Racconti di autori vari
Accadde una volta
di Alessandro D’Agostino
Ho motivo di ritenere che non pochi Coriglianesi ricordino la figura del mio compianto Genitore(1), che tanto amava la sua Corigliano, come la amo io.
Egli aveva una nidiata di figli, ora – purtroppo – ridotta a due, più che altro per effetto della guerra: Skanderberg, che risiede a Firenze, ed io che mi trovo a Roma da molti anni.
Si era, se non erro, nel 1905, epoca in cui allo Scalo ferroviario vi era malaria grave, e tutto intorno, pozzanghere con gracidar di rane e zanzare “anofele” dovunque.
Il povero Papà era Capo di quella stazione e durante i mesi estivi, eravamo costretti – a causa dell’aria malsana a risiedere in paese, in una casa paterna, accanto al Municipio.
Orbene, dopo il servizio, mio Padre, di sera, se ne saliva in paese, con una vecchia ciuccia, che gli prestava massa “Linardo u Piangente”, attaccata ad un biroccino, sul quale egli portava spesso qualche provvista.
Allora ai “Pignatari” vi era il dazio consumo e tutte le volte che si transitava da lì, bisognava – per forza o per ragione – fermarsi e sentire la solita “lagna” del dazzaiolo che si presentava con una “stiletta” in mano, onde infilzarla all’occorrenza nei sacchi ripieni di grano od altro per sondare se nulla vi fosse nascosto, e costui replicava “Nulla di dazio?”.
Devo premettere che il povero Papà era un uomo piuttosto gioviale e scherzoso (c’è chi se lo ricorda), ed un giorno seccato di tale consueta, si propose di fare uno scherzo agli agenti daziari. Ed ecco come lo ideò: andò a trovare il macellaio “Mangiasuzo”, la cui beccheria si trova tuttora all’Acquanova e lo pregò di serbargli un paio di… rognoni bovini. Venutone in possesso, la sera con “Catrina” (così aveva nome la somara), attaccata come al solito al biroccio, salì. Questa volta io, ragazzetto, ero accanto a lui.
Pioveva e con “Catrina”, che andava quasi sempre a passo d’uomo, lascio immaginare quale non fosse il nostro disappunto, specialmente alla salita di “Turralongo” ed al noto girone in prossimità del paese, dopo di che si raggiungeva il dazio.
Neppure a farla apposta, a questo punto l’acqua aumentò; “Catrina” non ne poteva più, ma fu d’uopo fermarsi a quel punto. La solita richiesta: “Dazio?”. L’acqua veniva giù a rovesci e naturalmente non era agevole soffermarsi ivi per non pochi minuti. “Nulla di dazio?”, replicò l’agente. Vidi la smorfia di mio padre e la sua barba alla De Pretis che fece un sobbalzo. “Ho un paio di rognoni!”, rispose Egli col vivo della voce (alludeva alla fornitura del macellaio “Mangiasuzo”). “Bada come parlate”, si risentì l’agente. “Non è modo questo di parlare; io…”
“Ma io ho fretta”, replicò mio Padre; “mi bagno tutto; vi ripeto che ho un paio di rognoni!”. Al che svolse il fagotto e gli mostrò il contenuto!
Mormorio rabbioso, bestemmie, dispetto, mortificazione, che so io, dell’agente; sussiego scherzoso di papà. Io mi feci piccolo piccolo, ridendo anche.
E con un colpo secco di frusta sul groppone della bestia ed un “Ih! Ah!” e con una forza di incitamento a “Catrina” proseguimmo la strada.
(Skanderberg D'Agostino morirà il 6-1-1964, all'età di 69 anni, a Firenze - articolo presente sulla
seconda pagina del Cor Bonum n.1 del 1964)
(1) Il genitore si chiamava Vincenzo D'Agostino, capostazione di Corigliano. Nel 1898 veniva nominato Cavaliere della Corona d'Italia
Per altre notizie sulla famiglia De Agostino, vi suggerisco di leggere il Popolano n. 11 del 26 novembre 1906
Il Cav. Vincenzo D'Agostino presterà servizo a Corigliano come Capostazione fino alla metà del 1910, poi prenderà servizio alla Stazione Ferroviaria di Crucoli. A Corigliano gli subentrerà il sig. Enrico Talamo.
UNA GIORNATA AL MARE
di Teresa Gallina
A Corigliano, negli anni '50, ogni 16 luglio, giorno dedicato alla Beata Vergine del Carmelo, protettrice dei "jardinari", aveva inizio la stagione balneare. Fin dalle prime ore del mattino si udivano i rintocchi delle campanelle di coccio appese alle finestre di tantissime case. Quei magici rintocchi avevano per noi un significato particolare, che ci riempiva il cuore di una gioia incontenibile. Finalmente si poteva andare al mare, poiché l'acqua aveva raggiunto la giusta temperatura e quindi il nostro organismo ne poteva trarre maggiori benefici. Non tutti avevano la fortuna di potersi tuffare nelle splendide acque del mare di Schiavonea, erano tempi duri e la miseria regnava sovrana nel nostro paese, perciò era facile imbattersi in "frotti i quatrarielli" sudici, seminudi e scalmanati che, a turno, si facevano "ntrivilleri' di acqua delle fontanelle, pur di sentire un po' di refrigerio oppure, lungo gli argini del torrente Coriglianeto, ragazzini spericolati si tuffavano nelle gelide acque per lavarsi. La mia famiglia soleva prendere in affitto un appartamento nel Palazzo delle Fiere, meglio conosciuto come Quadrato. Caricavamo il carrozzino di indumenti e viveri e via, felici e contenti verso il mare. Insieme a noi, che eravamo quattro figli, più genitori, nonna e zizì, venivano ad allietare la nostra vacanza anche qualche parrinella, o mamma zia, o zizijella, o cugina, o comare o figlioccia. Era una lunga, indimenticabile festa la stagione balneare, anche se i materassi imbottiti sopra di lana e sotto di "frolliri" scricchiolavano continuamente, disturbando il nostro sonno, già a sua volta angosciato dai piedi di qualcuno che dormiva "iri pirizzi" e che, inevitabilmente, ti piazzava un piede in bocca o in un occhio. Col passare degli anni le cose cambiarono, non si andava più con tutta quella gente e, quindi, anche noi decidemmo, finalmente, di andare al mare con l'auto a noleggio. In realtà posso assicurarvi che quella decisione fu tutt'altro che felice, anzi ci fece passare dalla padella alla brace. Dal momento che la spesa dell'auto da noleggiare era abbastanza consistente, la si doveva condividere con altre due famiglie: zii, parenti o amici strettissimi. Il nostro autista era Giovanni Martire meglio conosciuto come "zu Giuvanni i quattri quattri". La sua auto era un millecento ad otto posti, ma egli