I Racconti di Angelo Mazziotti

Angelo Mazziotti, nel maggio del 1957, dopo circa quaranta anni di permanenza negli Stati Uniti d'America, dove esercitava con successo la professione di costruttore edile, ritornava per un breve periodo (circa 3 mesi) nella nostra (sua) Città a far visita a parenti e amici. Al ritorno in America inviava la seguente lettera al quindicinale coriglianese Cor Bonum:

 

Ill.mo Sig. Direttore del Cor Bonum – Corigliano

In occasione della mia purtroppo breve visita al nostro caro paesello, anzi alla nostra bella cittadina, con mio fratello Raffaele abbiamo ricordato alcune spassose storielle riguardanti uomini d’un tempo, storielle raccontateci da nostro nonno, dai nostri genitori e da nostro zio Antonio Cimino fu Andrea.

Ritenendo di fare cosa gradita ai lettori di Cor Bonum e soprattutto ai nostri concittadini residenti fuori, prego S.V. volerne pubblicare qualcuna che Vi sembrerà più interessante, iniziando da quella che riguarda don Giuseppe Calabrese.

Come titolo per questa e per tutte le altre, credo stia bene:

ACCADDE UNA VOLTA

Molti ringraziamenti e distinti saluti

Angelo Mazziotti

Don Giuseppe Calabrese

“U su Ruminichi ‘i Calavrisi”, che visse intorno al 1860, gentiluomo di stampo antico, ebbe tre figli maschi, e cioè Antonio, Giuseppe e Orazio.

Solo Antonio si sposò mettendo al mondo Domenico e Alfonso; e nel mentre il primo esercitò la professione di orefice, Alfonso fu sempre l’elegantone di Corigliano, il più elegante dei suoi tempi, tanto da essere soprannominato il “Conte”.

Sempre elegante lo rividi a New Jork e mi pare che da qualche anno sia passato a miglior vita.

Don Giuseppe, dunque, rimase scapolo, tuttavia ci fu un tempo in cui il suo cuore palpitò per una bella vicina di casa, di nome Aurora, un nome rarissimo a quei tempi, in cui i nomi femminili erano Eleonora, Matilde, Innocenza, ecc.; e il povero don Giuseppe avrebbe voluto indirizzarle qualche letterina al miele, ma purtroppo niente da fare perché la bella Aurora… era analfabeta.

Come fare?

Don Giuseppe non si perse d’animo e, siccome sapere suonare alquanto bene il piano, cominciò col dedicare alla sua bella le più dolci melodie come: “La Aurora di bianco vestita” della Mattinata di Leoncavallo, “Ecco ridente in Cielo, spunta la bella Aurora” dal Barbiere di Siviglia, “Celeste Aida” dall’Aida di Verdi, ecc. ecc.

Purtroppo, però, la bella vicina, alla musica che allieta lo spirito, ne preferì un’altra più prosaica, fidanzandosi con uno che sapeva suonare la musica dell’oro, un ricco massaro di quei tempi.

Don Giuseppe naturalmente ci rimase male e allora cambiò musica, suonando da allora “Si, tremenda tremenda vendetta”, alternandola con “La donna è mobile” tutte e due del Rigoletto.

Don Giuseppe era fatto così.

Nell’età matura, dato che passava il suo tempo fra il circolo e la casa, senza cioè alcuna occupazione, accontentandosi per vivere della piccola rendita che gli dava una masseria, un sindaco del tempo, forse don Pasquale Garetti, lo nominò Rettore al Convitto; e don Giuseppe, contento di quello impiego, lasciò la sua vita di ozio.

Non si seppe mai come ciò avvenne: cominciarono a correre sul suo conto delle lamentele, si insinuò che egli trascurava il suo lavoro e inoltre che pretendeva per lui un vitto speciale, a base di galletti, di colombini, di caprettini, nonché di qualche piatto dolce.

