I Racconti del prof. Giuseppe Franzé

Nato a Maropati, un piccolo paesino in provincia di Reggio Calabria, Giuseppe (Peppino) Franzè fu un bravissimo insegnante di scuola elementare negli anni ’50 e ’60. Ben preparato, esercitò con
passione l’attività di insegnamento, distinguendosi per i suoi metodi innovativi nel campo educativo-didattico. Persona seria e, soprattutto, onesta, partecipò attivamente alla vita politica
della nostra città nelle fila del Partito Socialista Italiano.
Il 4 luglio del 2009, il prof. Peppino Franzè terminava a Corigliano il suo percorso terrestre.
Seguono alcuni racconti del Prof. Giuseppe Franzè, pubblicati su “Il Quotidiano della Calabria” dall’amico giornalista Giacinto De Pasquale, che ringrazio tanto.
La casa del Duce
Il piccolo locale pianoterra dell'imbocco di via Piave,
sulla destra scendendo, che per anni fu il negozio di alimentari del signor Taverna, ospitò dal 1939, per due anni, la "botteguccia" di Carolina "Mussolini" per la vendita di alcuni modesti
articoli di creta. Carolina, che già si faceva chiamare "Mussolini" dal 1935, fu una delle ricoverate presso il manicomio calabrese di Girifalco, ma fu dimessa all'inizio del 1939, su richiesta
dei medici coriglianesi Giordano Bruno e Marcello Cimino, che garantirono la loro "protezione" su questa donna grassoccia ed innocua, che da anni era fortemente convinta di avere nel proprio
grembo Benito Mussolini, col quale diceva di conversare continuamente. Era molto rispettata e lei ricambiava con altrettanta cortesia, pur essendo una modestissima donna del popolo. Anche se
analfabeta, il suo linguaggio ed il suo comportamento erano superiori a quelli della sua estrazione sociale. Tutto questo incuriosì molto il dott. Michele Persiani, il quale non sapeva darsi
spiegazioni su queste mutazioni caratteriali e sul suo corredo di notizie storiche e politiche, visto che Carolina non sapeva leggere e non conosceva l'esistenza della radio. Parlava con
scioltezza di Piazza Venezia, dell'Altare della Patria, della guerra di Spagna e di tante altre cose. Questa sua inspiegabile "cultura" destava molto stupore e le procurava un certo prestigio,
tanto da indurre alcuni piccoli "gerarchi" della MVSN (Milizia Volontari Sicurezza Nazionale) coriglianese ad usarle particolari ossequi chiamandola persino donna Carolina. Quando lei, col suo
pancione sporgente, si affacciava su Piazza del Popolo, la gente si scostava per farla passare e lei ringraziava con insolita gentilezza. Quando un suo simpatizzante pittore appose sul frontale
della sua bottega una targa di legno con la scritta "Casa del Duce", la sua gioia toccò le stelle e festeggiò l'evento con una bottiglia di moscato regalata da uno dei suoi numerosi fans.
Altrettanto tripudio quando le fu regalato, personalmente dal podestà Marcello Cimino, un vecchio gagliardetto nero col Fascio. Morì improvvisamente nel 1945, all'insaputa di rutti, ma il dott.
Michele Persiani continuò a pensare a questa strana donna analfabeta, che era in possesso di un linguaggio ricco di notizie politiche molto rispondenti alla realtà. Un segreto che non fu mai
spiegato.
Il frantoio benedetto
Nel 1465, il Conte di Corigliano e Principe di Bisignano, Luca Sanseverino, concordò con i Frati Conventuali il loro trasferimento dal Pendino in una nuova struttura conventuale in pietra e legno, in cambio del loro vecchio monastero. L'accordo fu presto formalizzato e i Conventuali si spostarono nel nuovo convento a fianco della Chiesa di S. Francesco d'Assisi, che poi divenne la Chiesa di S. Antonio di Padova. Attorno al 1819 si stabilirono in questo convento i Liguorini, o Redentoristi, monaci molto intraprendenti e determinati, con una spiccata vocazione più affaristica che pastorale. Fanatici filoborbonici e spesso collusi col brigantaggio locale, nel 1854 accentuarono il loro calo di prestigio con la vendita dello stupendo Coro in legno massiccio della Chiesa di S. Antonio, realizzato nel 1700 dal maestro L. Franceschi, al Vescovo di Cariati, Mons. Golia. (Quando nel 1863 fu affidata ai Liguorini la prestigiosa libreria dei Cappuccini, affiorarono molte diffidenze. I timori si rivelarono fondati e le rimostranze furono espresse, anche in data 5 maggio 1865, quando il Ricevitore del Registro denunciò a Padre Antonio Sileo dei Liguorini la scomparsa di parecchi volumi). Già nel 1861, in seguito ad una massiccia proliferazione di lettere anonime, il Convento era stato sottoposto ad accurate perquisizioni, alla ricerca di pericolosi latitanti della banda del brigante Straface Palma. Anche nel 1862, i Liguorini, nostalgici incalliti di Casa Borbonica e leaders del movimento clandestino politico ostile all'unificazione d'Italia, furono sottoposti a stressanti interrogatori e scrupolose indagini. Il sindaco facente funzioni, dr. Gaetano Gianzi, ingiunse ai Frati di lasciare i locali del Convento, ormai di proprietà municipale, ma loro ottemperarono solo in parte l'ordinanza, perché si ritirarono in poche stanze del pianoterra. Crollati gli oboli e le messe a pagamento, i Liguorini non si sgomentarono ed accentrarono i loro interessi sulle attività economiche rilanciando il vecchio frantoio di loro proprietà, posto nell'antico fabbricato di via Margherita, dove ora sorge il market Sosto. Diffusa la voce che la resa delle olive molite presso questo frantoio era largamente superiore a quella degli altri opifici, grazie alla benevola protezione di S. Antonio, gli affari andarono a gonfie vele. Ma per poco, perché, quando gli olivicoltori si accorsero, invece, che la resa era inferiore, smisero di portare le loro olive. I Frati non si scomposero e numerosi clienti ritornarono, quando parecchi oliveti andarono in fiamme, per mano di ignoti briganti.
I primi passi del turismo a Schiavonea
Prima di allora, alla Schiavonea c'era soltanto una cantina per la vendita al dettaglio di vino di produzione cassanese (le vigne coriglianesi erano state distrutte anni prima dalla peronospora), ma dal 1880 aprì i battenti l'osteria di Donna Maria in un pianoterra del "Quadrato Compagna", lato Porta di Rossano. Gli affari si rivelarono subito esaltanti, specie nei mesi estivi, e donna Maria potè accumulare congrui risparmi, che le consentirono di acquistare alla Stazione la "Locanda della Ferrovia". L'osteria del Quadrato rimase chiusa per alcuni anni e nel 1899 si insediò negli stessi locali Elisa Rizzo, una vispa ed intelligente operaia delle "spiritiere" (estrazione dell'alcool), arrivata da Milazzo di Messina assieme al marito don Turi. Nel mese di agosto dello stesso anno il Regio Commissario Prefettizio Paolo Bossolo tagliò il nastro augurale della "Gelateria della Marina" con un vasto assortimento di sorbetti alla frutta e di granite al limone. (Il sorbetto al mirtillo, fatto con i frutticini raccolti sulle pendici del Patire riscosse il consenso entusiasta del Regio Commissario e del prof. Francesco Maradea). L'anno dopo alla gelateria fu annessa "La Pizzeria di Napoli" con l'attiva presenza di un provetto pizzaiolo di Sorrento.