riusciva, miracolosamente, ad infilare in quell'abitacolo sempre venti persone, sistemate nel seguente modo: tre adulti sui tre sedili posteriori, sulle gambe dei suddetti adulti, ossia "ntru sini" venivano adagiati tre "minzeni", i quali a loro volta, reggevano sulle gambe tre "pittirilli"... totale 9! Identica sistemazione per chi occupava i posti centrali: tre adulti, tre "minzeni,"e tre "pittirilli", totale 18. I due posti davanti erano riservati all'autista e ad una donna anziana; si trattava di una suocera, o di una nonna, o di una "mamma zia" o di una "ziziella" o di "parrinella". Tuttavia, la malcapitata di turno non se la passava meglio di noi, poiché doveva "ragheri i 'ntru sini"ed adagiare negli spazi circostanti, "a truscia i ri taralli 'ntra retina", "u trummuni i l'acqua" riempito al momento "aru caneli i San Brancischi", u "linzuoli i ru tileri" che fungeva da parasole, "nu malijuorni i cucummiri" di una quindicina di chili e "nu paneri" pieno zeppo di frutta: "piri, grisuomili, pruni, cucullicchi e fichi". Prima di iniziare il viaggio l'autista, che nel frattempo aveva adagiato nel cofano "seggi, siggiulli, sietti e siettarielli", dava uno spintone ai bagnanti, facendo spostare il loro baricentro di 180 gradi, subito dopo inseriva la sicura, successivamente si spostava dal lato opposto dando un ulteriore spintone che permetteva loro di raddrizzare il corpo, che nel frattempo era rimasto inclinato inserendo, anche in tal caso come fatto dall'altro lato, la sicura. Iniziato il viaggio, le nostre mamme ci invitavano a fare il segno della croce ed a recitare qualche breve preghiera al Signore "ppi ni ferì ricogghiri seni e sarbi". L'autista, intanto, ci raccomandava di stare fermi e zitti. In realtà la calma ed il silenzio duravano si e no una ventina di secondi, giacché la posizione sconveniente, il caldo e l'euforia scatenavano dentro di noi il cosiddetto "virbirizzi". A questo punto i nostri genitori, o chi per loro, non esitavano a consolarci con "pizzuluni e tireti i cierri" ripetendo a turno:" ma chi malanova aviti, i viermi ca vi muviti sempi ?" mentre mamma zia soggiungeva:"T'ha rica ghia! Ricija bbuoni a biniritta i ra mamma! Chini tena pittirilli u jissa a nozzi ca si ricogghia ccu ra guallira e ccu ra vozza" Tuttavia, la colpa non era nostra, poiché eravamo pressati in quell'auto come sardine in scatola; d'altronde, i sottostanti avevano mille ragioni per lamentarsi, ridotti alla immobilità più totale a causa del nostro peso. Spesso uscivano dalle loro bocche alcuni lamenti: "ahi, cumi mi su ammarmureti i gammi!". Giunti a Schiavonea, l'autista, sbuffando come una vaporiera, finalmente riapriva gli sportel li, noi saltavamo dall'auto come tante cavallette mentre gli adulti, al contrario, rimanevano ancora immobili in macchina per alcuni minuti, aspettando l'aiuto di qualche anima buona che li facesse scendere. Zu Giuvanni, che aveva fretta di ritornare a Corigliano per una seconda corsa, non ci pensava due volte, afferrandoli per un braccio, poco mancando che li scaraventasse a terra. Arrivati alla sospirata spiaggia, le persone adulte continuavano a far fatica a camminare speditamente; le loro gambe non erano del tutto sgranchite e, quindi, era necessario muovere i piedi sulla spiaggia a mo' di cosacchi dello Zar nella steppa sconfinata. Ma alla fine, tutti felici e contenti verso il mare, si iniziavano a cantare a squarciagola le canzoni dell'epoca: Guaglione, Lazzarella, Cerasella, Tuppè tuppè marescia', Chella Ilà, ecc. In men che non si dica si prendeva posto tra due barche, gli adulti sistemavano il lenzuolo mentre noi, senza perdere tempo, eravamo già in acqua facendo mille capriole e tuffi, rincorrendoci poi sulla sabbia infuocata pestando, involontariamente, la testa dei malcapitati che si erano autoseppelliti nella sabbia per curare i reumatismi. Le nostre mamme, dopo di noi, ci raggiungevano in acqua indossando quei ridicoli costumi da bagno di lana realizzati con i ferri. Per fare il bagno si attaccavano ad una grossa fune che partiva da una barca e, disposte in fila indiana, si facevano cullare dalle onde. Qualche ora dopo, i morsi della fame si facevano sentire e allora venivamo rifocillati con taralli, cocomero ed un sorso d'acqua; se qualcuno di noi aveva ancora voglia di bere gli veniva consigliato: " va ti viva l'acqua i ru meri"!!! Coni'erano delicati! L'ora del ritorno era prevista alle 13, ma l'autista si piazzava sulla spiaggia mezz'ora prima del previsto, spalancando gli sportelli dell'auto. Per richiamare la nostra attenzione suonava il clacson in tre tonalità diverse. La prima: Alù-Alù... Alù-Alù... a voler significare: "io sono già qui!"; la seconda: "Polì Polì... Polì-Polì..." per ricordarci: "Ohhh! Ma suti ' nsurdeti?"; il terzo suono: "Tararararà-Tararararà" che voleva significare: "Ohhh! U vi su bbi muviti? A pperi vi fazzi ricogghiri a Curghieni!". A questo punto, scattavamo come tante molle raccattando zoccoli, lenzuolo, avanzi di frutta, cuccumo, retine, seggi, siggiulli, sietti, siettarielli e via verso l'auto. Il viaggio di ritorno era triste, il caldo afoso e la stanchezza conciliavano il sonno; anche gli adulti, come si suoi dire "capizzijavini ara bbona". Nell'auto regnava un religioso silenzio, tanto da irritare l'autista che se ne usciva con qualche espressione del tipo "Ma... suti tutti vivi? A dicitilla ancuna parola, ca si no mi faciti pijeri u suonni puri a mmija!" Invano! Nessuno riusciva a svegliarsi dal "coma" in cui era caduto. Giunti in piazza San Francesco, venivamo svegliati dal fragoroso suono del clacson, scendevamo così assonnati, stanchi, sfiniti, esausti, sudati ma felici, col cuore gonfio di gioia, di quella sana perduta gioia che nessun giovane di oggi potrà mai assaporare, ma che ricordano con struggente nostalgia tutti coloro che hanno vissuto i miei tempi.
I BAGNI AL MARE NEGLI ANNI '50
di Gerardo Bonifiglio
Per dire come cambiano le cose nel giro di qualche decennio. Come si sa Corigliano dista dal mare pochissimi chilometri, in linea d'aria non più di tre o quattro a seconda di dove ci si trova.