Ed una sera alcuni consiglieri portarono queste voci in consiglio, chiedendo senz’altro l’allontanamento di don Giuseppe dal posto; e grande fu la sorpresa di tutti quando, nel mezzo della discussione, entrarono nella sala le note del suo pianoforte, dato che la casa Calabrese, com’è tuttora, era a pochi passi dal Palazzo Municipale.

Naturalmente questo fatto andò – come suol dirsi - a fagiolo agli accusatori, i quali si affrettarono a far notare al sindaco, difensore di don Giuseppe, che l’accusato se ne infischiava di quanto si stava dicendo sul suo conto, comportandosi con strafottenza; ma il sindaco, che aveva riconosciuta la musica, li interruppe:

-      No, cari signori, nessuna strafottenza. Don Giuseppe si sta difendendo; sta appunto dicendo che non è niente vero di quanto gli si addebita. –

-       Difendendo? E in che modo? –

 

-       Sta suonando in questo momento il Barbiere di Siviglia, là dove dice che “La calunnia è un venticello!” -

Don Orazio Calabrese

Giacchè ci siamo, occupiamoci di tutta la famiglia prima di occuparci di altri tipi spassosi d'una volta. Don Orazio era il più piccolo dei fratelli, un bonaccione che si occupava della proprietà. Quando era in paese, amava frequentare i vari amici e fra questi "mastro" Mimmo Gaiani tabaccaio al "Fondaco", lo Speziale don Ferdinando Avella che aveva la "Spezieria" in una botteguccia in Via San Francesco e mio zio Antonio Cimino che aveva il negozio di coloniali e cappelli in un locale che adesso non c'è più, perché abbattuto quando l'imbocco di Via Roma venne allargato. A sinistra, su uno spazzietto andava spesso a pontificare "Stagnetta" il pubblico banditore per avvertire i cittadini che "pi' r'ordini ru Signuri Sinnichi" eccetera eccetera oppure per chiamare a raccolta i "soldati di Bacco" che "si volessero conzari u stomacu" che alla cantina di "Tuppi Tuppi era stata trivellata l'altra botte a quattro soldi il litro". Sì, a quattro soldi il litro. Che cuccagna penserà certamente qualche soldato di Bacco del 1957; ma non è così. Qualche volta anzi, quando il vino che aveva qualche difetto, per esempio era troppo "durchetto" ovvero dolcetto, lo si poteva bere anche a un soldo il litro. Come dire che per cinque lirette se ne poteva acquistare un intero ettolitro giacché, per chi non lo sappia, cinque lire erano appunto cento soldi, ma cento soldi d'una volta, cento bei soldoni lucenti colle effigi d'uno dei Re... baffoni Vittorio Emanuele II o Umberto I, quasi mezzo chilo di bronzo sonante. Che figuraccia ci fa al confronto quel pidocchietto che chiamano oggi cinque lire!! Il vino buono però, di solito costava quattro soldi il litro per cui, siccome oggi costa a 160 lire, vuoi dire che viene a costare ben ottocento volte di più! Sgranate gli occhi per la meraviglia? Eppure è così! Entrando da mio zio, don Orazio di solito vi trovava riuniti don Attilio Cimino, mastro Giuseppe Carbone, privo d'un Braccio lasciato sul campo di Custoza, massar Angelo Maiorano, il prof. Achille Tocci ed altri. Di solito don Achille