'A Purtella

1° Racconto

di Pietro Guidi

‘A Purtella

Anch’io voglio parlare del “mio vicinanzi” per trarne valori da trasmettere soprattutto alle nuove generazioni,consapevole, come sono, che la cosa tende a migliorare i rapporti umani e la società.

“U vicinanzi” particolarmente a me caro è la Portella (“ ‘a Purtella ”), dove vi ho vissuto dall’età di due anni -1946- al 1962.

La Portella è uno dei luoghi più antichi della nostra città e il suo nome deriva dal fatto che era un’apertura (secondaria) delle mura di cinta di Corigliano. Comprende: la parte finale di Via Garopoli e l’inizio di Via Carso ( il percorso è visto nel verso da Piazza del Popolo alla Via Carso). Parlerò non solo del luogo ma anche degli abitanti del luogo stesso, per farvi rivivere il profumo e i sapori di quei tempi che furono.

Da Piazza del Popolo, salendo lungo Via Garopoli, si arriva alla Portella. Qui troviamo il Palazzo dei Baroni De Rosis Morgia. Alla destra una lunga “ Scalilla” che termina con un incrocio, a sinistra Via Ognissanti e a destra il Municipio.

Dei Baroni De Rosis Morgia ricordo con ammirazione soprattutto il Barone Alessandro, chiamato “don Lisanni”, fratello di don Raone. Don Lisanni era una persona affabile e gentile soprattutto verso noi giovani. Lo si incontrava spesso mentre si accingeva col suo asino ad andare nelle sue campagne a fare non so che cosa, forse niente. A lui si attribuiscono tanti aneddoti e tra questi anche la nascita della voce dialettale “ Truschiniello” (termine che indicava persona simpatica, graziosa ecc.) Testimoni dell’origine di questo termine erano il sottoscritto e la buonanima di Pasqualino De Rosis, primogenito della famiglia prof. Alessandro De Rosis, nonché fratello dell’ex sindaco Armando De Rosis.

Lo spazio antistante il maestoso palazzo dei baroni De Rosis, uno dei più belli e panoramici di Corigliano, distrutto, purtroppo, recentemente da un incendio doloso, veniva utilizzato da noi ragazzi come campo da calcio e per altri giochi, come  “a mazz’e u trugghji”, “a staccia”, “u carruocciuli”, “a scintilli”…  insomma per tanti giochi semplici di una volta. Erano tempi, quelli degli anni ’50 , che bastava un piccolo pezzo di legno, una palla di stoffa e alcuni compagni(amici) per essere contenti e, soprattutto, felici.  Ed ecco che rivedo con immutato affetto i volti dei miei “compagni” di allora, cioè gli amici della Portella :  Mario Cecè, Giovanni e Tonino Celico, Tonino Marrazzo, Mario Servidio, Giorgio Scorzafave, Everaldo Fuscello ed altri più piccoli come Giovanni Scorzafave. Le rispettive famiglie sono da menzionare tutte per la gentilezza dei loro gesti, per come ci volevano bene, per le cose belle che ci trasmettevano. Davano a tutto il vicinato umiltà di sentimento, familiarità ecc. Quei tempi, che chiamerei i tempi della solidarietà e della fratellanza, non avevano niente a che fare con i tempi attuali, dove tutto ha uno scopo, un fine e … un costo. Mi riferisco ai miei compagni di scuola che mi prestavano i libri per studiare, ma anche agli aiuti didattici che io davo ai più piccoli. Ne cito uno per tutti : “Giuvannielli”. Il piccolo Giovanni Scorzafave, oggi autore di molte pagine web sulla rete, che alle ore 7 del mattino veniva a casa mia per alcuni chiarimenti di matematica. Ma queste sono altre storie, ritorniamo alle persone del mio “vicinanzi” che vorrei nominare una per una. Ne ricorderò solo qualcuna per non dilungarmi molto. Tra queste ricordo “zia Peppinella”, la madre di Mastro Giovanni “ U Monachiello”, uno dei più bravi barbieri degli anni ’50. Il suo salone, si fa per dire, perché era una bottega di 8-9 mq, si trovava all’inizio di Via Garopoli, di fronte al Bar Gatto Bianco. Zia Peppinella abitava in una casa accanto alla mia. Durante le sere d’estate, quando il caldo era insopportabile e si andava a letto tardi, lei  ci riuniva sul pianerottolo accanto alla mia casa  e ci raccontava fatti di briganti e di tesori. Tutto sembrava vero. Noi ragazzi, incantati dal suo raccontare, in un silenzio assordante, ci proiettavamo tutti in quel mondo fantasioso. Quel piccolo posto di tre o quattro metri quadri si trasformava in un cinema all’aperto, con tanti posti a sedere (per terra) per noi bambini. A sera tardi, salutando e ringraziando zia Peppinella, con le immagini scolpite nella nostra mente, si andava a letto nella speranza di sognare il posto dei “tesori”. Un altro personaggio della Portella che mi è rimasto impresso nella mente è “Zù Franco”, un uomo tenero con una barba lunga e bianca che portava con sé il peso della sua miseria e dei suoi anni . Un ramingo in compagnia del suo asino. Per qualche settimana si fermò, insieme al suo immancabile compagno di viaggio, nel nostro “vicinanzi”. Dormiva in una stanza sotto la gradinata che portava a casa mia (via Carso n°13). Il dormire di Zù Franco veniva allietato dal sorriso e dalla compagnia di noi bambini. E lui mostrava felicità enorme in questa sua misera povertà. La stanza si mostrava come una indescrivibile stalla per animali. Questa stanza-stalla era di proprietà di don Antonio Nobile Lavorato, il papà dello stimatissimo Agostino Nobile Lavorato, nonché marito della gentilissima signora donna Lina Librandi. Altre persone da ricordare per correttezza comportamentale e gentilezza di cuore sono: zio Angelo Servidio e famiglia, il papà dell’amico  Tonino Servidio, conosciuto su Facebook come Tony Servidio (che attualmente vive in Francia), zia Alfonsina e zio Alfonso Marrazzo e famiglia, Gerardo e Demetrina Scorzafave e famiglia (gli stimatissimi genitori di “Giuvannielli”), il sindaco Don Peppino Caracciolo che fece costruire la “Piazzetta” , a metà degli anni ’50, a protezione del dirupo “A TIMPA” che andava giù fino al Coriglianeto e dove noi fanciulli piantavamo semi di ortaggi. Della Portella non possiamo menzionare “ U Vagghja” , storicamente molto importante perché in una di queste case, e precisamente in fondo a destra a piano terra, nacque nel 1605 il grande Girolamo Garopoli. Un personaggio che ha dato lustro alla nostra città. Autore del grande e famoso poema epico Carlo Magno o sia la Chiesa Vendicata, fu arciprete della chiesa di S. Maria. Di fronte a questa casa c’era la dimora di Don Nicola De Rosis, padre di Donna Norina, nonché nonno di Everaldo Fuscello. Ricordo con particolare affetto la gentilezza di Don Nicola, uomo nobile anche nell’animo, che spesso stava seduto sul muretto e salutava tutti i passanti con grande cortesia. “ ‘Ntru vagghja”, nella parte di fronte, salendo le scale, al primo piano, abitava uno dei migliori ebanisti di Corigliano, il maestro Giuseppe Policastri, detto “Vai maestri”, nonno del prof Giovanni Leonino e del dott. Giuseppe  Leonino. Famosi e di particolare pregio i mobili che artigianalmente produceva. Un personaggio, tanto per dare un’idea,  pari al grande mastro Giorgio Aragona. Altre famiglie abitavano “’ntru vagghja” ed erano quelle del prof. Tramaglino, dei Trebisonda, ...