Nel 1902 fu istituito presso la gelateria il servizio di noleggio di salvagenti in sughero e di tende triangolari per la spiaggia. Grazie anzitutto alla appassionata e cocciuta collaborazione delsottobrigadiere della Finanza Alfredo Siepe e della guardia Vincenzo Rendo, nel 1904 ebbe il suo felice debutto lo stabilimento balneare "La Marinella' gestito personalmente da donna Lisetta e frequentato quell'anno anche da numerose belle ragazze cosentine,alle cui famiglie l'intraprendente siciliana aveva dato in fitto alcuni vani dello stesso Quadrato. Nel 1906, la Gelateria divenne il "Caffè della Marina" sempre gestito da donna Lisetta, che subito fece affari d'oro con le tisane ele erbe per la digestione e contro l'insonnia. Don Turi, il marito, che si interessava attivamente della Pizzeria, nello stesso anno introdusse la produzione di pagnottelle, poi imbottite con salumi o latticini locali. Molto apprezzato e consumato il vino moscato in botti di rovere che arrivava da Milazzo. Nello stesso anno e nello spazio prospicente il "Caffè", si esibì a cavallo di un grande triciclo di ferro il giovane Alfonso Cimino, proprietario anche della prima barca a vela da diporto apparsa sul nostro mare.
La "Quadriglia saracena"
Carmine Mollo, che abitava al Gradone S. Antonio, acquistò una grande notorietà quando, nel 1904, ancora giovanissimo, acquistò il primo fonografo a cilindro, con la
meccanica a molla, su cui troneggiava la grande tromba sfavillante coi suoi colori sgargianti. Il figlio Francesco, che era uno dei più accreditati attivisti del Partito Nazionale Fascista,
ereditò la passione per le nuove tecnologie e nel mese di ottobre del 1924 acquistò dalla ditta VOX di Napoli il nuovo, fiammante fonografo a disco. La commissione dell'apparecchio l'aveva fatta
telegraficamente in aprile, perché voleva festeggiare la vittoria elettorale del fascismo a suon di musica. Quando il 21 aprile dello stesso anno, il Consiglio Comunale deliberò di eleggere il
dirigente del fascismo cosentino, Michele Bianchi, Cittadino onorario di Corigliano, lui avrebbe voluto organizzare in piazza una festa pubblica col suo fonografo, che arrivò, però, con sei mesi
di ritardo. (La festa ebbe ugualmente luogo e, dopo il discorso del barone Guido Compagna, fu esposto al pubblico il bassorilievo dell'ebanista coriglianese Giorgio
Aragona con la testa di Benito Mussolini). Il 1924 fu per Francesco Mollo un anno fortunato. Appaltò i lavori per la costruzione della strada
Ponte Margherita -San Giacomo D'Acri, il cui progetto era stato efficacemente sostenuto dal Sottoprefetto di Rossano, cav. Luigi Sestili. Inoltre, assieme ad una ditta di Taranto, eseguì gli
impianti per l'illuminazione elettrica delle due chiese di S. Francesco e S. Antonio, sino ad allora ancora dotate di grandi e stupendi lumi pensili a petrolio. Nel mese di dicembre del 1924
arrivarono a Corigliano i "Caballeros", la compagnia napoletana di varietà del cav. De Frattis, ma non poterono esibirsi, nel periodo di Natale, essendo il Teatro Comunale "Trento e Trieste"
chiuso da tempo per interminabili restauri. Tra il Mollo ed il cav. De Frattis si stabilì un feeling straordinario e la compagnia si fermò a Corigliano per alcuni mesi. La coppia molto affiatata,
aprì, in un locale di via Aquilino, poi negozio Magliarella, a pochi metri dalla calzoleria Polino, il "Circolo della Quadriglia Saracena". Aderirono otto giovani e, dopo alcuni mesi di
addestramento con musiche del fonografo a disco, si esibirono nelle principali piazze della città con balletti molto apprezzati dalla cittadinanza, anzitutto sbalordita dalle audaci esibizioni di
Debora De Frattis, che, col suo corpo sinuoso e conturbante, eseguì la danza del ventre, persino con l'ombelico alla luce del sole. Il
fonografo di Francesco Mollo fece da colonna sonora per altre quadriglie negli anni 1926/27/28. Poi il fonografo, per la rottura di un pezzo della meccanica, funzionò solo a singhiozzo. Fu
chiuso anche il Circolo di via Aquilino, ma Mollo programmò ugualmente per il 1930 la Quadriglia a cavallo, che poi fu realizzata solo nel 1933, con tre cavalli e non con dieci
previsti.
Il Ponte Canale
Dopo avere individuato una ricca sorgente di acqua potabile, anche con il concorso del Poverello di Padova, si pensò ad un ponte per raccordare, sull’antica via delle Furche (poi via Nova e via Roma), i due Cozzi del Vernuccio e della Cittadella, con spese a carico della civica Università locale, al fine di potere garantire un adeguato approvvigionamento idrico ai quartieri del Serratore, della Giudecca, dei Vasci, della Portella e del Castelluccio. I lavori iniziati attorno al 1482 furono interrotti quando fu imprigionato, il Principe Girolamo Sanseverino con l’accusa di essere uno dei maggiori sostenitori della congiura dei baroni contro il re aragonese di Napoli. I lavori sarebbero ripresi nel 1487 per decisione del neo governatore aragonese di Corigliano, Giovanni Nuclerio, che, per la realizzazione di tale ardita opera, reclutò numerosi carpentieri della Giudecca locale ed impose alla Università l’applicazione di una nuova tassazione, che colpì pesantemente anzitutto gli ebrei coriglianesi. Il ponte, dopo alcuni decenni di lavori intermittenti, nonostante i finanziamenti ottenuti per l’intercessione del coriglianese Joanne Antonio, autorevole amministratore della Contea, fu completato con cinque archi maggiori alla base e sette archetti superiori, sulla cui sommità furono installati i tubi in terracotta per l’attraversamento dell’acqua potabile. Ammirato e disegnato dai numerosi viaggiatori europei giunti in città, nel 1854, con progetto dell’architetto Bartholini, fu parzialmente ristrutturato e la sommità fu trasformata in corsia pedonale con la sistemazione dei tubi dell’acquedotto ai fianchi esterni dei parapetti. Nel 1889, la giunta comunale, presieduta dal sindaco Pasquale Garetti, preoccupata per alcuni piccoli cedimenti del ponte, aveva deliberato di conferire un incarico per la progettazione di supporti protettivi nella parte basale, ma la delibera non giunse mai in consiglio, a causa dell'epidemica carenza finanziaria del bilancio comunale. Nel 1891, quando il principe di Piemonte, Vittorio Emanuele, scendendo per via Roma, diretto al Convitto Garopoli, si fermò a lungo per ammirare il ponte ed avendo saputo dal suo accompagnatore, il Senatore Francesco Compagna, delle difficoltà finanziarie del comune per interventi restaurativi, esclamò “peccato” e riprese la strada verso Sant’Antonio.