Ancora agli inizi degli anni '60 mi è capitato di chiacchierare con qualche vecchietta affacciata alla ringhiera della “Cavallerizza” che guardando il mare mi confessava che non l'aveva mai visto
da vicino di non essersi mai bagnata nelle sue acque, ma che qualche volta con quelle acque arrivate in paese con qualche fiasco si era bagnata gli occhi perché così le era stato consigliato per
un problema che aveva agli stessi. Qualcuno che aveva qualche carretto o qualche “biroccio” o “traìno“ come si chiamavano c'era stato qualche volta . Molti come si sa erano stati alla Fiera di
Maggio o a quella dei morti che si tenevano a Schiavonea per comperare “a rema” come venivano chiamate le padelle e le casseruole che facevano parte del corredo di nozze per coloro che potevano
permettersele ma non per andare al mare a fare i bagni. A casa dei miei ancora si conserva il braciere con annessa palettina di rame che i miei nonni comprarono per il corredo di mia madre negli
anni '30. Mia madre finché fu in vita rimpiangeva la perdita di un grosso pentolone di rame (“a vastardella”) che aveva dovuto consegnare allo “Stato”, diceva lei, durante il fascismo per fare i
cannoni. E mio padre che fu artigliere utilizzò quei cannoni per ben quattro anni cioè per tutta la durate della guerra. Ma torniamo al mare o meglio ai bagni. I miei primi ricordi risalgono agli
inizi degli anni '50. All'epoca abitavamo in Via Municipio o se volete sopra la “Portella”, si faceva presto quindi a scendere in piazza a prendere il “postale. Mio padre che naturalmente non
poteva accompagnarci perché doveva lavorare si poteva permettere di fare un abbonamento di 10 giorni ai primi di agosto, con il “postale” che partiva prestissimo da piazza del Popolo per
Schiavonea e noi, cioè io mia madre mia sorella e mio fratello potevamo quindi godere di questo privilegio di andare “a fare i bagni” come si diceva. Verso l'una il “postale” che ripartiva dai
pressi dove si trova la statua della Madonnina ci riportava in piazza del Popolo. Naturalmente l'unica zona che si praticava era quella proprio davanti alla statua della Madonnina dove anni dopo
sorse il primo lido di Schiavonea. “Il Lido delle Sirene”, nome esotico, così almeno ci sembrava all'epoca. Il resto della lunga spiaggia era deserto e così restò per molti anni ancora. Tanto che
quando per la prima volta agli inizi degli anni '60 andai alla spiaggia di “Fabrizio” mi sembrò di essere in un posto anch'esso esotico oltre che deserto specie di pomeriggio ma questo durò fino
alla fine degli stessi anni quando ci andavo con la fidanzata, la mia attuale moglie. Ma torniamo ai ricordi di quei giorni dei primi di agosto dei primi anni '50 di quando la spiaggia era senza
ombrelloni e per ripararci dal sole sfruttavamo la pochissima ombra che facevano le barche dei pescatori che riposavano sulla riva “a ru mmatti” come si chiamava nel nostro dialetto il
bagnasciuga. Ho ancora nel naso l'odore che emanava il legno sotto il caldo del sole, odore salmastro indimenticabile. Qualche famiglia più intraprendete si attrezzava con delle canne, prese da
qualche canneto delle vicinanze che allora non mancavano ed utilizzava un vecchio lenzuolo che fissava alle stesse a mo' di capanna. Era di rito , almeno una volta durante la stagione fare un
giro in barca e all'uopo si prestava qualche pescatore che per arrotondare caricava una decina di persone, se non ricordo male per 10 lire a testa , ma si poteva trattare se si era una famiglia,
e ci si allontanava dalla riva di qualche decina di metri; ma più che della gita in sé mi è rimasto impresso il ricordo della nuova prospettiva che si ammirava dalla barca guardando il paese da
lontano arroccato in cima con il suo castello, i suoi campanili. Qualche volta nel più bello e all'improvviso un forte e caldissimo vento di scirocco ci costringeva a scappare dalla spiaggia e a
rifugiarci verso le prime casupole dei pescatori. E qui in attesa del “postale” qualche volta si incontrava un venditore “acritano” o “jegghji” (albanese) che con il loro asino vendevano delle
pere, chiamate “pere ad acqua” succosissime e buonissime ma mai più mangiate da allora. E a proposito di comprare, come non ricordare il piccolo “gozzo” che a metà mattinata arrivava sulla
spiaggia con una cassetta piena di pesce più spesso misto qualche volta di una sola specie: alici, “costardelle”, “bobbe”, “sauri, polipi, raramente seppie o calamari. Ma naturalmente ancora
saltellante. Si puliva sulla spiaggia, si sciacquava con acqua di mare e si portava a casa per essere cucinato. Racconto spesso questo episodio quando sento dire da molti che a Milano, dove vivo
oramai da mezzo secolo, si mangia il pesce più fresco d'Italia. Faccio presente cosa bisogna intendere per fresco, e quando racconto che mia madre comprava quel pesce e lo cucinava a mezzogiorno,
la corretta nozione di fresco si fa presto ad accettarla. Naturalmente questo, penso non succeda più neanche a Corigliano, salvo per chi il pesce se lo pesca da solo. Ma anche il pesce pescato da
uno, due giorni si può considerare fresco, e non solo a Milano. Per tornare ai ricordi, così come mi vengono alla mente, la mancanza di ombrelloni e soprattutto l'ostinata caparbietà di noi
bambini di stare sulla spiaggia, sotto il sole ci procurava solenni scottature su tutto il corpo. All'epoca non c'erano le creme protettive o dopo sole, almeno noi non le conoscevamo, e in
qualche modo si doveva ovviare per attenuare il bruciore. Mia madre preparava un battuto con olio d'oliva e albume d'uovo da spalmare sul corpo, ma il bruciore durava lo stesso qualche giorno. I
dieci giorni, naturalmente volavano e tutto finiva. Un anno però, non ricordo quale, ci fu un ritorno di caldo verso metà settembre e mio padre ci regalò un altro abbonamento di dieci giorni e
scoprii, almeno così ricordo, un mare ancora più bello, più limpido, un sole che scottava meno. In quell'occasione imparai anche un modo di dire nuovo, cioè “i bagni puntaruli”, fatti non proprio
nel periodo canonico, in qualche modo posticipati. Termine che aggiunsi ad un altro che imparai allora: “i bagni i ronn'Attilij” che significava bagnarsi, asciugarsi, bagnarsi di nuovo,
riasciugarsi e così via. Non mi è stato dato mai di scoprire chi fosse il don Attilio ma sicuramente qualcuno che adottava quella tecnica e rimasto perciò proverbiale. Ora naturalmente il
progresso e anche un certo benessere, allora sconosciuto ai più, ha cambiato di molto le cose. Il mare forse non è più limpido come quello, l'odore dello iodio molto forte nello Jonio, per la sua
profondità, forse per la presenza di tante persone, di tante creme, di tanti deodoranti non si sente più come allora. E chi lo sa se fra sessant'anni qualcuno scriverà dei suoi ricordi di oggi e
se questi saranno tanto diversi rispetto all'oggi.
La prova della verità
di Giuseppe Pellegrino
Da ragazzino sentivo spesso parlare, da mia madre e dai parenti, del tempo del “fuja fuja”, durante l’ultima guerra.
Si raccontavano storie di vario genere. Delle difficoltà della vita quotidiana perlopiù, ma anche di sentimenti di paura, di angoscia e preoccupazione per i familiari al fronte.
Io pensavo che il “fuija fuja” fosse la normale conseguenza della necessità di mettersi in salvo, durante le incursioni nemiche. Scoprii invece, diventato un po’ più grande, che “Fuja Fuja”
andava scritto con la lettera maiuscola, poiché si riferiva ad un preciso evento storico e quello era il suo nome proprio: l’armistizio dell’8 settembre del ’43, allorché passammo dall’alleanza
con i tedeschi a quella con gli americani.
“Fuja Fuja” indicava dunque quel momento terribile della guerra, quando non si capì più nulla: i soldati italiani non sapevano se e contro chi combattere ancora, e in gran parte disertarono; la
gente non sapeva se salutare ancora o meno con il braccio alzato e la mano aperta e si diede al si salvi chi può.
Il caos insomma, mentre i tedeschi, che avevano poco gradito il voltafaccia, si ritiravano furiosi e vendicativi nei confronti degli italiani ormai inermi.
Per sfuggire, quindi, alle possibili rappresaglie degli ex alleati, ci fu, allora, un esodo quasi biblico verso le campagne, specie quelle collinari, defilate rispetto ai comuni passaggi di
truppe tedesche e comunque di difficile accesso per qualunque malintenzionato. Fu così che, in rustiche “turri”, modeste abitazioni rurali, che ospitavano normalmente le famiglie dei proprietari
durante la villeggiatura, si ammassarono più di un nucleo familiare, per una solidale quanto provvisoria ospitalità.
Ma quello che per gli adulti era una circostanza di grande apprensione e di notevole disagio, per i ragazzi diventò un momento di imprevisto divertimento.