sfotteva don Orazio ricordandogli il noto verso dantesco: Orazio sol contro l'Etruria intiera e don Orazio rispondeva che quello era un Orazio "riritti" mentre lui era un Orazio... "frischi", fra le risate dei presenti. Allora nel centro della piazza dell'Acquanova vi era la fontana di "Ciccio" attorno alla quale la domenica si mettevano a vendere i lupini le donne albanesi, le quali spesso bagnavano la loro mercanzia con quell'acqua nella quale i vetturini abbeveravano e lavavano gli occhi e la fronte alle bestie, ma nessuno se ne scandalizzava. Tutti trovavano la cosa più che naturale. Una mattina il nostro don Orazio va a visitare don Ferdinando e lo trova che sta preparando uno sciroppo nel retro, su un fornello a carbone, per cui tutta la "Spezieria" è invasa dal fumo del legno di pino; ma allora non vi era altra sorgente calorifica migliore di quella. Nell'attesa, don Orazio visto che sul bancone don Ferdinando aveva posto un bel chilo di fichi freschi, che doveva mandare a casa, golosetto com'era, si mise a mangiarne qualcuno; il burlone dell'amico se ne accorse e ideò immediatamente un tiro diabolico da giocare a don Orazio. Terminato, dunque, il suo lavoro, si accostò al bancone e constatato che l'altro si leccava ancora le labbra, sgranò enormemente gli occhi, guardò i fichi e mettendosi le mani nei capelli si mise ad urlare: - Ora, che hai fatto? Hai mangiato di quei fichi? Oh povero me rovinato, e povero amico che si è voluto avvelenare, ignorando che in farmacia non si lecca! Poveri noi! Uno morto e l'altro in galera! Sì perché la colpa è tutta mia che non dovevo lasciare i fichi avvelenati sul bancone! - E perché li hai avvelenati? - domandò don Orazio tremante di paura, il viso bianco, una mano alla fronte e l'altra sulla pancia come già sentendo i primi sintomi dell'avvelenamento. - Sì, li avevo avvelenati per... topi e tu li hai mangiati - rispose don Ferdinando sempre cogli occhi spalancati, le mani sempre nei capelli, sconsolato. - E vedi adesso, Ferdinà, di fare qualche cosa, non farmi morire. Tenta qualche rimedio - e si accasciò su una sedia quasi piangendo. Quello che don Ferdinando appunto aspettava, per cui prese un grosso bicchiere, lo riempì di quell'olio di ricino d'una volta, rosso, spesso, puzzolente e lo porse al povero "avvelenato" che, facendo mille smorfie, lo trangugiò tutto. Dopo ciò don Ferdinando lo accompagnò amorosamente sino alla porta, dicendogli di andare subito a casa e mettersi a letto, che gli avrebbe mandato subito un medico. E, combinazione, ne passò subito uno, una bella figura di quei tempi, alto di statura, due occhietti sempre sorridenti, un pizzetto alla mefistofele, un fiore sempre fra le labbra: don Luigi Patari che, con piacere, volle prendere parte allo scherzo. Povero don Orazio! Ne ebbe per una settimana, ma quando seppe del perfido scherzo di don Ferdinando, voleva andare ad accoltellarlo. La cosa si risolse poi amichevolmente, fra vari amici, davanti ad una sontuosa cena organizzata da mìo zio che era maestro di queste cose. 