L'Ospitale della Pietà (Fatebenefratelli)
Il fabbricato ancora torreggia sul piccolo dorsale, sopra la Chiesa del Carmine, chiuso da quando i fratelli Gaiani, eccellenti falegnami ed ebanisti, hanno disattivato il loro laboratorio. Fu don Pietro Perrone, ricco di famiglia, a volere realizzare, a fine Cinquecento l' "Ospitale della Pietà" per l'assistenza agli ammalati molto poveri. La gestione fu affidata ai monaci Fatebenefratelli di S. Giovanni di Dio attorno al 1605, ma il piccolo nosocomio, dopo una esistenza grama, chiuse per mancanza di oboli. Nella seconda metà del Seicento, anche i monaci lasciarono Corigliano. Ignoto il suo ruolo sino al fine Ottocento, quando ritornò ad essere la sede di un nuovo frantoio per la macina delle olive con strutture in legno di ciliegio, una rarità all'epoca. Nel 1911, quando il barone Guido Compagna fece installare la teleferica per il trasporto di legname, svolse il ruolo di deposito e di officina, nella quale lavorò anche il giovane Alfonso Scarcella, addetto alla manutenzione degli argani. Nel 1917 il Sindaco Vincenzo Fino aveva programmato un veloce restauro di questo edificio per ospitare un contingente di 50 reclute (Leva 1898), provenienti dalla Sicilia ed assegnate a Corigliano per un addestramento di tre mesi, prima di essere avviati al fronte. Il Sindaco dovette rinunciare al progetto quando prese visione del preventivo di spesa e dovette optare per la chiusura delle sezioni femminili della Riforma, dove furono poi alloggiate le reclute. Alla fine della prima Guerra Mondiale, era stata fatta la proposta di trasformare il piccolo edificio in Cappella Votiva dedicata a tutti i Caduti in guerra, con la conservazione di loro cimeli, di lettere ed altri oggetti destinati a mantenere viva la memoria del loro sacrificio. Ma tutto svanì nel nulla. Quando l'équipe dell'Arch. Guiducci stava redigendo il nuovo Piano Regolatore del nostro territorio, ci fu anche la visita dell'Arch. Radonga, il quale era convinto che l'agglomerato Pendino - Carmine doveva saldare armonicamente lo sviluppo urbanistico della pianura col Centro Storico. Era stata sua l'idea di realizzare il Parco Archeologico del Carmine- Pendino ed il piccolo Museo del Lavoro, con arnesi ed immagini del Concio e della Fabbrica dei Panno, nel piccolo edificio dei Fatebenefratelli. Lo spiazzale antistante doveva essere, con tutti gli arredamenti necessari, il Belvedere sul Coriglianeto (ll sito era conosciuto col nome di "Monti Pirucchj", dove le lavandaia, nel mentre asciugavano la biancheria, spidocchiavano le nipotine al seguito). L'Arch. Radonga voleva offrire a chi arrivava a Corigliano una immagine accattivante e non quella dei porcili, che all'epoca popolavano questa zona.
Via Roma
L’antica via delle “furche” fu per secoli una stretta carreggiata in terra battuta per raccordare la valle dell’eco (o di Lecco), ora S. Antonio – via Margherita, con la fortezza, arrampicandosi tortuosamente a destra del roccione, che si estendeva dal promontorio, su cui fu poi edificato il Convento delle Clarisse, sino alla valle delle furche (ora via Roma). Il suo tracciato fu in parte quello dell’attuale via dei Cinquecento, che in alto raggiungeva la Porta della Cittadella, la più importante per traffico ed ampiezza. Percorrendo tale strada alla fine del’400, il re Ferdinando d’Aragona poté visitare la fortezza. Solo a fine quattrocento, in occasione della edificazione del ponte Canale, la via delle furche si allungò verso l’alto della vallata, ma il raccordo col Cozzo dì Cirria, poi Acquanova, fu realizzato molto più tardi, quando furono colmate numerose fenditure esistenti nel fosso dei Mizzoteri. La via delle furche fu ampliata, sempre con l’impiego degli ebrei della locale Giudecca, che all’epoca detenevano anche il monopolio dell’artigianato edile, a fine 400, durante i lavori di ampliamento e ristrutturazione della fortezza. Quando il Poverello di Paola venne a Corigliano, poté raggiungere il sito dell’attuale Chiesa di S. Francesco, percorrendo lo stretto sentiero della via dell’Ospizio, che collegava la via delle Furche con l’Ospedaletto dei Monaci Basiliani, sui poi fu edificato il palazzo Marino. Lo sviluppo edilizio lungo questa stradina, che subito dopo assunse la denominazione di via Nova, ebbe un primo impulso a fine Settecento, così come poté annotare l’inglese Henry Swinburne nel suo sofferto soggiorno a Corigliano. Tra il Ponte Canale e l’imbocco della Via dell’Ospizio, nel 1797 si insediarono i primi tessitori tarantini della felpa, che chiusero non avendo potuto risolvere le difficoltà della tintura dei filati. Le botteghe riaprirono nel 1887 con i tessitori coriglianesi Bonafede, Celeste e Quinto protagonisti molto apprezzati all’esposizione di Cosenza. Nel 1859 il sindaco Luigi Carusi riprese la relazione redatta dall’ing. Durante e dall’arch. Batholini, col progetto dell’ing. Banchieri, ed ottenne finalmente il finanziamento per la selciatura del primo tratto inferiore. Nel 1871, dopo la Breccia di Porta Pia, col sindaco Luigi Lettieri, assunse il nome di via Roma. Nel 1879, il sindaco f.f. Luigi Garetti, poté completare il secondo lotto della selciatura con la messa in opera di due file di lastre parallele di pietra, al centro della strada, secondo le indicazioni del progetto dell’ìng. G.B. Rezia. Nel 1907, con la ferma determinazione del sindaco Vincenzo Fino, fu finalmente completata la contestata demolizione delle case, che sporgevano su via Roma dal lato del fosso Bianchi. Per risolvere la sopraelevazione della strada e ridurre le forte pendenza nella parte apicale dell’Acquanova. ci vollero oltre 70 anni, sino al 1932.
L’Ariella
Su questa collina, per secoli, signoreggiava un grande bosco di cerri di proprietà dei Padri Basiliani del Pathire, che, da novembre a marzo-aprile di ogni anno, venivano a svernare nel vicino piccolo convento adiacente alla cappella di S. Maria della Jacina. In alto, sulla cima del Cozzo del Vernuccio, alla fine del 400 i padri Basiliani costruirono un piccolo convento- ospedaletto, che chiuse durante la grave recessione anzitutto amministrativa e finanziaria dell’Abbazia del Pathire, quando furono dismesse molte delle sue proprietà terriere. L’Ariella non rientrò nei primi lotti delle dismissioni, perché i terreni circostanti avevano un buon indice di valorizzazione agricola e quindi garantivano una discreta rendita proveniente dagli uliveti, dai vigneti e dai Jardini, che si estendevano sino al torrente Coriglianeto. Ai piedi dell’Ariella serpeggiava la carreggiata della strada di Lecco verso Rossano, mentre la Cappella della Jacina ed il Convento dei Cappuccini erano collegati con semplici mulattiere. La Badia, costruita nel Seicento accanto alla chiesa di S. Luca sul Serratore, divenne la residenza dei Basiliani più culturalmente evoluti e la piccola residenza della Jacina fu riservata ai monaci meno alfabetizzati, che si interessavano in prevalenza della gestione economica di alcune piccole aziende sopravvissute alle folli vendite del grande patrimonio terriero dell’Abbazia. Sul pianoro dell’Ariella, questi monaci organizzarono per decenni nel mese di maggio grandi ed assortiti banchetti di ringraziamento alla presenza dei loro benefattori e dei fattori delle loro aziende. Tra le specialità gastronomiche primeggiarono sempre il pollo arrotolato nella creta e cotto alla brace su mattoni di terracotta ed il cinghiale del Pathire di pochi mesi arrostito in una capanna di rami secchi con legno di ulivo e rami resinosi di pino per insaporire la carne con l’affumicazione. Altra ineguagliabile leccornia le forme di formaggio pecorino, che venivano forate all’interno per poi inserire frammenti di ricotta affumicata. Il vino rosso era quello frizzante di Viscano della Jacina ed alla fine, dopo ore di abbuffate, i monaci servivano ciotole di tisane fatte con le loro erbe digestive del Pathire. La tradizione di queste pietanze fu apprezzata e continuata dai buongustai coriglianesi proprio in occasione del primo maggio e sempre all’Ariella. Tra gli appassionati di questi “incontri gastronomici” anche il prof. Francesco Maradea e Vincenzo Zampini.