La vita in comune e in spazi così ristretti, tra tanti ragazzini, era davvero motivo di gaiezza e spasso. Il giorno si andava a prendere l’acqua alla sorgente, si aiutavano le mamme a fare il
bucato, si catturavano le “crochice”, le rane, si andava a raccogliere la frutta di stagione e si inventavano giochi per trascorrere il tempo.
La sera, all’aperto, si accendeva il fuoco e intorno ad esso si riunivano tutti gli abitanti della “turra”, nonché i vicini che affollavano i casolari vicini.
E in una sera di queste, nei pressi della “turra” di mio nonno, mentre tutti i bambini stavano seduti ad ascoltare i “fatti” che uno
zio romanzava ad uso e consumo degli uditori, a qualcuno dei piccoli presenti sfuggì una “scorreggina” silenziata, la quale però non fece mancare i suoi effetti olezzanti ai presenti. Subito ci fu
qualcuno, con il naso più affinato, che rilevò l’inconveniente e immediatamente si scatenò la tipica ridda di accuse reciproche per individuarne l’autore o l’autrice, mentre ognuno negava la propria
responsabilità.
Intervenne allora lo zio, che propose ai presenti di sottoporsi alla prova della verità.
Procurò un numero di bastoncini di misura tutta uguale e li distribuì ai bambini. Poi li invitò ad allontanarsi ed a nascondersi per qualche minuto. Infine si dovevano ripresentare e consegnare
il bastoncino: a colui o colei che era colpevole il bastoncino si sarebbe magicamente allungato.
La povera Ninetta, l’autrice dell’olezzante colpa, per paura che il suo bastoncino fosse risultato più lungo e la potesse incriminare, ne spezzò una parte e fu così che fu scoperta, tra la
ilarità di tutta la compagnia.
Quando si andava ai gigli
di Carmine De Luca
Con i soli di giugno-luglio nostra meta preferita era il terrazzo sovrastante la villa comunale. Quello stretto terrazzo, costruito a sostegno della strada che porta alla Garopoli , era un fitto intrico di piante di iris(noi li chiamavamo più semplicemente gigli, e nel nostro linguaggio sbrigativo l'espressione "ai gigli " indicava quel posto: 'andare ai gigli" era uno dei diletti della controra estiva. Su quello stretto terrazzo si andava spesso a caccia di lucertole. Si catturavano con un cappio di filo d’erba. Tentavano di scappare e il cappio stringeva: non c'era nulla da fare. Per conquistare quello stretto terrazzo bisognava sottrarsi allo sguardo attento del guardiano della villa comunale. Si chiamava zio Francesco? Non ricordo bene. Ma ho netta memoria della sua profonda dignità . A noi ragazzini faceva paura col bastone che aiutava la sua gamba claudicante da reduce della guerra (la Grande Guerra?), e nonostante il terrore che incuteva, qualcuno di noi riusciva - chissà in quale piega della sensibilità, chissà per quale meccanismo emotivo - ad apprezzarne l'austero decoro. A caccia di lucertole si andava attrezzati di qualche cicca di sigaretta che qualcuno di noi si era preoccupato di raccattare per strada o in qualche portacenere (ma c'erano i portacenere? Sì usavano?). Un po' di tabacco della cicca, fatto denso e fetido grumo di nicotina, lo si metteva - scellerata perfidia infantile! - nella bocca dell'animale. Questo era il gioco, questo il crudele obiettivo di "andare ai gigli". La lucertola avvelenata era presa da un immediato tremore che subito si trasformava in convulsioni epilettiche. Poi di colpo moriva restando stecchita. A dare maggiore portata alla malvagità si andava a caccia delle lucertole più grosse: più grandi erano, più forte e più duraturo era l'effetto del tabacco. Scagli la prima pietra chi, nell'infanzia, non ha catturato una mosca per staccarle le ali e abbandonarla a un destino (breve) di morte (smarrita, la mosca trascina il suo corpo), o non ha legato barattoli alla coda di un gatto, o,come un mio compagno di scuola (niente nomi! niente delazioni per le crudeltà infantili!), lanciando cocci appuntiti (i "sciscioli") dava la caccia ai polli: un giorno un coccio aguzzo prese una gallina nell'orifizio - come dire? - ovale. La povera dovette trascinarsi per strada una sanguinolenta massa di interiora. Negli anni della mia infanzia a cavallo tra anni quaranta e cinquanta - il rispetto degli animali era cosa inconcepibile. Anzi, era ritenuto cosa assolutamente disdicevole e tale da rendere altamente probabile la presa in giro. Era un comportarci da donnicciola. I libri di lettura scolastici che raccontavano di poveri animali maltrattati (ho memoria del rospo, "la schifa bestia", di Victor Hugo tradotto da Pascoli: "Era un tramonto dopo il temporale./C'era a ponente un cumulo di cirri..." non soltanto fallivano come apologhi edificanti, ma funzionavano da efficacissimi suggeritori di giochi perfidi. Quanti rospi avremo massacrato su suggerimento di Hugo e Pascoli! I giochi con gli animali dipendono strettamente dai tempi: oggi, per fortuna, sono tempi di tenerezze e di protezione istituzionalizzata: allora erano tempi di violenze gratuite non solo da parte di bambini. L'aggressività infantile si esercitava sugli animali in mancanza d'altro. Significherà pure qualcosa il fatto che eravamo figli della guerra. Ricordate il film "Giochi proibiti"? Chiunque da ragazzo abbia fatto esercizio di sadismo nei confronti degli animali ha modelli letterari celebri. Per esempio Tom Sawyer di Mark Twain. Nel capitolo quinto delle Avventure Tom è in chiesa e nel bel mezzo della preghiera, viene sfidato da una mosca. "Una mosca si era materializzata sulla spalliera del banco davanti a lui e aveva tormentato il suo animo con un placido soffregarsi le zampe; con lo strofinarle sulla testa, stropicciandola con tanto vigore da dare l'impressione di volerla staccare dal corpo e mettendo in mostral'esile filamento che costituiva il collo; con lo sfregarsi le ali per mezzo delle zampe posteriori, lisciandole poi contro il corpo come se fossero le code di un frac; con il mettere in pratica, insomma, una completa toilette nella massima tranquillità , quasi sapesse di trovarsi completamente al sicuro. E, in realtà, cosi era; perché, nonostante gli prudessero le mani per la smania di acchiappare la mosca, Tom non si azzardava a farlo. Riteneva infatti che se si fosse abbandonato a una cosa simile mentre veniva recitata la preghiera, la sua anima sarebbe stata annientata all'istante. Ma, alla frase finale, la mano di lui cominciò a curvarsi e a portarsi avanti con mossa furtiva ; e, nel momento in cui venne pronunciato l'Amen, la mosca diventò prigioniera di guerra". Le mosche sono vittime preferite di crudeli torture. Un giorno degli anni che sto rievocando tre compagni di scuola (ormai è regola che non si facciano nomi), ne legarono con un sottile filo di seta ben quattro, da una zampetta all'altra a formare una specie di piccolo stuolo che,liberato, andò a posarsi sulla cattedra dell’insegnante. Le conseguenze non sto a raccontarle. Sono documentate nei registri di una scuola che veniva frequentata con incommensurabile gioia e con irrefrenabili svogliatezze. Il catalogo dei giochi con gli animali è parecchio nutrito. E non elenca soltanto scelleratezze e violenze. Contiene pure splendidi incanti e affascinanti stupori. Come quando ci si fermava, nei fervidi soli estivi, ad ammirare l'assoluta eleganza della verde mantide religiosa. Come quando, in ginocchio, si puntava lo sguardo attento nel cono del formicaleone in attesa di assistere al prodigioso fulmineo scatto con cui dall'interno della tana sabbiosa catturava qualche imprudente insetto. Poi, magari, lo stupido osservatore, afferrando bruscamente un pugno di terra, catturava, a sua volta, il feroce formicaleone. Ed era di nuovo violenza.