I bei tempi del "Garopoli

Questo articolo vuole ispirarsi ai ricordi di mio zio Antonio Cimino che oltre sessantacinque anni fa era fornitore del vitto agli studenti interni del nostro Ginnasio Garopoli. Tempi belli allora per il nostro Istituto, dove affluivano gli studenti sin dai più lontani paesi della Calabria, attratti nel nostro paese sia dall'ottimo corpo insegnante e dalla serietà degli studi e dell'ambiente, sia dalla retta piuttosto modesta, sia dal vitto ottimo ed abbondante e sia anche per l'amena posizione in cui il nostro Convitto è posto, in vista, com'è, d'un bellissimo panorama, su quella collina che par quasi che allungando una mano si vada a toccare il mare. Del corpo insegnante, facevano allora parte professori di chiara fama, come Achille Tocci, Mortati, Cadicamo, tutti e tre italo-albanesi, e Benedetto Leoni della bella e dotta Bologna, professori che tra una lezione e l'altra, trovavano persino il tempo di pubblicare una Rivista letteraria dal titolo: "Adolescenza ". Il nostro Convitto allora era come una piccola Caserma giacché tutto vi si svolgeva a suon di tromba, un'autentica tromba militare, le cui note echeggiavano per tutto il Vallone Sant'Antonio, l'Orto del Duca e i Pignatari, invitando gli studenti allo studio, alla sveglia, al riposo: le note più belle, quelle che facevano sussultare di gioia, erano però sempre quelle che il fante da tempo, da sempre, ha tradotto nelle allettanti parole: "la zuppa l'è cotta venite a mangià", e a queste belle note, quei ragazzi andavano sollecitamente a prendere posto nei lunghi tavoli del refettorio, mentre in un tavolo più piccolo, prendevano posto gli istitutori che allora venivano chiamati nientemeno che Prefetti! Ho detto che il vitto era ottimo; difatti mio zio sapeva fare le cose a dovere ritirando roba di prima qualità e direttamente, come pasta, riso, legumi, zucchero, caffè ecc. e quanto alla carne, che non sempre era trovabile nelle macellerie, aveva di suo un intero gregge affidato alle cure di un certo "Malagaccia", che era nel contempo pastore e macellaio. Fu forse il buon nome di Corigliano ospitale, unitamente al profumo della cucina di "Monsù" (cuoco napoletano), che varcando i confini andò a finire nella lontana tedescheria? Certo si è che ben tre professori germanici, in epoche diverse, calarono nel nostro Convitto, e non certo per intrattenere i nostri studenti sulla Trilogìa dei Nibelungi e sulle leggende di Tristano e Isotta, di Sigfrido dell'Oro del Reno ecc. ma soltanto per chiedere graziosa ospitalità. Il primo si chiamava Reynolds, un distinto signore che passava il tempo a leggere testi latini. Dopo ne venne un altro di cui non si ricorda il nome e che dopo pochi giorni se ne tornò in Deutschland, portandosi via Reynolds, il quale, sempre secondo mio zio, pare che fosse un ex amico del Kaiser Guglielmo I, e che caduto in disgrazia presso l'imperatore, avesse scelto volontariamente l'esilio. Il secondo tedesco era venuto appositamente da Berlino per indurre il primo a tornare in Germania, perché l'imperatore gli aveva riconfermato la sua amicizia. Naturalmente Reynolds era capitato a Corigliano per puro caso, dopo avere alquanto vagato per l'Italia. Anni dopo arrivò il terzo tedesco nella persona del professor Rield, un omino piccolino, biondissimo, il quale nel Convitto passava il suo tempo dipingendo qualche quadretto, insegnando disegno privatamente - giacché questa non era allora materia d'insegnamento - e coltivando fiori. Quella villetta, per esempio, che è vicino all'ingresso, è opera sua e naturalmente era assai bella e assai ricca di fiori a quell'epoca. Il resto del suo tempo Rield lo passava in compagnia del suo bellissimo cane, un grosso animale di razza, e quindi di un certo valore. Povero Rield! Chissà quanto deve aver sofferto per il suo povero amico quando decise di sacrificarlo! Si era in piena guerra 15-18, e non appena si venne a sapere che il nostro Ministero della Guerra requisiva questi grossi cani per addestrarli agli usi bellici, Rield lo avvelenò, commettendo quasi un delitto; ma occorre tenere presente, nel giudicarlo, la sua mentalità teutonica: non volle che il suo cane, quasi un altro sé stesso, contribuisse alla disfatta del suo paese, sia pure in minima parte! Sempre a quei tempi, gli occhi del mondo erano rivolti alla Francia (parlo di oltre sessantanni fa) e più precisamente a Parigi, dove un gruppo di uomini coraggiosi, fra cui il famoso Santos Dumont, volendo imitare i fratelli Montgolfier, si levavano in un cesto di vimini legato ad un pallone di seta pieno di idrogeno (aeròstato), e si lanciavano lungo le vie del Cielo, dando luogo spesso ad atterraggi assai drammatici. In tutta Corigliano, quello che più d'ogni altro si interessava a queste peripezie, era proprio il professor Cadicamo, il quale un bel giorno, prendendo a pretesto l'imminente festa del Santo dei Gigli, volle almeno idealmente volare anche lui, mettendosi d'accordo coll'allora sagrestano, il più geniale, il più intelligente, il più artista sagrestano di tutti i tempi: tutti e due prepararono un grosso pallone di carta velina di vari colori da lanciare nello spazio la sera della vigilia della festa. A quell'insolito avvenimento, molta gente era accalcata nella piazzetta davanti alla Chiesa, nella sottostante Villa e in tutte le finestre e i balconi del Vallone Sant'Antonio, e tutti seguivano trepidanti l'armeggio di Cadicamo e di Guidone, il sagrestano. Un coro di applausi si levò quando il maestoso pallone si alzò lievemente, ondeggiando sulla testa dei presenti. Tutto a un tratto, però, un grido di dolore si levò dalla folla: uno dei presenti, stando col naso in su, aveva ricevuto in pieno viso qualche goccia di pece ancora caldissima. Il professor Cadicamo accorse per primo verso il poveraccio, e resosi conto di tutto, tra l'ilarità generale, non potè fare a meno di gridargli in faccia: "e tu chi facìa là suta cu lu nasu al'aria? Ti cridìa ca ti cadianu li suprisati?"