La maccaroniera
Il progetto andava avanti da almeno tre anni, ma solo nel 1882 prese corpo ed il laboratorio per la produzione di pasta fresca, ed in prevalenza di maccaroni, nell'androne di via Roma, sotto via dei Cinquecento, dove ora c'è il fioraio. L'inaugurazione fu celebrata in una domenica di aprile alla presenza del Sindaco, Avv. Francesco Meligeni e di molti invitati, tra cui il neo proprietario de “Il Popolano”, Francesco Dragosei, l'ing. Antonio Palma, Ruggiero Graziani, Luigi Lettieri, l'Avv. Francesco De Rosis, Luigi Garetti, Giuseppe Amato (autore della Cronistoria di Corigliano), Francesco De Vulcanis e Pasquale Garetti. Dopo il breve discorso augurale del Sindaco, con la colonna sonora interpretata dalla Banda Musicale diretta dal Maestro Luigi Ferrari, furono offerte squisite ciambelline con marmellata di more selvatiche ed orecchiette di ricotta alla padella con abbondante rosolio fatto in casa. Dopo due mesi le vendite subirono una forte flessione e fu deciso di chiudere dal lunedì al venerdì, visto che le vendite più attive si verificavano proprio nei due giorni di sabato e di domenica. La neo Banca Nazionale di Cosenza, con sede in via Castelluccio (Via P. Umberto), che aveva concesso un prestito di 1.500 lire con l'interesse annuo del 14%, si allertò quando seppe della chiusura del piccolo pastificio per diversi giorni della settimana e reclamò il puntuale versamento delle rate mensili. Si rese necessaria l'intercessione dell'Avv. Francesco De Rosis per allentare la morsa delle scadenze. A fine gennaio 1883, fu licenziato uno dei due dipendenti e, quando nel mese di marzo si ruppe il cilindro di bronzo per la produzione di maccaroni, la pasta più venduta, il pastificio chiuse i battenti con un deficit di circa 1.720 lire. Nel 1884, le piccole attrezzature furono acquistate da un certo Spizzirri, che, nello stesso locale, installò la "Caffetteria di Via Roma" col programma ambizioso di produrre biscotteria con grano duro ed orzo. L'iniziativa si concluse ingloriosamente l'anno dopo e la Caffetteria si trasformò in Osteria specializzata nella vendita di vino bianco di Rocca Imperiale. Quando, lo Spizzirri, nel 1887, si rese conto che nemmeno l'osteria tirava, fu folgorato da una "brillante" idea e, detto fatto, trasformò il locale in una " stalla a noleggio" . E fece affari d'oro incassando ben 10 lire al mese per ogni cavallo ospite, a cui assicurava il fieno notturno e la sua consegna la mattina sotto il portone del proprietario (nel 1886 risultarono scomparsi per sempre ben sette cavalli). Con la "stalla a noleggio" non ci furono più furti di cavalli e qualcuno non rinunciò a pensare che lo Spizzirri, che vantava certe frequentazioni ai Pignatari, qualcosa doveva saperla.
Dal blog di Giacinto Casciaro (www.ilcoriglianese.it) altri racconti del prof. Franzè
1913 scandalo alla Marina, tredici donne in costume da bagno
Nel 1913 fu registrato un certo fervore a Corigliano con l'arrivo di alcuni funzionari del Regio Catasto provinciale di Cosenza, impegnati nella stesura di nuove mappe catastali.
Inoltre, soggiornavano in città due funzionari del Genio Civile addetti alla direzione dei lavori di costruzione del nuovo ponte sul Coriglianeto. Nella seconda decade del mese di luglio, le famiglie di questi funzionari si ricongiunsero alla Schiavonea, in alcuni alloggi molto modesti adiacenti alla Regia Delegazione del porto. La loro aspirazione era quella di rimanere nel Centro Storico, ma i gestori del nuovissimo servizio auto a noleggio, con chaffeur il tarantino Aldo Fiscella, non aveva ancora potuto installare all'interno della vettura Fiat la pare divisoria, con vetro retinato opaco, tra posti maschili e femminili. Perdippiù, il servizio partiva dal ponte Margherita, non volendo guadare il torrente con le fiammanti ruote di gomma piena nell'acqua (all'epoca, la carreggiata della strada della Chiubica costeggiava la riva sinistra del torrente, senza argini, con avvallamenti e numerose pozzanghere, sino all'incrocio con l'attuale SS.106). Le figlie di questi villeggianti, tra i 14 ed i 25 anni, erano tredici e tutte carine ed abbastanza civettuole e molto temerarie. Infatti, in una bella domenica di luglio sfilarono lungo la battigia con i loro costumi audaci. Le "sfacciate" (parole del sacerdote durante la Messa) esibivano i polpacci delle gambe, denudate dai lunghi mutandoni di lana scura che, pur aderendo, arrivano sotto le ginocchia. Inoltre, mettevano in mostra un bel po' di spalle, che fuoriuscivano dalla pesante canottiera di lana a fasce bianche. A guardare la disinvoltura di queste ammalianti ragazze, accorse gente di tutte le età e nel pomeriggio scese dal Paese un folto numero di giovanotti, tra cui Vincenzo Tieri e gli adolescenti Marcello Cimino e Giordano Bruno, poi medici. Già negli anni precedenti, quattro attricette della Compagnia Nuovo Teatro, non potendo esibirsi al "Principe di Piemonte", a causa del cedimento di una parte del tetto, si erano consolate villeggiando alla Schiavonea e mostrando, durante il bagno, persino qualche ginocchio. La prima donna a scandalizzare la gente della Marina di Schiavonea, era stata l'ostetrica Elvira Pazzi, poi sposata Cimino. Infatti, infrangendo ogni regola, aveva osato fare il bagno, non col tradizionale camicione di tela sino ai piedi, ma con un costume di lana, che, aderendo, lasciava intravedere le forme del corpo. Per esortare le avvenenti cosentine ad essere più morigerate, dovette intervenire il Delegato di Porto, Vito Rota, purtroppo senza alcun risultato, perché le ragazze, il giorno dopo, si esibirono persino in tuffi dall'alto di una barca. Un "privilegio", questo, che sino ad allora era stato soltanto appannaggio dei maschi.
La Fiera di santa Lucia
Sino a metà Settecento, sopravvivevano ancora alcuni ruderi della piccola Cappella di Santa Lucia nella contrada omonima. Il Clero di S, Maria Maggiore si attivò più volte per salvare la Cappella dal degrado ed attorno al 1720 si era resa promotrice della raccolta di oboli per porre mano a ristrutturazioni e restauri. Fu installata all'ingresso della Cappella una cassetta in ferro, solidamente murata, ma, dopo qualche mese, fu asportata e trafugata da ignoti e sacrileghi ladri. Poi l'inarrestabile degrado, ma sino a fine ai primi del Novecento, su un muretto superstite, c'era una grande icona di S. Lucia poggiata su una mensola di pietre, dove i devoti accendevano candele e lumini. Sullo spiazzo, che circondava l'antica Cappella, ogni anno, il 13 dicembre, aveva luogo la Fiera di S. Lucia e gli acquirenti scendevano a frotte per comprare un gallo ruspante, i fichi secchi, le castagne cotte al forno e le forme di pecorino affumicato di Acri. (Molto fiorente la vendita - per la felicità dei bambini - delle triadi di uova fresche di gallina, dipinte con i tre colori della bandiera italiana e dei cavallini rampanti di caciocavallo secco). Nel mese di dicembre del 1906, l'Avv. Gaetano Attanasio, Sindaco della città ed ormai destinato a cedere il posto all'emergente Avv. Vincenzo Fino, ospitò il suo amico Cav. Giovanni D'Aloe, già Regio Commissario al Comune sino al mese di maggio dello stesso anno, ed insieme, in carrozza, scesero alla Fiera ed il Cavaliere fece molteplici acquisti esprimendo grandi apprezzamenti per la qualità delle leccornie in vendite. A fare la parte del leone nelle vendite fu sempre il gallo ruspante, perché, i devoti, per propiziarsi le grazie della Santa ed essere protetti nella tutela della vista, dopo il cenone con le " tredici cose" della vigilia, si usava organizzare il Pranzo di Santa Lucia, la domenica successiva. La pietanza regina era a base di carne disossata di gallo alla brace, con contorno di patatine d'annata cotte nella cenere calda ed irrorate con olio aromatico. Immancabile il vino rosso autoprodotto, già spillato la sera della Vigilia, anche se ancora non molto chiarificato, a causa della feccia volatile. Si formò, così, la dizione della "Festa del Gallo", che coinvolgeva tutte le famiglie coriglianesi, a prescindere dal reddito, perché i più poveri il gallo lo allevano in casa.