Immagini della memoria
Gli anni cinquanta-sessanta
a Corigliano
di Mario Izzo
.... il ricordo che ho di Corigliano con riferimento al periodo in cui vi ho vissuto … sono tantissimi, e tutti permeati di grande nostalgia, i ricordi che mi legano a Corigliano, la Città dove ho vissuto gli anni della mia giovinezza, dove sono sepolti i miei genitori e, last but non least, dove ho avuto la fortunata, quanto fortuita, opportunità di incontrare la ragazza, che sarebbe diventata mia moglie.
Venni a Corigliano molto piccolo, nel 1950, e ne partii a 18 anni per frequentare l‟Università a Napoli, ritornandovi però frequentemente, sempre pronto a cogliere qualsiasi occasione per motivare un ritorno e giustificare un viaggio così lungo. A quel tempo Corigliano era un paese prettamente agricolo e questa caratteristica era evidenziata da una scena che si ripeteva ogni giorno,nel tardo pomeriggio: il rientro dalla campagna di una lunga teoria di “carrette” cariche di prodotti dei campi e trainate faticosamente, lungo la ripida salita di via Roma, da cavalli ansimanti e stremati dallo sforzo. Cavalli che si erano appena rifocillati, abbeverandosi alla fontana (“fišchìa”) che esisteva allora al bivio di S. Antonio e che, a me piccolo, sembrava monumentale. Le “carrette” e i “carrettini” venivano poi lasciati incustoditi per la notte in ogni parte del paese, dovunque c’era uno spazio idoneo ad accoglierli. Ricordo in particolare un posto utilizzato a tale scopo: lo spiazzo, alla Portella, adiacente al palazzo de Rosis, dove noi abitavamo. Un altro ricordo legato all’aspetto bucolico della vita quotidiana è la distribuzione del latte che veniva effettuata senza alcun intermediario e con il sistema porta a porta. Nel pomeriggio giravano per le strade del paese piccoli greggi di pecore e capre che venivano munte al momento dai pastori, in istrada, a richiesta delle donne di casa. Durante l‟operazione di mungitura era opportuno, però, prestare molta attenzione perché, si diceva, alcuni pastori ’mbruĝĝhjuni tenevano nascoste sotto i vestiti delle bottiglie di acqua con cui, in caso di disattenzione delle acquirenti, allungavano il latte. Ma l’aspetto della vita coriglianese che maggiormente mi colpiva era la funzione sociale che a quel tempo svolgeva Piazza del Popolo, l’Acquanova. Era l’Agorà coriglianese, il salotto (anche se si era costretti a stare in piedi!) della città, il luogo in cui tutti nel tardo pomeriggio confluivano: se si voleva incontrare una persona bastava andare lì dopo una certa ora e si era certi di trovarla. Era però un luogo riservato esclusivamente agli uomini, non era pensabile che una donna si fermasse all’Acquanova, anzi, anche attraversarla, rappresentava per una donna un problema psicologico. Così come pure era inconcepibile che una donna andasse a fare la spesa nei negozi dell‟Acquanova.
Ma ciò che ricordo maggiormente di quel periodo era il grosso cruccio, soprattutto di noi ragazzi, di non avere nessun luogo dove poter svolgere attività sportive. Non c’era il benché minimo campo di calcio e ci si riduceva a giocare nei posti più impensati. Quante estenuanti partitelle abbiamo giocato all’interno dell’atrio del Castello, quante altre giocate nel piccolo spiazzo irregolare davanti la chiesa di San Pietro col rischio di far andare la palla all’interno di una falegnameria situata lì vicino, il cui proprietario, disturbato nel suo lavoro, senza minimamente scomporsi, provvedeva a bucare la palla con un punteruolo. Tale situazione durò a lungo ed il desiderio di avere un campo da gioco diventava sempre più forte tanto che ricordo, frequentavo ormai il liceo, andavamo a lavorare alla “Fossa”, allora libera da costruzioni, per collaborare alla costruzione di gradinate di uno stadio che non si è mai realizzato …
(da Veteranova n° 24 del 2015)
La nostra montagna
di Francesco Marino
Questo territorio, il cui apice raggiunge l’altezza di circa mille metri sul livello del mare, è molto vasto e ricco di una flora consistente in boschi di castagni, di pini, di abeti, altre conifere, querceti, alberi da frutto, vigne ed alberi di cui non conosco la denominazione. La zona di villeggiatura è quella che va dalla contrada “Scala”, dove si trova la casa, un tempo abitata dalla famiglia Romanelli (il sig. Vincenzo, la consorte sig.ra Alba, i figli Franco e Giulio), alla contrada Baraccone, dove si trova l’abitazione, con annesso negozio di frutta e verdura, del sig. Tonino Zampino. Ma andiamo con ordine, partendo dalla contrada Scala.
Salendo dalla strada provinciale, che da Corigliano porta in Sila, si trova la magnifica abitazione della famiglia Bruno, oggi, in parte adibita ad agriturismo: “La Loggia”. Un tempo, la casa del dott. Giordano Bruno, quasi ogni giorno accoglieva amici e parenti, per trascorrere il tempo ballando e, quando era presente l’avvocato Gaetano Varcaro, si godeva la sua allegra compagnia: barzellette, aneddoti, frizzate ai politici e altro. Noi giovanotti passavamo la maggior parte del tempo tra tango, mazurca, valzer, samba, cia-cia-cia e, negli ultimi tempi, c’era chi si dava ai movimentati balli del dopoguerra. Partecipavano spesso i padroni di casa, Andrea, Ninì e Carmelina, le mie sorelle Teresa e Tina, le due figlie del sig. Francesco De Luca, Bice e la sorella minore, Bice Varcaro con il fidanzato Peppino Servidio, Enzo Varcaro con l’allora fidanzata e poi sposa Flora Scarcella, Nennella Vasso, Guglielmo De Novellis con la moglie Emilia Canonico e amici che scendevano da Piano Caruso, come Bebè Garetti, Tonino Russo e ancora altri, dei quali non ricordo il nome. All’avvicinarsi dell’ora di cena, il nonno di casa, nonno Andrea, battendo il bastone per terra, domandava: «Ma questi ragazzi non hanno casa? Forse i loro genitori li staranno aspettando». Noi, capita l’antifona, salutavamo i padroni di casa, assicurando una visita a breve scadenza.
Al di sotto di casa Bruno, abitava la famiglia del sig. Guglielmo De Novellis, con la moglie sig.ra Emilia Canonico e i figli Carlo, Amelia, Maria Giovanna. Al di sopra di casa Bruno, sorgevano altre abitazioni, come il casino Milano, ormai quasi interamente distrutto. Molti ne ricorderanno i proprietari, tutti defunti: la vecchia madre sig.ra Erminia, i figli, prof. Francesco, dott. Salvatore (il farmacista di sopra l’arco), la sig.ra Flora, la sig.ra Silvia. La casa era circondata da un fitto bosco, nel quale si trova una fontana che dava un’acqua diuretica e molto leggera. Nei dintorni c’è casa Caracciolo, ora casa dell’ing. C. Bruno, allora abitata dall’avv. Giuseppe Caracciolo (ultimo podestà del ventennio fascista e primo sindaco nel regime democratico) con la moglie sig.ra Annetta. Nelle stesse parti sorge una palazzina, il cui proprietario, sig. Luigi Zagordo, viveva in America. La fittò mio padre e, per quasi dieci anni, fu la nostra dimora estiva. A pochissimi metri, c’è un’altra costruzione di proprietà del defunto sig. Francesco Zagordo. Questa veniva fittata dalla famiglia del sig. Natale Pirri con la moglie sig.ra Antonietta Luna e i figli Francesco, Maria, Filomena, Salvatore e Vincenzo. Tale famiglia, saltuariamente, dava ospitalità alle sorelle della sig.ra Antonietta: Gilda, Elena, Elvira, Dora e Messina. Stavamo sempre insieme e a noi si univa la famiglia del sig. Giacomo Malena: la moglie sig.ra Carmela, i figli Angela, Maria, Francesco, tutti ragazzi spensierati, i quali non pensavano ad altro che a divertirsi, ignari del tragico momento che incombeva sul paese. Rimanemmo impauriti, solo assistendo, sia pure da lontano, all’apocalittico spettacolo offerto dal bombardamento di Sibari. Non ricordo chi fossero i proprietari di tante casette coloniche esistenti nella zona.