C’è tanto da raccontare e da apprendere. Tra le prime cose da sottolineare è la gentilezza, nobiltà d’animo e le qualità degli abitanti di tutto il vicinato. Ci sentivamo tutti una famiglia, dai valori alti e profondamente umani, valori che ritengo da conservare e trasmettere agli altri. Non posso dimenticare la frequenza assidua della mia persona presso la dimora della famiglia Marrazzo. Ero considerato uno di loro, non solo perché molto amico di Tonino, ma perché l’amicizia che ci legava era più di una fratellanza vera e sincera.

Il mio racconto, pur breve, finisce qui, citando il “canalicchio i ra Purtella”. Una piccola fontana di ferro battuto, installata nel 1893. Era una fonte di vita, dove le donne e noi bambini andavamo “a riempire l’acqua” con le famose  “vummuli”, che mettevamo sui nostri balconi, esposte a quell’arietta fresca dei tempi che furono e che ancora oggi, a distanza di tantissimi anni, rinfrescano il mio animo.

2° Racconto

di Gerardo Bonifiglio

 ‘A PURTELLA

 

‘A Purtella, per me, più che un luogo fisico è un luogo dell’animo. Vi sono nato e vissuto per più di dieci anni. Gli anni in cui sicuramente la visione della realtà da parte di un bambino è “travisata”, ma forse per questo è più indelebile. Cesare Pavese diceva : « Ben poco la vita adulta può aggiungere al tesoro infantile di scoperte ».

Il perimetro fisico della mia personale “Purtella” forse è un po’ più ampio di quello che il toponimo descrive. Diciamo che, per comodità narrativa, i suoi, o meglio i confini da me stabiliti, vanno da “’a vucchi i l’Acqunova”, percorre tutta la salita di via Garopoli, costeggia il palazzo De Rosis, arrivando fino allo slargo di “Cola Croce”, e dopo una breve salita, girando a destra,  arriva a “’nu suppuorti” detto “arrieri u palazzi” e continuando sfocia proprio davanti a un ingresso “i ru Castilluzzi”, sulla gradinata che partendo dal “gafio” detto di Ferrari  arriva “a ra crucivia”.

Pochissime erano le botteghe. Un paio di “Generi Alimentari”, compreso quello di “Ninetta i Baruni”, dove vi ho speso le ultime monete di una lira per comprare “i pesciolini “ di liquirizia.