L'Acquanova
Sino al 1400 era ancora il Largo di Cirria, uno spiazzo ai piedi del Cozzo di Cirria, la collinetta dietro il vecchio edifico del Corpo della Guardie Municipali. Situato ai piedi delle antiche Mura, tra le due Torri del Castelluccio e della Cittadella, era collegato con la porta principale della Cittadella per mezzo di un sentiero molto ondulato, che serpeggiava ai piedi del "Roccione", su cui poi fu costruito il grande Convento delle Clarisse, ed in parallelo con la via delle Furche (Via Roma).
Attorno al 1450, sulle Mura fu aperta una breccia, forse di origine dolosa, ed il Largo della Cirria assunse una funzione importante, perché divenne il punto di scarico del materiale edilizio destinato allo sviluppo dei quartieri interni e gli Ebrei della nostra Giudecca monopolizzarono anche questa attività. Dopo l'arrivo del Poverello di Paola nel 1476, sul Largo fu installata la prima fontana con la sorgente di Migliuri individuata dal Santo e per alcuni decenni fu l'unico approvvigionamento per gli abitanti del Centro dentro le Mura. Il Largo fu collegato con la strada della SS. Trinità alla chiesetta omonimo, poi S. Francesco, seguendo, nel bosco di cerri, l'attuale carreggiata di corso Garibaldi. La piccola strada che lo collegava alla Porta di Soccorso (Portella) era conosciuta col nome di Cola Croce (Via G. Garopoli). Durante i lavori di costruzione del Ponte Canale, i Mizzoteri, proprietari del terreno, sul Largo aprirono la prima bottega di generi alimentari fuori Le Mura. Nel Settecento, il livello del fosso dei Mizzoteri (Poi Fosso Bianchi), che si estendeva dal Roccione al Cozzo del Vernuccio, fu elevato con numerose colmature di terra, ma l'avvallamento rimase sempre profondo. Nei primi anni dell'800, i duchi Saluzzo fecero ubicare la celebre vasca di "Ciccio dell'Acquanova", un vezzoso puttino in marmo col suo… in funzione di zampillo, Ai piedi del Cozzo furono installate tre fontane con i rubinetti in bronzo pesante, alimentate da una vicina cisterna. Dopo il 1815, il Largo fu impreziosito con la costruzione del Palazzotto Carusi con ingresso dall'attuale via XXIV Maggio. Il lotto più grande e più sontuoso fu costruito più tardi dai figli di Domenico, Luigi ed Orazio Carusi. Nel 1838-40 fu costruito " Il Minzullo ", la misura pubblica, all'angolo dell'attuale Palazzo Oranges (Via G.Garopoli), poi demolito nel 1906 con le muove leggi su Pesi e Misure. Nel 1845 fu trasferito dal Casalicchio al Largo dell'Acquanova la sede delle Guardie Municipali, al posto della vecchia Locanda e della cisterna delle fontane. Nel 1848 il Largo fu funestato dall'esposizione delle teste mozzate, per ordine dei Borbonici locali, dei tre fratelli Grisafi, Francesco, Antonio e Giuseppe, di idee liberali. Nel 1853 fu installato il primo Fanale ad olio e nel 1862 aprì i battenti la Caffetteria di Luigi Mistico, frequentata anche dal giovane nobile Alessandro De Rosis, poi rapito, con riscatto, per ordine del brigante D. Palma Straface. Nel 1891, il piccolo albergo LA STELLA divenne l'ALBERGO del RISORGIMENTO gestito da Domenico Bruno.
L'antico largo del muro rotto
Dove ora sorge, da anni, il Casino d’Unione, ai piedi del Castello Aragonese, sopravvisse un antico muro di pietra e calce, che aveva fatto da supporto alla piccola arteria in terra battuta, che collegava la Porta della Cittadella al primo Ponte Levatoio della Fortezza, costeggiando il fossato.
Ai piedi del muro si stendeva uno spiazzo, all’apice del grande Roccione (Sito Convento Clarisse). Già dal 1300 il largo era il posto di incontro dei giovani ed anche dei contadini e dei mercanti, che, ogni domenica mattina, vendevano o barattavano le loro derrate e le loro mercanzie. Poi, lo sterrato fu fatto livellare dalla Civica Università, quando il Largo del Muro Rotto divenne la sede per le periodiche riunioni all’aperto del “Parlamentino”. A queste Assemblee popolari partecipano in molti, ma gli interventi orali sulle problematiche della comunità si contavano sulle dita. Infatti, dal 1436 le assemblee divennero più rare ed il Largo del Muro Rotto divenne la sede dove, sino al 1440 fu accumulato tutto il materiale per la costruzione della nuova Chiesa di S. Pietro, con finanziamento del Conte Antonio Sanseverino. Con la nuova Chiesa, il Largo assunse una nuova valenza comunitaria. Fu intensificato il piccolo commercio domenicale con piccole fiere ed i fedeli, all’uscita dalla Messa, si soffermavano per fare acquisti. Poi, il lento ed inesorabile degrado del Largo, che si accentuò quando, caduto un largo frammento del Muro di Cinta, assunse un ruolo primario il Largo di Cirria (Acquanova), collegato con l’esterno tramite l’antica strada delle Furche. Il Muro Rotto divenne il luogo di incontro dei malavitosi, dove spesso si davano appuntamento per duelli rusticani, che, nel primo cinquantennio del Cinquecento, produssero 670 ferimenti gravi ed oltre 200 morti ammazzati. La situazione di profonda precarietà del Largo si protrasse per secoli, sino alla seconda metà dell’Ottocento, quando fu data la stura alla edificazione di bei Palazzi. Il rione fu socialmente bonificato per acquisire un ruolo di agglomerato riservato alle famiglie dei notabili e dei nobili. Dal 1930 divenne Piazzetta “Guido Compagna” a ricordo di un illustre Concittadino, che, prima di morire prematuramente, aveva elargito una cospicua somma per la realizzazione dell’Ospedale, col restauro dell’antico Convento dei Cappuccini, ponendo fine ai verbosi dibattiti, che sul nosocomio duravano da almeno due secoli.
Il castello di San Mauro
Fu il principe Bernardino Sanseverino, ansioso di possedere una degna residenza nel territorio di Corigliano, ad intraprendere, i lavori per la costruzione, nel 1513, del primo lotto della fortezza rurale di Santo Mauro, incoraggiato dal fatto che sul posto era possibile reperire il materiale edile tra i ruderi dell’antico agglomerato di Sancto Mauro devastato dai Saraceni.
Dopo due anni, i lavori furono interrotti a causa dell’irriducibile gravame debitorio che affliggeva Casa Sanseverino ed anche in seguito alla morte del Principe, avvenuta nel 1517. I lavori furono poi ripresi e completati dal figlio Pietro Antonio, il quale, per ricordare l’impegno del padre, Principe di Bisignano e Conte di Corigliano, fece installare un marmo con la scritta” BERNARD. SANSEV. BIS PRINC. I DOMUM HANC A FUNDAMENTIS I EXTRUXIT AN. SALUTIS MDXV”.