Nella parte alta del rione dominano due grosse costruzioni: una appartiene alla famiglia del defunto dott. Battista Malena, della quale unica superstite è la figlia sig.ra Vittoria, e l’altra appartiene alla famiglia del sig. Giovanni Sangregorio. È l’antica dimora estiva della famiglia Sangregorio e, se ben ricordo, conta circa venti vani, circondati da vigneti e alberi giganteschi. L’ingresso è munito di un solido cancello, di solito sempre aperto, che immette in un lungo viale, che porta all’abitazione, preceduta da un’antica torre (il torrione), che, con le sue feritoie, fa pensare che servisse da guardia ai tempi dei briganti. Nelle vicinanze si trova la bella casa Vasso, ormai quasi disabitata. Seguendo la strada provinciale che porta in Sila, si trova un grosso centro denominato “Migliuro‟ o “Cancelluzzo de Rosis‟. La denominazione “Migliuro‟ è dovuta alla presenza di una fontana, alla quale, fino agli anni Ottanta, si ricorreva, quando tutta la montagna non era provvista della rete idrica. Da alcuni anni l’acqua della fontana non è più potabile. Dal largo esistente attorno alla fontana si diramano tre strade: una porta verso la zona “cancelluzzo‟, un’altra verso “viale Impagliazzo‟, lungo circa un chilometro, e la terza verso la strada provinciale. Esiste, per la verità, un viottolo che porta al rione “cuozz’i Patari‟, abitato da poche famiglie: Candia, Marrazzo, Scarcella, Cassano. La strada che porta verso il “cancelluzzo‟ è molto ripida e mena verso le abitazioni dei sigg. Longo, Pistoia, avv. Giuseppe Fino (eredi dott. Luigi Sangregorio). Alla zona “cancelluzzo‟, le abitazioni sono tutte ben conservate. Ricordiamo quelle del dott. Ugo Scarcella, quella del fratello dott. Luca, del prof. Giuseppe Marrazzo, per quasi dieci anni abitata da noi Marino, quella del defunto prof. Angelo Foggia, le case Quintieri (disabitate), la casa del dott. Mario Quintieri, ora trasformata in agriturismo. Sempre nella stessa zona si trova la casa della sig.ra Edda Romanelli e, un poco più a sud, un piccolo agglomerato di case: quella del dott. Marcello Cimino, quella del prof. Pasquale Lasso, quella di un sig. inglese, ora proprietà del sig. Giorgio Policastri e quella del sig. Domenico Albamonte. Non mancava un piccolo campo per giocare al pallone, allestito alla meglio su di un terreno, che il barone Raone de Rosis ci aveva concesso. I giocatori non mancavano mai: Gigetto de Rosis, mio fratello Pasquale, Luca e Franco Scarcella, i fratelli Fino (Domenico, Gaetano, Vincenzo, Francesco, Costanza, unica ragazza, ottimo terzino), Angelo Foggia, Domenico Libonati, Tonino Russo, Tonino Benvenuto, Gabriele Cosentino, Antonio de Rosis, Mario Nigro, Enzo Polino, detto Corso, Giorgio de Rosis ed altri; dimenticavo che c’ero anche io. La sera, dopo cena, ci riunivamo al cancello del viale De Rosis; spesso era con noi il barone Raone, il quale allietava le serate con barzellette e racconti dei suoi trascorsi di ufficiale di marina. Alla fine del lungo viale De Rosis, attraverso un vialetto, si arriva a casa Curia, ora disabitata. Nelle vicinanze, ancora due abitazioni: casa Ortale e casa Benvenuto. Le abitazioni del rione “cancelluzzo‟ erano raggiungibili attraverso diramazioni del viale del barone, che conce-deva il permesso di transito. Esiste anche una vecchia strada comunale, ma è tanto malridotta da non essere quasi transitabile. Nelle vicinanze del “cancelluzzo‟ un grosso caseggiato: la famiglia De Caro, il dott. Vincenzo Capalbo e due-tre appartamenti dati in fitto.
Salendo per la strada provinciale, troviamo la vecchia casa del dott. Michele Persiani, diroccata e quelle del dott. Francesco Persiani, del sig. Catapano, della prof.ssa Antonietta Minisci, del defunto avv. Alessandro Attanasio, del prof. Armando De Rosis.
Sempre salendo, altre due abitazioni: una apparteneva al sig. Antonio Mingrone e l’altra dell’avv. Giovanni Cimino, lasciata in eredità al nipote dott. Antonio. Sul lato sinistro della strada provinciale, subito dopo l’abitazione del dott. Saverio Avella, attraverso un viottolo, si scende verso contrada “trattera‟, la quale termina con l’antichissima dimora estiva della famiglia Terzi: la “Conca‟. Nella contrada “trattera‟ troviamo la casa dell’avv. Luigi Passerini, quella del defunto sig. Pierino Spezzano, quella del dott. Antonio De Caro, quella degli eredi del sig. Domenico Policastri ed altre, appartenute a diversi De Rosis.
Ritornando sulla strada provinciale, troviamo subito, sulla destra, la casa della sig.ra Mariolina Cavalieri, l’abitazione del dott. Vincenzo Taverna e, limitrofa, quella della sig.ra Chiara Bennvenuto, vedova del dott. Alfonso Bruno. Ancora più avanti, siamo già in contrada Piano Cartuso, arriviamo alla casa del sig. Franco Malagrinò, il quale, col la consorte Maria, gestisce, annesso alla casa, un attrezzato negozio di generi alimentari, avuto in eredità dal suocero, sig. Giuseppe Ritacco.
Come dicevo prima, siamo a Piano Caruso, punto centrale della nostra villeggiatura. Troviamo subito, a sinistra, l’abitazione del defunto generale dei carabinieri, dott. Francesco Graziani, e nelle vicinanze l’abitazione del sig. Natale Alonia. Un poco più avanti, sulla destra, fa spicco palazzo Bianchi, circondato da una vasta estensione di terreno, parte del quale è detto “Belvedere‟, zona di apprezzabile bellezza per il panorama che arriva fino al mare.(continua)
(Veteranova n° del 2015-2016)
COME ERAVAMO : ricordi di giornate estive
di Gerardo Bonifiglio
Verso il 15 Giugno chiudevano le scuole e la loro chiusura coincideva spesso con l'arrivo del gran caldo, anche se la tradizione voleva che al mare, per i bagni, si andasse solo dopo il 16 Luglio giorno in cui si festeggiava la madonna del Carmine. Strana tradizione ma avrà avuto la sua ragione.