Briganteide

Nostro nonno, Raffaele Mazziotti, fu Luigi e fu Teresa Navale (famiglia da molto tempo estinta), fu in gioventù un tipo alquanto avventuroso.

Per prima cosa seguì Garibaldi, quando l’Eroe risalì la Calabria. Prese parte a vari combattimenti, conobbe Nino Bixio e ritornò a casa dopo la famosa resa da parte delle truppe borboniche. Portò con sé un piccolo armamentario (ricordo dell’epica impresa) e cioè un “parafulmine” con tutta la baionetta e due sciabole, che spesso venivano date in prestito a dei giovanotti, allorché aveva luogo quello incivile torneo carnevalesco detto “la papera”.

Il nonno, tornato a casa, trovò che bisognava combattere un’altra guerra, quella contro il banditismo. Si arruolò, quindi, nella Guardia Nazionale, la quale, unitamente ai bersaglieri di Fumel, dava la caccia ai briganti.

Allora nel nostro territorio operavano diverse bande di briganti, tra cui quella dei fratelli De Vulcanis, i quali non erano dei veri e propri briganti, ma borbonici irriducibili. A costoro veniva data una caccia relativa che venne accentuata dopo che una certa sera…

Una certa sera, dunque, questi erano scesi in Paese per abbracciare la mamma, la quale abitava in un vicolo del “Cozzo Cimino”. Ma sorpresi dalla Guardia Nazionale, agli ordini del comandante Dragosei, ne nacque un violento tafferuglio in cui il povero Dragosei rimase ucciso.

Fumel per poter catturare i fratelli De Vulcanis fece arrestare la di loro madre, minacciando di fucilarla se no si fossero spontaneamente costituiti, il che fecero nelle mani del Barone Compagna.

La vera caccia era invece data alla banda di Domenico Palma, che ne commetteva di tutti i colori, fra cui la cattura del giovane Alessandro De Rosis, per il cui rilascio la famiglia dovette sborsare una fortissima somma.

Un giorno ci fu in montagna una vera battaglia: briganti da una parte e bersaglieri e Guardia Nazionale dall’altra. Lo scontro fu cruento e moltissimi fuorilegge furono uccisi ed altri catturati vivi. Al ritorno di tale battaglia ai cittadini di Corigliano fu offerto un orrendo spettacolo.

Infilzati su lunghe pertiche erano delle teste di alcuni briganti, che, dopo averle fatte girare per tutto l’abitato, furono poi piantate in una fossa di calce che allora si trovava in Piazza del Popolo, e precisamente dove si trova adesso la cartoleria Cardamone e la salumeria Viscardi. Tale vista fece rabbrividire i coriglianesi per parecchi giorni.

In seguito venne poi la fine del loro capo, Domenico Palma, ucciso, come allora si disse, a tradimento da un compare.