Il principe Piero Antonio Sanseverino militò nelle file dell’esercito spagnolo e si distinse nella battaglia di Tunisi del 1535 accanto all’imperatore Carlo V incoronato re d’Italia ed imperatore del Sacro Romano Impero nel 1530 dal papa Clemente VI. Dopo il successo conseguito in Tunisia, Carlo V, nel mese di luglio, intraprese un lungo viaggio per rendere omaggio ai suoi autorevoli sostenitori. Dopo le prime visite di Sinopoli, Nicastro, Martirano, Carpanzano e Rogliano, l’imperatore, il 7 novembre, raggiunse Cosenza, ospite di Gaspare Sarsale, con una fastosa accoglienza da mille e una notte. Dopo la Messa in Cattedrale e dopo una breve visita a Bisignano, il 9 novembre 1535, l’imperatore giunse al castello S.Mauro, accolto entusiastica mente dal principe, Pietro Antonio e il 10 Novembre Carlo V ed il suo entourage si recarono alla foresta di Polinara (Apollinara) per la caccia al cinghiale, la cui carne primeggiò nel pantacruelico pranzo delle due del pomeriggio, presso il castello. Nel fervore dei brindisi ed inebriato dalla sontuosità dell’accoglienza, l’imperatore, rivolgendosi al padrone di casa, chiese: “Prince, vos es el rey o el prince di Coriliano?“. L’imperatore lasciò nella nottata del 12-13 novembre e, qualche mese dopo, ordinò il dissequestro di molti beni di casa Sanseverino. Nel 1650, il duca Agostino Il Saluzzo, nuovo feudatario, aveva progettato di utilizzare il Castello S.Mauro come sua residenza, non essendo la fortezza abitale, ma rinunciò a tale aspirazione, quando dai preventivi attinse che la spesa totale era molto cospicua, in quanto dovevano essere completamente rifatti alcuni muri portanti erosi dal tempo e dall’incuria. (Il prof. Francesco Maradea propose di ubicare nel castello la sede di un museo del lavoro agricolo, ma, evidentemente, senza audience).
Il Fondaco piazza salotto
Fu per anni “ Piazzetta S. Maria” e si estendeva dal fossato della Fortezza alla chiesa di Santa Maria della Piazza. Poi, divenne la” Piazza dei Fondachieri” per diventare ”Il Fondaco” e “Piazza Cavour” solo nel 1869-70 (Fu conosciuta anche come ”Il Largo di Sotto Castello”). (L’angusta stradina di collegamento della piazzetta con la Giudecca ed il rione S. Nicola e S. Martino, ebbe denominazioni diverse: fu prima la “Strada del Serratore”, poi di Santa Maria, della Badia sino all’ultima intitolazione di “via Antonio Toscano”). La piazzetta, mentre il largo dell’Acquanova assumeva un ruolo commerciale e popolare, si caratterizzò come centro vitale e centro direzione. Nel 1510, la piazza, già contornata da bei palazzi dei notabili del luogo, fu impreziosita con l’installazione di due fontane in bronzo, poi, in seguito, alimentate da una cisterna ubicata in un fabbricato adiacente. Fu nello stesso periodo che furono potenziati gli uffici del Fondaco gestiti dal Sergreto, dal Credenziere, dal Fondachiere e dal Cassiere. Nell’ambito del nuovo assetto istituzionale, a Corigliano furono assegnati gli uffici dell’Erario, del Cambrerlengo (Riscossione delle “Composte.. tanto in denaro come in vittuvaglie..” e del Conservatore per “conservare in suo potere tutti li grani, vittuvaglie e qualsivoglia robba”. Dopo reiterate sollecitazioni del Viceré Manuel de Guzman, la Civica Università dovette procedere alla localizzazione di una adeguata sede per i Funzionari del Governo. Fu nel 1634 che il sindaco Lorenzo De Rosis stipulò il contratto di fitto con Niccolò Macrino per alcuni locali adiacenti alla Piazzetta. L’8 ottobre del 1740, la Camera Ducale si aggiudicò l’appalto della fornitura della farina per la panificazione ed il giorno dopo diverse centinaia di popolane inscenarono una tumultuosa protesta contro tale provvedimento voluto dal Duca Agostino III Saluzzo. Fu la prima, grande manifestazione pubblica del Fondaco. Nel primo decennio dell’800, al Fondaco aprì i battenti il lussuoso salone da barba e capelli di mastro Andrea molto frequentato dai galantuomini coriglianesi, che vi sostavano a lungo, specie di domenica mattina, per godersi il passaggio delle ragazze del rione che si recavano a Messa. Nei locali di terra di Palazzo Morgia, accanto al salone, una Tabaccheria specializzata nella vendita di sigari cubani e di tabacchi in polvere delle migliori marche. Dal 1880, si allineò una modesta tipografia, che, due anni dopo, fu acquisita ed ampliata da Francesco Dragosei per la stampa de “Il Popolano”.
La SS 106 - La traiana degli antichi romani
Dall’8 d.C. con Ottaviano imperatore, anche la pianura del Crati divenne parte integrante della dodicesima Provincia di Roma, proprio quando questo territorio da anni era ormai egemonizzato da migliaia di veterani romani trasformatisi in abilissimi agricoltori ed allevatori di cavalli.La pianura del Crati, ed in particolare nel triangolo Cantinella -Schiavonea - Stazione, dove già erano state attuate opere di bonifica, sorsero le ville, piccoli agglomerati attrezzati per una agricoltura avanzata. Quando Traiano nel 98 divenne imperatore di Roma fece realizzare anche la nuova strada jonica Taranto - Reggio Cal., conosciuta con il nome di “La Traiana”, per collegarla a nord con la Benevento – Brindisi (all’epoca, la Calabria era attraversata soltanto dalla Popilia sul versante tirrenico). Tra il 112 ed il 113, lungo la nuova arteria jonica, furono realizzate le “stazioni” di Thurii, Vicesimum -Trebisacce e di Ruskia - Rossano, in considerazione dell’enorme sviluppo economico della pianura del Crati. Anche l’imperatore Adriano (117- 138), sollecitato dai Romani della pianura del Crati, finanziò la riattivazione del porto di Thurio, poi con collegato con La Traiaba, per agevolare l’esportazione di cavalli, olio e vino. Nel 401 Alarico, re dei Visigoti, in marcia verso l’Africa lungo la via Popilia, fu fermato a Reggio e costretto alla ritirata lungo La Traiana jonica. Giunto a Thurio, prima di avviarsi verso Cosenza, Alarico ordinò un capillare rastrellamento di viveri e foraggi. Nel 456, i Vandali, dopo le stragi di Cosenza, invasero la Pianura del Crati e, dopo avere accumulato anche loro ricchi approvvigionamenti, si avviarono verso sud percorrendo la Traiana. Nel 555, i Goti del re Titila inflissero una sonora sconfitta ai Bizantini di Belisario, che dovette arretrare lungo la Traiana, prima verso Crotone e poi verso Messina. Attorno al 571, la Traiana fu amministrata da Longobardi e Bizantini, perché il territorio a nord dell’attuale torrente S. Mauro fece parte della Longobardia, mentre la parte meridionale fece parte della Romània bizantina. Dall’ 827, la Traiana fu percorsa per anni dalle orde saracene, che, sbarcati dalle loro navi, si abbandonavano a devastazioni e ruberie, donne comprese, sino a costringere i Mauresi ad abbandonare la pianura del Crati per rifugiarsi in collina e fondare il casale di Corigliano. Dopo secoli di black-out e dopo il 1806, anno delle stragi francesi a Corigliano, l’antica litoranea jonica, per decisione di re Giuseppe Bonaparte, fu ammodernata, anche con nuovi tracciati, ed assunse il nome di “La Napoleonica”, per diventare, molto più tardi, la SS.106, passando anche per Corigliano lungo l’attuale via Margherita.
Schiavonea - Partono i velieri dal Porticciolo della Taverna.