Vacanze significava tanto tempo libero, tempo da occupare. Allora, parlo della fine degli anni cinquanta, inizi sessanta i passatempi non erano molti, non c'erano i computer, non i telefonini e le prime televisioni, per i pochi che già le avevamo i programmi li iniziavano verso le 17,30 con la TV dei ragazzi. Di mattina non c'era programmazione salvo verso i primi di settembre, quando iniziava La Fiera del Levante di Bari, e chi sa per quale strano motivo trasmettevano per questo evento dei vecchi films , naturalmente in bianco e nero , e allora c'era un solo canale cioè il primo della Rai, il secondo arriverà più tardi e per vederlo bisognava aggiungere alla TV una specie di decoder con due tasti, ma questa è un'altra storia.
Occupare il tempo era quindi non dico una preoccupazione ma bisognava comunque trovare cose da fare. Anche avendone voglia, sicuramente non a ridosso della chiusura della scuola , libri da leggere non ce ne erano molti , non almeno nella mia famiglia. La biblioteca di famiglia era così composta: quattro o cinque romanzi di “Fantomas “ ladro gentiluomo francese , che si leggevano con piacere, comprati da mio padre negli anni '30, personaggio che avrebbe poi ispirato altri famosi personaggi come Lupin , James Bond e Diabolik . Un vecchio testo di Domenico Mauro, letterato e patriota risorgimentale nato a San Demetrio Corone, testo un po' pesante per il ragazzo che ero. “L'ultima notte di Sibari “ di Costabile Guidi. Dello stesso autore una raccolta di novelle : “ Le novelle di Fra Galdino “ molto spiritose e ironiche. “Foglie Sperse” raccolta di poesie di F. Maradea, una prima edizione autografata. Mio padre frequentava una compagnia di amici fra cui Antonio Valente, Ciccio Taranto ed altri e fra questi anche il Maradea. Alcune poesie di Maradea furono musicate dal fratello del Taranto, Giorgio, musicista cieco e cantate dal Valente , “bravo tenorino “ come lo definisce lo stesso Maradea nella dedica. Dello stesso autore “Storia di un amore” . Un vecchio Dizionario della lingua Italiana del Tommaseo ed infine “La Crono-Istoria di Corigliano “ di Amato , anch' essa una prima edizione molto mal ridotta. E la biblioteca era tutta qui. Non era certo la biblioteca di Borges o quella del conte Monaldo Leopardi, ma per me sufficiente a far nascere l'amore per i libri e per la lettura che non mi hanno più abbandonato. Ma tornado alle calde giornate estive, ricordo che il mattino fra una cosa e l'altra passava. Il pomeriggio invece, con la sua calura che faceva i riverberi sulla strada appena asfaltata in quegli anni, era tutto davanti a me. Iniziava con la “Controra “, “a cuntrura” come si chiamava in dialetto. Fin dai tempi remoti della preistoria questo tempo è stato definito il tempo delle credenze e delle superstizioni. Ne parla perfino Platone nel “Fedro” che la definisce “l'ora che si dice ...immota”. Era l'ora destinata solo agli dei, l'ora in cui uscivano le Ninfe e Pan ed era vietata ai mortali, gli spiriti potevano “invasarli” e “possederli”. E nulla era cambiato dopo tremila anni fino agli anni di cui parlo. Le stesse superstizioni, le stesse paure che ci impedivano di uscire. Con una piccola variante: invece delle Ninfe che sarebbero state molto più gradevoli da incontrare , c'erano gli spiriti dei morti uccisi . Opportunamente segnalati dai nostri genitore, in particolare dalle mamme, i punti o meglio “i meli punti “ come venivano chiamati, i luoghi dove cioè era avvenuto l'omicidio erano assolutamente da evitare qualora per sventura capitava di uscire a quell'ora. Saremmo stati “presi” come si diceva, cioè posseduti da quegli spiriti. Ricordo che in paese c'era una signora che faceva la lavandaia di nome Carmelina la quale era particolarmente predisposta ad essere “presa” dagli spiriti. Al punto che quando questo accadeva, parlava con la stessa voce dello spirito che era entrato in lei e la possedeva . Faceva richieste di cibi che , guarda caso piacevano allo spirito quando ancora era vivo. Almeno così raccontavano coloro che assistevano a questi eventi. E ciò contribuiva non poco ad avvalorare la superstizione e ad incuterci paura. Quindi niente uscite nella “controra”. E allora il tempo si occupava con la lettura dei “ giornaletti” come venivano chiamati i fumetti dell'epoca. Strisce di circa 5 centimetri per venti, in bianco e nero a parte la copertina a colori. Il più famoso era “Capitan Miki “ con i suoi amici “doppio Rhum “ e “il dottor Salasso “ . Ma anche “Il grande Black” con il suo amico “Roddy” e “il professor Occultis “ .Più tardi arrivò anche un altro fumetto, “Kinowa “ anche quello ambientato nel West ma non ebbe una grande accoglienza. Ogni “giornaletto” contava una ventina di pagine e si faceva presto a leggerlo tutto. Per fortuna c'era sempre qualche amico di buon cuore e soprattutto più benestante che mi prestava una collezione intera. Seduto sulla soglia di un piccolo balconcino che a quell'ora essendo difronte al mare era già in ombra iniziavo a leggere. Ogni tanto interrompevo e cercavo di sintonizzarmi su qualche canale per ascoltare qualcosa di interessante . Non c'erano ancora le radio libere che verranno molti dopo , pertanto solo qualche canzonetta di Luciano Taglioli, di Achille Togliani , o dell'orchestra Angelini o del maestro Fragna e ogni tanto un primo Domenico Modugno che faceva folk siciliano e per tale si faceva passare lui che era pugliese, prima del successo di “Volare” o “Nel blu dipinto di blu”, come preferite. In quegli anni ero abbonato anche alla “Selezione del Reader's Digest” che ogni mese pubblicava un giornalino di cultura generale, molto interessante ma soprattutto cultura americana. Ogni tanto pubblicavano anche qualche libro e un anno, verso il 1958/59 se ricordo bene comprammo sempre dalla “Selezione “ un bel giradischi stereo con delle casse e alcuni dischi LP di musica classica. Li ascoltavo spesso, ma naturalmente non tutti i giorni e non d'estate, preferivo altre stagioni soprattutto quella invernale. E intanto le ore scorrevano, lentamente ma scorrevano. Si arrivava così verso le 17 che ancora voleva dire 35 gradi all'ombra e tuttavia non si resisteva più in casa e si usciva. Se al Fondaco, “il sindaco” personaggio eclettico stava organizzando una partita di calcio allora ci si fermava e si partecipava,diversamente la prima tappa era davanti al Castello lato Piazzetta Compagna o semplicemente “ A Gghjiazza” che prima chiamavano “Muro rotto” come mi diceva mio padre ma ai miei tempi non più . Era appena passata un'autobotte che ogni giorno d'estate annaffiava le strade principali del paese quelle appena asfaltate, per dire del “progresso “ che ha fatto il paese negli ultimi anni. In quel periodo si stava costruendo il “Chiosco” ancora oggi esistente e meta dei frequentatori del cosiddetto “Casino dei Nobili “ o “Casino d' Unione”. Invece, per contraltare più prosaico e popolare, all'angolo del palazzo Abenante vicino al tabacchino/edicola di Leonardo Grillo, ma a volte anche allo spigolo del muro della Villa del Castello , erano già operativi i venditori di fichi d'India con una cassetta piena del dolce frutto e un secchio d'acqua dove venivano bagnate per togliere qualche spina. Ho fatto in tempo ancora a comprarle a una lira l'una, poi tre cinque lire e con l'avvento dei fichi d'India di Apollinare ( “I pulineri” ) veramente diverse