Il quartier generale di Fumel era nell’ex convento dei Cappuccini, il quale serviva anche da carcere, e da più giorni vi si trovava un povero signore, certo R. accusato di essere favoreggiatore dei briganti e, regolarmente, era in attesa di essere giudicato da un Tribunale che avrebbe potuto anche riconoscere la sua innocenza o quanto meno essere condannato ad una data pena, ma Fumel andava per le spicce.

Una notte, infatti, alcuni bersaglieri penetrarono nella cella del prigioniero, la quale era posta sulla facciata del convento medesimo, e con acuminati pugnali si dettero ad inveire sul povero disgraziato; le urla del quale arrivarono fino a Piazza S. Francesco, e così morente fu buttato dalla finestra e la sentinella che era a guardia della porta lo finì con una fucilata.

Erano tempi assai tristi quelli!

Da una parte vi erano i briganti che, di notte, si introducevano anche nel centro abitato, dall’altro il pericolo che Fumel ti facesse arrestare per il più piccolo sospetto. Si respirava, quindi, aria di terrore.

 

Di detti tempi è rimasto adesso un lontano, triste, ricordo.

I caffè di una volta

Erano quanto di più semplice si possa immaginare. Vi si serviva l'aromatica bevanda, che non sempre era perfettamente genuina, qualche bicchierino di anice  addirittura di spirito crudo - di rosolio e di rum. Quanto a leccornie, vi si trovavano o solo quelle caramelle vitree fatte in casa (e più tardi le caramelle di Torino 5 un soldo) e come dolci, certi cosini fatti a casa e chiamati "graffaioli". A San Francesco, sotto casa Pometti, aveva l'esercizio e la casa don Luigi " i ra casina", che ricordo molto bene quando metteva la fornacetta davanti alla porta per abbrustolire i verdi chicchi, profumando l'intero quartiere. Vicino alla Chiesa di Santa Maria era Basile Gallina, un omone che anche quando parlava piano, la sua voce stentorea si sentiva per tutto il Fondaco. Sapeva preparare due specie di poncini, uno che faceva su ricetta dell'indimenticabile maresciallo Bellagamba e che si chiamava "toscanino", e l'altro su ricetta di don Gaetano Attanasio, valoroso avvocato di Corigliano e che si chiamava "un Attanasio". Il maresciallo, l'amico di tutta Corigliano, per quanto Bellagamba di nome, era bruttagamba , perché ne aveva una più corta e camminava dondolandosi come un pinguino. Alla "Gghiazza" era il caffè Misurelli, composto di due reparti. In uno più modesto entrava la plebe che veniva servita in piedi dal cerimonioso "zu Michele" o dal burbero don Peppino. Nell'altro locale, invece, andavano solo a sedere i signori, e se un artigiano si permetteva il lusso di andarvisi a sedere anche lui, non veniva certo guardato di buon occhio. I Misurelli erano bravi pasticcieri per quei tempi, e specialisti della squisita pasta reale e delle magnifiche sciuscelle . Peccato che questo antico caffè sia sparito. All'Acquanova, dov'è adesso il "Combattente", vi era Marco Santolucido, sempre allegro, sempre gentile. Se il suo caffè non era assolutamente puro, era però corretto da una infinità di schizzi di liquori vari. Una volta "inventò" il caffè degli ubriachi della domenica sera, ovvero aggiungeva nella tazzina un cucchiaino di caffè in polvere, così che quella "zuppa " si poteva berla e nel contempo mangiarla. Gli ubriachi la trovavano gustosa ed erano convinti che effettivamente faceva svaporare la sbornia. Vicino al negozio Romanelli vi era il caffè di "Staffile", un signore chiamato così forse per la sua lingua mordace; dopo di lui vi fu Carmine Tiano, e siccome il locale era sempre zeppo di gente scamiciata e attaccabrighe, il locale venne chiamato "ritrovo messicano". Accanto al portone Caruso, era l'"Antico caffè Domenico Avella". E difatti in quel locale tutto era antico: i tavolinetti zoppicanti, le sedie sfondate, i vetri coperti di polvere e, ben visibili, tracce di mosche, ecc. ecc. "Zu Ruminichi" però era un uomo molto attivo e si occupava anche di carboni, di miele, di formaggio, ecc. E siccome qualche formaggio, oltre che nell'apposito magazzino, lo si poteva trovare anche nell'esercizio del caffè, l'aromatica bevanda che "zu Ruminichi" preparava molto bene, era nel contempo caffè al profumo di... pecorino! Dov'è adesso il signor Sinardi, era un altro caffè tenuto da un altro signore molto cerimonioso, Fortunato Scavelli. Dov'è ora con la cartoleria la signorina Pellegrino, era "zu Pietri i Cavalluzzi". Il suo vero cognome era Montalto. "Zu Pietro" fu, in un certo modo, il precursore delle moderne macchine espresso perché, mentre gli altri "caffettieri" preparavano il caffè nel retro bottega in alte cogome di ottone poste sui fornelli a carbone, "zu Pietro" invece aveva sul banco di legno, foderato di zinco lucente, uno di quei cosi di latta, fatti dai nostri stagnini e chiamati "papunielli" , ossia italianizzando il vocabolo - vaporino - e il caffè, sempre buono anche quello di "zu Pietro", non cadeva fischiando nella tazzina con manovre di complicati sistemi di leve, ma solo aprendo un "canalicchio" di ottone. Più giù c'era il caffè di Risafi, meta e sosta obbligatoria degli agricoltori ed operai che si recavano al lavoro. Oggi i locali sono diversi, molto belli e molto ben forniti di tante cose squisite, ma allora era un'altra cosa. 