Dal 1472 Girolamo Sanseverino, Conte di Corigliano e Principe di Bisignano, volle dare impulso alle innovazioni gestionali mirate ad incrementare le produzioni agricole, specie nelle terre di Marina del Cupo, ritenute le più idonee nel contesto delle modalità del decollo generale (i suoi successi imprenditoriali si materializzarono subito quando, nel 1483, si aggiudicò la gabella della seta). Dal 1474 potenziò la coltivazione della canna da zucchero e nelle stesse terre della Marina ripristinò il “trappeto de lo zucchero” per la produzione della cannamella, poi esposta con successo alla Fiera di Lanciano. All’approdo della Marina, posto alla foce del Coriglianeto, dove ora sorge lo stella Madonnina, furono ormeggiati alcuni velieri in navigazione verso la Liguria e qui, nel 1475 riempirono le stive di grano, pagato ad 11 grana al tomolo, e di cannamella. (La Marina del Cupo era già un piccolo villaggio di pescatori ed infatti, in questo periodo, “tucti quelli che nce volessero tenere barche da pesca pagassero sey ducati l’anno per barca”. Una imposta che fu ritenuta dagli stessi pescatori contraria ad “bene mores et pragmatiche”. Con l’avvento dei Saluzzo, nel 1638 i velieri buttarono le ancore all’ “approdo della Taverna”, e, dopo 45 giorni di intensi trasporti, ripartirono verso Genova e Livorno con un carico di 12 mila tomoli di grano su commissione di Bartolomeo d’Aquino. All’inizio del Settecento, approdarono al porticciolo in legno della Taverna altri velieri liguri, reduci dall’Egitto, ma poterono stivare poco grano, a causa del forte decremento di produzione da vero crollo nel 1697-98. Invece, nel 1743, i velieri genovesi e livornesi poterono caricare 10 mila tomoli di grano, pagato a 110 grana al tomolo, e mille di avena. L’andirivieni dei velieri si protrasse, con intervalli più o meno lunghi, sino al 1898 quando, il grande e prestigioso veliero “Esperia” reduce dal mare Egeo, buttò le ancore alla “Schiavonia” col progetto di acquistare olio. Ripartì verso Trieste dopo avere appreso che i serbatoi delle due grandi Pile erano al secco da alcuni anni. Le aziende di Casa Compagna, col trasferimento del barone Francesco a Napoli, erano in piena crisi e la loro gestione veniva garantita solo dai fattori, che avevano l’unico interesse di svalorizzarle, per poterle poi acquistare a prezzi stracciati.
I conci della liquirizia
Fu nel 1715 che aprì i battenti il nuovo Concio di Lo Cino per la produzione della pasta di liquirizia.
Infatti, già da tempo, il duca Agostino III Saluzzi coltivava l’ambizioso disegno di realizzare un impianto agro-industriale nel suo grande feudo ed il suo ottimismo fu legittimato dall’immediata affermazione della pasta di liquirizia, anzitutto nel nord Italia (Venezia in particolare), per cui furono fatti ulteriori investimenti, specie dopo il 1737, per introdurre nuove tecnologie ed incrementare la produzione in piena sintonia col trend ascensionale della domanda. Dopo il suo arrivo a Napoli in data 6 gennaio 1768, Giovanni Attilio Arnolfini, autorevole esperto di idrografia, il 19 aprile giunse a Corigliano ed il giorno dopo si recò al Concio della Lucina (Cino) ed annotò che la radice “si lava con acqua, si macina come le olive, si cuoce con acqua in una grande caldaia per ore otto, si spreme e si raccoglie il sugo; detto sugo si ricuoce per ore 24 e si forma una pasta molle, nera e simile alla cioccolata...” Giacomo II Saluzzo, duca di Corigliano dal 1747, che già aveva dato un notevole impulso allo sviluppo delle sue aziende con la costruzione della Taverna alla Schiavonea e della fabbrica dei panni al Carmine, aumentò del 18%, con nuovi investimenti, la produzione della pasta di liquirizia. I Solazzi, attorno al 1770, realizzarono il Concio di Pendino, che ebbe uno sviluppo molto scialbo, a causa delle apparecchiature obsolete e lente. Cesare Malpighi dopo avere visitato il Concio dei Saluzzo, scrisse che “in vasta sala terrena v’ha la macina, lo strettojo e sopra un fuoco ardente delle immense caldaje. Nel piano superiore v’ha stanze con scaffali e altre dove stanno moltissime donzelle ... Si comincia per macinare la radice: così stritolata si pone a bollire; ridotta molle e cedevole si pone allo strettojo e si raccoglie il succo... .questo succo gettato nella caldaia si restringe finché non diventa pasta; così ridotta passa nelle mani delle donne che la tagliano in pezzi, li attondiscono, loro danno il lucido bagnando con le mani nell’acqua, e sopra ognuno imprimono il suggello della Casa..” Nel 1873, i Conci coriglianesi erano quattro e due di questi, dopo i cospicui investimenti decisi dal barone Luigi Compagna, vantavano impianti d’avanguardia. (Le nuove caldaie avevano un doppio fondo in rame, per cui furono abbassati di molto i tempi di ebollizione. I cilindri per la spremitura sostituirono le vecchie strettoie). Da qui il raddoppio dell’occupazione. Con la morte prematura del barone Luigi Compagna, i Conci entrarono nel tunnel di una crisi irreversibile.
“Le Coiffeur de Homme” di Sopralarco
Mastro Salvatore aveva raggiunto lo zio a Parigi nel 1896, quando aveva solo 16 anni, e subito fu assunto con la qualifica di garcon in un grande Salone da Barba con ben 12 sedie girevoli perfettamente allineate davanti a spicchi con decorazioni in bronzo e legno di noce.
Dopo essersi ottimamente qualificato e dopo avere accumulato un discreto risparmio, ritornò a Corigliano nel 1911, portandosi dietro alcuni colli molto ingombranti. Restauro, con cospicui investimenti, un locale a due piani, sul Cozzo del Vernuccio, dove la stradina, ora Luigi Cadorna, si incurva quasi ad angolo retto, a circa venti metri dal Ponte Canale. Al piano di sotto, il Salone con tre sedie portate dalla Francia ed un grande specchio con cornice metallica in oro vecchio. La finestra a due battenti faceva da accesso ad un terrazzino pavimentato con cotto ed attorniato da aiuole con rose rosse. Al piano di sopra, allo stesso livello della strada, il Salotto di attesa con divanetti e poltroncine in vimini. Dal soffitto ciondolava un lampadario con tre luci elettriche e due a petrolio, visto che l’erogazione dell’energia elettrica era congenitamente sempre intermittente. In un angolo un piccolo e decoroso bagnetto (Il Cav. Bennate, Regio Delegato di Pubblica Sicurezza ed il barone Labonia di Rossano asserivano spesso che in tutta la provincia di Cosenza nessuno poteva vantare un Salone più bello ed accogliente del “Le Coiffeur de Homme”, la cui grande targa torreggiava sulla parete prospiciente al Ponte Canale). Fu subito un successo e tra i clienti gli avvocati Costantino Tocci, Gaetano Attanasio e Francesco Spezzano, i medici Cimino e Fiore, gli inseparabili Salvatore Grillo e Giuseppe Geraci (Nonno dell’omonimo Deputato). Ruggero Graziani, i due neo farmacisti Milano e Cavalieri, Vincenzo Tieri, Vincenzo Gallina, presidente della Società Operaia, e molti altri. Tra i clienti anche il rev. Francesco Stefano, Prevosto della Chiesa di San Pietro, il cui insediamento era stato fortemente contestato in aprile dai fedeli della Parrocchia, che non gradivano un forestiero a capo della loro chiesa. Quando in agosto, sempre del 1911 Francesco Dragosei, dopo le peripezie tecniche del mese di febbraio ed aprile, per l’assenza di adeguati ventilatori, inaugurò il Cinema “Internazionale”, mastro Salvatore curò le capigliature di molti suoi clienti, invitati alla prima cinematografica, facendo i primi shampoo con asciugatura mediante cuffie riscaldate in un piccolo forno alimentato da un “Primus” inglese a petrolio e con fiammella accelerata dalla pressione di aria immessa nel marchingegno con una pompetta manuale. (Notizie riferite nel 1953 dal compianto dott. Michele Persiani).
L’apertura del Teatro Comunale
Già dal 1857, il Sindaco Luigi Caruso pensava alla realizzazione di un teatro, ma in Consiglio Comunale le sue idee furono considerate molto avveniristiche. Quando ritornò Sindaco nel 1862, riprese il suo progetto, ma fu il Regio Commissario Angelo Carosio ad iniziare i lavori del teatro con alcuni interventi di demolizione e di ristrutturazione nel vecchio Convento dei Riformati.