Il negozio era angusto, c’era un piccolo bancone e tutto intorno ad esso sacchi di juta pieni di pasta ( allora si vendeva sfusa ) e sacchi di carta pesante pieni di zucchero e di riso. Ricordo che vi si vendeva una mortadella di colore rossiccio prodotta anche con carne di asino, o almeno così si diceva allora e un concentrato di pomodori che si vendeva a cucchiai e veniva avvolto in una carta oleata di colore grigio. Immancabile, appena dietro la porta, messo in bella vista, un cesto in legno nel quale erano distese di un bel colore dorato,  “ i sarechi” ( le aringhe ), che costavano poco ed era il cibo dei poveri, molti allora, e di chi in cantina amava bere il generoso vino locale che si vendeva nei pochi mesi invernali. A questo proposito, ricordo una di queste cantine situata proprio a metà scalinata e ciò che mi è rimasto nella memoria è una lampada fioca con una luce rossiccia  di “due candele”, come si chiamavano all’epoca, ed il prezzo del vino scritto su di un pezzo di cartone improvvisato, 140 lire al litro. Rapportato all’epoca non erano poche. Gli operai, se ricordo bene, guadagnavano 300/400 lire al giorno. Il cantiniere se  la memoria non mi inganna si chiamava”Sarbaturi i Tuffi

Proprio di fronte alla cantina c’era una bottega di un falegname. Vi lavoravano due persone : il più anziano si chiamava “mastro Sponzella” ed io lo identificavo con il mastro Geppetto di Pinocchio che avevo letto da poco;  l’altro “ mastro Totonno   Pulice”. L’odore della colla di pesce che si scioglieva in un barattolino di latta su di un braciere, si spandeva per tutto il vicinato.

Salendo un po’ proprio “a ra crucivia” c’era la cantina “i zu Jabbichi”. Apriva sempre in ritardo rispetto alle altre, forse perché vendeva solo vino bianco che richiedeva più tempo di maturazione. Il suo era un vino particolare, molto aromatico per via dell’utilizzo di uve “zibibbo” adatto più alle donne o per fare i dolci  di Natale. Comunque ricordo  che quella cantina era sempre piena di avventori ed in pochi giorni terminava tutto il prodotto; dopodiché  “zu Jabbichi” riprendeva la sua vita di sempre  e con il suo asinello ogni mattina partiva alla volta della sua vigna  “i supra l’irti” per fare ritorno alla sera. Legato al vino affiorano anche i ricordi legati alla vendemmia. Di quando in quelle vie c’era un via vai di asini e di muli che trasportavano gli otri pieni di mosto dalle vigne alle cantine. Mi sembra di parlare di episodi omerici e invece si era verso la metà degli anni cinquanta e quella era la realtà. Gli otri erano ottenuti con le pelli delle capre e noi bambini, approfittando della momentanea distrazione dei “mulittieri”, ci attaccavamo a quella che era stata la zampa dell’animale e tolto il tappo succhiavamo le gocce di mosto che nel frattempo erano scolate, mentre gli otri svuotati  venivano riposti sulla sella  “i ri cavarcaturi”, come allora si chiamavano indistintamente gli asini, i cavalli o i muli.

E sempre  restando in ambienti omerico/bucolici non posso non ricordare di quando quasi tutti i pomeriggi dell’anno verso l’imbrunire passava la mandria delle capre e ognuno portandosi dietro il proprio contenitore lo porgeva al “massaro” che sceglieva la capra giusta e in poco tempo lo riempiva di latte mungendolo direttamente dalle mammelle dell’animale. 

Certo l’igiene non era al massimo grado, ma c’era il modo per rendere innocuo qualche batterio. Il latte si faceva bollire e se diventava “a ricuttelli”, cioè cagliava, si buttava e quella mattina  si suppliva con orzo o a volte con cacao. I primi segni di civiltà in questo campo arrivò con il lattaio Ventura (alias ‘u pilleri) che tutti i pomeriggi passava con il bidoncino di alluminio e misurava i quarti di latte, questa volta però di mucca. Più tardi, altra evoluzione. Si passò alle bottiglie di vetro, con il tappo di alluminio. Poi arrivò il latte a lunga conservazione che con l’aiuto della pubblicità soppiantò anche il latte fresco di Ventura.

Potrei parlare di tanti altri ricordi, ma penso che sarebbero identici a quelli che ognuno ha dei propri vicinati, come per esempio i giochi che vi si svolgevano  nelle diverse stagioni o altri eventi come “i pagghjeri “ di San Giuseppe o di San Francesco.

Certo, il tempo ha portato via quell’atmosfera di magia che circondava i vicinati di una volta, di quando eravamo bambini, o forse , più prosaicamente la magia è solo nei nostri ricordi e in ogni caso è bello ricordare anche attraverso la lente distorta  della memoria.

E mi piace concludere riportando una frase di G.G. Màrquez : “La vita non è quella che si è vissuta,ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla “.