscita. Dal paese, di buon’ora, tanti coriglianesi partivano a piedi, soli o in compagnia del proprio asino (‘ u ciucciu) e/o di qualche figlio (‘i guagnuni), raramente dalla moglie, per recarsi alla vasta zona della Costa e raggiungere il proprio fondo ( ‘u stabulu) di ulivi e/o la vigna che, prima dell’avvento degli agrumeti su larga scala, rappresentavano una vera fonte di ricchezza.
Si affermava con enfasi che nel periodo di raccolta delle olive “ ‘a via ‘i ra costa curria gguogghj” (la via della costa scorreva olio, sia perché le olive che in abbondanza cadevano lungo la strada venivano calpestate da uomini e cavalcature, sia per la grande quantità di olive che venivano trasportate ai vari frantoi e per l’olio che in parte faceva il percorso inverso in otri di pelle di capra. Quell’olio con il suo profumo veniva ad allietare le case dei proprietari degli uliveti e delle raccoglitrici di olive che, pur stanche della pesantissima giornata lavorativa, la vigilia di Natale, tornate a casa, mintiani a frissura per friggere ‘i cullurielli e ri crustuli per far gioire i figli, dimenticando la stanchezza e la fatica e ignorando le spine conficcate nelle mani).
Via Piave era anche un’importante via delle industrie.
Da via Piave, infatti, si raggiungevano i vari mulini ( la stessa via era nota anche come Via dei mulini), la cabina elettrica, il frantoio oleario di Romanelli, tutte strutture che oggi potrebbero far parte di un percorso turistico storico- naturalistico, considerata la loro dislocazione lungo il torrente Coriglianeto.
E come dimenticare quel secco … eeeh! delle voci delle tante lavandaie, che precedeva la staffilata ancora più secca del panno sulla pietra! Donne umili, le lavandaie, e spesso umiliate, anche nel linguaggio comune. Il loro ruolo era, invece, di importanza vitale per le famiglie, in tempi in cui l’acqua in casa era un lusso che pochi si potevano permettere. Con la programmazione del lavoro, con la raccolta a domicilio e la successiva distribuzione, unite ad una sorta di cooperativismo bonario, il lavoro delle lavandaie rappresentava un primo esempio di lavanderia industriale a Corigliano.
A tale proposito,voglio concludere con un ricordo personale di un po’ di anni fa. Una sera d’estate, con la mia famiglia, siamo andati a Il Cerro per consumare un gelato e respirare un poco di aria fresca. Per i più giovani, chiarisco che Il Cerro era una struttura turistico-alberghiera nata da una magnifica idea di turismo, messa in atto da un Ente pubblico. Posta a oltre 1000 mt slm, con vista sul golfo di Corigliano, a circa 15 km da Schiavonea, appena fuori dalla strada provinciale che da Corigliano porta a Camigliatello,in mezzo a un bosco di cerri, questa struttura esiste ancora fisicamente, ma solo come cattedrale nel deserto.
Ritornando a quella sera d’estate, nel piazzale dell’albergo, all’ombra dei cerri, mentre il sole lentamente tramontava dietro il Pollino, insieme a tante persone altolocate del territorio, della Provincia e anche straniere, ho intravisto una lavandaia storica di Corigliano. La conoscevo da quando abitavo in Via Piave da studente immigrato, ma non la vedevo da molti anni. L’ho salutata e mi ha detto che trascorreva al Cerro le sue vacanze, aggiungendo che, grazie alla sua piccola pensione stava partecipando a pellegrinaggi in tutti i più importanti santuari in Italia e all’estero. E’ stata per me una grande gioia vederla lì, serena e sorridente, a godersi quello che restava di una vita di stenti vissuta con i piedi nell’acqua ma con dignità. Complimenti a te, L., e grazie per avermi comunicato l’orgoglio del tuo lavoro. Riposa in pace,L.
di Giuseppe Casciaro
Dai Racconti del giornalista coriglianese, Giuseppe Casciaro, pubblicati su Facebook, “'u vicinanz'i Cirrìә”

(pubblicato il 16/7/2012)
Cirrji... Casa mia era qui, sulla sinistra al centro della foto, dove ora svetta un inutile
cancello... Di fronte abitavano guerino e lucia i canzunelli, a zi marittella e ra zi carmenia, a fianco zi zi santa e zio pippini forciniti, fratel...lo di mio nonno, con il figlio gianfranco. Poi li' arrivarono compa sarbaturi i duduelli ( grande tifoso dell'Inter e tenutario con padre e
parenti di una girella, la roulette che portavano la domenica all'acqua nova e poi nelle feste patronali) e cumma rusina, con i figli giovanni, tonino, enzuccio, bina e luciano (luciano lo
battezzammo io e mia cugina maria domenica, era il 1978). E sotto di noi ghirma, con il marito, due figlie femmine e franco, ora barbiere in via roma (spero ci sia ancora).
Ghirma.
Ghirma venne li' con la famiglia dopo
una serie di disavventure in altre case. L'ultima era nella vinella, in fondo, verso i gradini che portavano alla ricella, più' o meno dove mastro pasquale aveva la sua temuta falegnameria... Un
giorno vidi persone correre e gente urlare. Ghirma e il marito tornarono a casa e scoprirono qualcosa di sconvolgente. La casa, riferivano i grandi, era sottosopra, materassi per terra, stoviglie
e piatti lontani dalla cucina e in mille pezzi, i mobili spostati... I ladri, pensarono tutti. Ma non era cosi', almeno secondo ghirma, il marito, le due figlie femmine e mastro franco. C'era il
dettaglio della tigre con la coda strappata che fece avanzare un'altra, terribile, ipotesi. A combinare quel putiferio era stato il demonio. Perche' quella tigre di pezze e stoffe, grande come
una tigre vera, comprata qualche tempo prima alla festa dei venticinque, era indistruttibile, dicevano, nessun essere umano, sostenevano con forza, avrebbe avuto la forza di staccarla. Percio'
ghirma e la sua famiglia presero la decisione: via subito da quella casa, via dal diavolo. E vennero a stare sotto di noi, forse gia' il giorno dopo quel terribile evento. Non accadde piu' nulla
a ghirma e alla sua famiglia. Forse perche' fuori dalla porta, sul muro, attaccarono subito decine di teste d'aglio e amuleti vari e a terra spargevano regolarmente grosse manciate di sale
grosso. Ghirma e la sua famiglia avevano ritrovato la serenita'. Costanza, la figlia grande, ogni giorno sul lastrachielli le pettinava con amore i capelli, raccogliendoli poi in una grande
treccia che le cingeva tutta la testa. Giorni normali finche' la vita di costanza fu stravolta da un terribile evento. Ma questa è un'altra storia.

16/7/2012
In quella casa al centro della foto, sembra un rudere, con le due finestre ai lati che sembrano occhi sulla valle che porta alla costa, al piano inferiore c'era una sorta di magazzino che mio padre utilizzava come pagliaio (ho un vaghissimo ricordo ma credo che quelle balle di paglia le vendesse nel suo negozio di cirria). E sopra abitava una donna, iolanda la reggitana. Una donna alta, imponente, bionda e sempre curata, al contrario delle donne di cirria ( a parte mia madre...). Quella casa per noi ragazzini era la fine del paese, la fine del mondo. Non c'erano strade oltre quella casa, solo una mulattiera che portava i contadini nei poderi della valle e verso le case della costa. Per noi ragazzini era il posto proibito soprattutto perche' c'era lei, iolanda, in quella casa. Iolanda era una prostituta. Cinquemila lire ci volevano, dicevano quelli piu' grandi per entrare in quella casa... E noi piccoli a fantasticare e a osservare, la sera, di nascosto dalle madri, quella processione di uomini che scendevano verso la sua casa. In vecchiaia iolanda decise di andare dal prete di santuori e chiese di confessarsi. Dopo rinuncio' per sempre agli uomini.