per dimensioni e sapore che si vendevano a 5 lire l'una o tre 10 lire. Altri venditori erano all'Acquanova proprio sotto i cartelloni appesi ai muri del palazzo Bianchi o vicino ad una fontanella appena all'angolo della salita di San Francesco davanti alla cartoleria di Tonino Cardamone. Bisognava stare attenti ad individuare coloro che andavano a raccoglierle “a ra pisciazzella” cioè nei pressi ”i ru valluni i don Filirichi” perché lì scorrevano le acque nere del paese. Tutti naturalmente spergiuravano che erano state raccolte alla “Costa” o addirittura “sopra l'irto”, ma nessuno ci credeva. Spese le cinque lire quando si possedevano, cioè raramente a mangiare fichi d'India ,ci si infilava nel bar dei fratelli Gravina a vedere giocare al bigliardo quelli più grandi. “Carambola”, “Italiana” come veniva chiamato il gioco con i birilli , ma più spesso “La Bazzica” gioco considerato d'azzardo ma certamente il più divertente. Qualcuno di noi veniva scelto per segnare i punti e così si guadagnava qualche sigaretta, più spesso qualche mozzicone che non completamente consumato veniva passato dal fumatore. Il Covid 19 allora non circolava , altri virus forse si ma anche così ci facevamo gli anticorpi. I più benestanti , per lo più figli di negozianti ( non era difficile a costoro aprire il cassetto e prelevare una moneta da 50 lire allora di carta ) si potevano permettere l'acquisto di un “moretto” cono gelato ricoperto di cioccolato fondente e poi indurito nel congelatore o uno dei primi “pinguini” artigianali. E questo naturalmente destava una certa invidia fra gli altri e come si diceva “ nu scastamienti i stomichi” cioè l'acquolina in bocca. Un episodio divertente che è stato raccontato anche dall'amico Pasquale Bennardo riguarda uno strano cartello appeso ai muri della sala da bigliardo : MURI RADIOATTIVI , NON APPOGGIARSI “. Una bella trovata per evitare che le persone sporcassero i muri appoggiandovisi. Da tenere presente che in quegli anni incominciavano a farsi i primi esperimenti nucleari. Verso la metà degli anni '50 , abitavo ancora alla “Portella”, girava per il paese Espedito Pettinato che con una specie di piccola botte rivestita con sacchi di “juta” e riempita di ghiaccio portata a mano con l'aiuto di un figlio, vendeva un buonissimo e genuino gelato al limone ( fatto con veri limoni spremuti uno ad uno ) un piccolo cono 5 lire, il più grande 10. Ogni tanto girava anche con un paniere il venditore di more ( a mura cieuza” ) 5 lire un bicchiere. Un ruolo importante era delegato ai vicinati ( i vicinanzi) . Raramente ci si allontanava da essi specie fino ai 12 , 13 anni salvo quando si combattevano le cosiddette “guerre” tra le bande dei ragazzini dei diversi vicinati. Il vicinato quindi era il luogo dei passatempi nei lunghi pomeriggi estivi. All'epoca anche i giochi di strada , cioè la quasi totalità, avevano la loro stagionalità che non era contemplata da nessun codice scritto ma che scattava nel giusto periodo legata soprattutto agli eventi climatici , c'era cioè un legame forte con la natura con l'avvicendarsi delle stagioni. D' estate la maggior parte dei ragazzi andava in giro senza scarpe e con la teste rapate a zero( “ a carusa “). Nonostante il caldo uno dei giochi più diffuso era “Scintilli” cioè una specie di nascondino che prevedeva la cattura dei partecipanti da parte di due dei giocatori della squadra , uno dei quali restava di guardia e doveva impedire che fossero liberati “i prigionieri “ che restavano con le spalle al muro. Se nel gruppo del vicinato si inseriva qualcuno più grandicello allora il divertimento cambiava radicalmente. Uno dei tanti che ricordo consisteva nel legare una moneta da 50 lire allora di carta , come ricordavo sopra, e di un bel colore verde , ad un filo di plastica trasparente che normalmente si usava per le canne da pesca. Il filo si copriva con della sabbia, allora molte strade non erano ancora asfaltate ma lastricate con ciottoli di fiume o meglio di fiumara. L'altro capo del filo era tenuto in mano con una certa disinvoltura dal più grandicello e quando il malcapitato di turno, facendo finta di nulla si chinava per raccogliere la moneta , si tirava il filo e scoppiavano le risate e non solo quelle da parte di tutto il gruppo. Veniva spesso preso di mira e ci cascava sempre mastro Genio che passava sempre alla stessa ora da quel posto cioè “ A Purtella” sempre con le mani occupate da scatoloni pieni di merce che serviva per rifornire la bottega che non era molto distante. Non c'erano grandi distrazioni e in qualche modo bisognava ingegnarsi per divertirsi e passare il tempo. Giochi tutto sommato innocenti. Non mancavano coloro che si specializzavano in qualche strana prestazione come per esempio un certo Mario che lanciava in alto , 5 0 6 metri o anche di più un fico d'india , naturalmente sbucciato e parandosi sotto con la bocca aperta doveva riuscire a far si che il frutto ci cascasse dentro; più di una volta ha rischiato di soffocarsi. Ma come si dice :” u piaciri i ru ciucci ghe ra gramigna”. Ma c'era anche di più pericoloso : al Fondaco dove mi ero trasferito verso il 1957 un ragazzo magrissimo soprannominato da tutti “judicorelli” ( non chiedetemi cosa significasse, non l'ho mai saputo ), era capace a piedi nudi di arrampicarsi come un'acrobata , senza rete , sfruttando i buchi che una volta si lasciavano sulle facciate e qualche intercapedine , fino al terzo piano e poi ridiscendere. E questo solo per il gusto suo personale e senza alcuna ricompensa se non l'ammirazione di quelli che lo guardavano con il naso in su ammutoliti, per dire l'incoscienza di tutti. E in qualche modo anche il pomeriggio scorreva.Intanto verso le 19 si svolgevano i preparativi per l'apertura del cinema all'aperto , L'Arena Castello “ allora non c'era ancora l'ora legale e verso le 20,30 era già buio. Si metteva fuori una specie di garitta di compensato dove poi dentro si sarebbe seduto il bigliettaio o la bigliettaia , la signora Gaetana se ricordo bene che faceva anche la fioraia davanti al cinema Moderno. Qualche tempo prima la biglietteria era situata un po' più sopra ,dove era stata aperta una piccolissima finestrella nel muro di cinta della villa. Dentro, intanto,si provvedeva ad annaffiare a terra e sui cespugli che emanavano un profumo che ancora ricordo. Ma già davanti si creava un certo movimento in attesa che aprisse la biglietteria , in particolar modo quando c'era la proiezione di Film tipo Maciste o Ercole. I primi Maciste erano interpretati da Samson Burke che definirlo attore mi sembra eccessivo poi anche un certo Gordon Scott. Il meno peggio se così si può dire era Steeve Reeves che però preferiva la parte di Ercole se ricordo bene, nomi indimenticabili anche se io preferivo guardare altri generi, soprattutto i western, o i “noir” del cinema francese. All'epoca anche a Corigliano era scoppiata la mania del “culturismo” e tutti si attrezzavano con “manubri” e “bilancieri “ rigorosamente artigianali . Ma ricordo che qualcuno riuscì ugualmente a costruirsi un fisico da culturista, appunto. Era la fine degli anni '50, inizi 60'. Come avrete notato i ricordi che ho cercato di narrare non hanno uno svolgersi temporale lineare, ma li ho raccontati così a zig-zag , avanti e indietro nel tempo come mi venivano alla mente, in fondo questa è la natura dei ricordi quando si evocano.