Anche se non ultimato, il teatro fu inaugurato nel 1894 dal Sindaco, dott. Antonio Cimino con la denominazione di “Teatro Principe di Piemonte”, in omaggio a Vittorio Emanuele, ospite a Corigliano dei Baroni Compagna nel 1891. Chiuso per lavori in corso, fu riaperto nel mese di febbraio del 1898 con la proiezione del primo film visto in città, ad iniziativa del cav. De Maria, ma la macchina si inceppò dopo pochi minuti in un coro costernato di fischi, che cessò quando, fuori programma, il giovane universitario Francesco Cavalieri si esibì cantando spiritosamente alcuni pezzi di operette. Nel successivo mese di aprile il teatro ospitò il primo spettacolo vero e proprio con la Compagnia Fagiano-Di Gennaro-Alterio. I camerini-spogliatoi furono finalmente ultimati nel 1900 e l’anno dopo il teatro registrò il pieno, anche se soltanto 32 avventori pagarono regolarmente il biglietto di ingresso di 10 soldi. L’attore Bragaglia della Compagnia Scacco fu spesso applaudito per le sue eccellenti perfomances sceniche. In dicembre (1901), al fine di bloccare la franchigia, fu firmato un contratto di autogestione con la Compagnia Delos-Rios e le famiglie degli attori si stabilirono in città. Per Natale furono allestite “La Cavalleria Rusticana” e la celebre macchietta di Scarpetta “Le pecore viziose” con una cinquantina di presenze (12 soldi a testa). Le cose andarono meglio con 75 presenze paganti nel mese di gennaio del 1902, quando andarono in scena “A Santa Lucia” di Salvatore Di Giacomo, “L’anello incantato”, “Santa Teresa” e “L’Otello”. Poi, i Delos-Rios, resisi conto di non potercela fare finanziariamente, lasciarono il teatro, che vivacchiò sino al 1905, ossia sino a quando non arrivò in città la Compagnia di Rocco Andreani, che interpretò l’esilarante ed eccentrico Pulcinella, accettando il 75% degli incassi. Da allora, le Compagnie napoletane ritennero poco gratificante la loro presenza a Corigliano e solo nel mese di luglio del 1909 i fratelli Carraro, con la “Fedora”, “Lucrezia Borgia”, “La Signora della Camelie”, “Il Padrone delle ferriere” e la “Tosca” riuscirono a segnare un grande record di incassi con una media di 60 presenze a spettacolo. Ma Francesco Dragosei era ormai molto demoralizzato e pensava a nuove alternative.
Preso atto della crisi ormai endemica del Teatro, asfissiato dagli scarsi introiti e dall’impossibilità del Comune di erogare contributi di sostegno, Francesco Dragosei, nel mese di giugno del 1910, si recò a Napoli per vedere una macchina cinematografica francese
e, dopo avere avuto particolari sulla spesa totale e sulle modalità di acquisto, ritornò dai gestori del Cinematografo “Oreon” per formalizzare l’intesa sul noleggio delle pellicole, ma l’accordo si arenò quando i napoletani chiesero una cauzione di 7 mila lire (all’epoca, il Dragosei soffriva di una grave depressione finanziaria, accentuatasi con le spese del processo di Messina, quando fu assolto per avere ucciso la moglie). Nel mese di novembre, a Rossano aprì i battenti il Cinematografo “Roma” di Peppino Romano ed il Dragosei, che si era mosso in parallelo con l’amico rossanese, fu colto da un diffuso malessere anzitutto psichico. Pagata la prima rata di 800 lire, la macchina francese di proiezione giunse a Corigliano, senza il tubo di areazione e senza i ventilatori di dissipazione del calore. Con l’arrivo del tubo, scambiato dai curiosi per un cannone, il “Cinematografo Internazionale” fu aperto al pubblico il 25 agosto del 1911, ma, dopo pochi minuti, la macchina si bloccò per un eccesso di calore, che, fra l’altro, provocò lo svenimento della signorina Salatino. Completata l’installazione di tre ventilatori, ad opera del giovane coriglianese Alfonso Scarcella, nel mese di febbraio del 1912 furono proiettati “La Gerusalemme Liberata” e “La Caduta di Troia”, ma i maggiori incassi furono realizzati nelle tre domeniche successive, quanto, di mattina, furono riproposti i film per i giovani avventori, a 5 soldi a testa. Poi, a causa della mancanza di film, si pensò al rilancio del Teatro e nel 1913 i giovani Vincenzo Tieri, Fanelli, Perri e Magliocchi interpretarono “Il dovere del Medico” e “Partita a Scacchi”. “L’internazionale” si rifece vivo nel 1915 con i tre capolavori di F.Berini, ”Onestà che uccide”, “Principessa Straniera” e “Amazzona Mascherata”. Poi, Teatro e Cinematografo vennero chiusi sotto l’incalzare degli eventi della Prima Guerra Mondiale. Nel 1917, il Teatro cambiò denominazione e divenne “Teatro Trento e Trieste” e, per l’occasione, fu proiettato il film “Spartaco”. (in ottobre, Vincenzo Tieri, pur sapendo che il Teatro era ancora ufficialmente chiuso, volle portare in scena “Pietro Carusi” ed “Il Cantico delle Creature”, interrotte dalla contestazione delle donne, in maggioranze mogli di soldati in guerra). Nel mese di maggio del 1927, ebbe i natali il “Cine-Teatro V.Valente.
Luce ad intermittenza
Nel 1853, il sindaco Gennaro Bomparola si mise in testa che il look dell’Aquanova doveva essere esaltato con l’installazione di due fanali a petrolio.
Ci riuscì, nonostante le perplessità del Decurionato. Nel 1884 i fanali accesi erano cinquanta e la loro manutenzione fu affidata, mediante appalto, a Raffaele Pedatella. Emerse presto che il Comune, il cui bilancio era sempre dissanguato dalla gestione del Convitto “Garopoli”, non poteva garantire una spesa annua di 6 mila lire, dato l’alto costo del petrolio. Tre anni dopo, nel 1887, fu deciso di spegnere per due mesi 25 fanali e solo nel 1891 furono riattivati, in occasione della visita in città del Principe di Piemonte, Vittorio Emanuele. La neo impresa, con la titolarità di Antonio Cimino, convinse il Comune che era molto più economica l’energia elettrica, che lui stesso poteva erogare con l’attivazione di una idro-centralina, con macchinari della tedesca Lindemann, che l’ing. Schmeidrer stava già impiantando sulla riva del torrente Coriglianeto. Il contratto col Comune fu formalizzato in data 4 aprile 1895 e la sera del 12 giugno, 80 lampade di dieci candele illuminarono fiocamente strade e piazze di Corigliano. Firmarono 18 contratti di fornitura elettrica altrettanti utenti privati, che si ridussero ad 11 nel mese di settembre, in quanto l’erogazione elettrica era molto intermittente, con lunghe pause di black-out. Nel 1898 furono riattivati parecchi dei vecchi fanali e, al posto del petrolio molto costoso, fu usato un liquido oleoso e maleodorante, il “lentisco” o “scino”. Con strade e case al buio, si arrivò al 1907, quando il Comune, pur essendo moroso nei pagamenti dei ratei arretrati, decise unilateralmente di revocare il contratto con la ditta Cimino, ma, grazie all’arrivo dell’enologo coriglianese Raffaele Mazziotti, in un party nella nuova, elegante sede dell’impresa elettrica, tra un brindisi e l’altro, la controversia tra Comune ed impresa fu sciolta, con l’impegno, da parte della ditta, di una erogazione più razionale. Tutte le estati coriglianesi furono tormentate dalla mancanza di elettricità, in quanto le scarse acque del Coriglianeto venivano deviate a monte per la irrigazione di orti e piccoli agrumeti. Nel 1912, a conclusione della perizia D’Andreis, il contratto fu revocato e Corigliano rimase al buio per nove anni di seguito, anche a causa degli eventi bellici e nonostante l’esperienza con la ditta Garga. Solo nel 1921 il Regio Commissario De Stefano firmò il nuovo accordo con la ditta Fratelli Smurra di Rossano, al quale aderirono solo 17 utenti privati.