I barbieri di Corigliano

Nella Cina d'una volta, in quella cioè, degli Imperatori figli del Cielo e dei Mandarini dal lungo codino, non so perché la classe dei barbieri era la più infima dell'allora scala sociale, più infima ancora di quella degli stallieri, degli spazzini e persino di quella degli uomini del "Risciò". In Occidente, invece, la cosa è sempre stata diversa. I barbieri sono sempre stati delle personalità importanti, tanto che di uno di loro a nome Figaro si occupò anche l'arte, e tutti lo volevano perché era un barbiere di qualità. E siccome alle varie attività Figaro univa anche quella di "paraninfo" di prim'ordine, godeva pure dell'intimità di un certo Conte D'Almaviva e d'una bella Rosina. Anche i barbieri della mia età verde erano persone importanti, più importanti di quelli attuali che, in un certo senso, hanno perduto molto del loro prestigio. Quelli d'una volta, infatti, oltre a tagliare capelli e radere barbe, magari servendosi di strumenti degni d'un maniscalco, strappavano pure i denti (è la vera parola!), facevano i salassi - cosa che da tempo lo Stato ha avocato a sé, servendosi degli agenti delle tasse, dei ricevitori del Registro e degli uffici daziari, ecc. - guarivano di certi dolori servendosi delle coppette, applicavano le mignatte e infine (ma vi prego di non arricciare il naso) facevano anche i... clisteri! Inoltre, mentre l'esercizio del calzolaio, del sarto, ecc. si è sempre chiamato molto volgarmente bottega, quello del barbiere, invece, si è sempre chiamato "SALONE", il che vuoi dire, perlomeno, grande stanza, non importa se in effetti si è sempre trattato di un bugigattolo di solo qualche metro quadrato di superficie e molte volte addirittura d'un sottoscala. Uno di questi "saloni" era allora vicino alla Villa ed era anche di "First Class" - che in inglese vorrebbe dire di prima classe - anche se si trattava d'un bugigattolo. A "Cerrìa" era il bugigattolo del "Sanizzo" , un omone sempre allegro, che serviva gli acresi, sforbiciando chiome assaloniche d'un anno e sbarbando barbe di oltre un mese per la grossa somma di 10 cent. In Via Principe Umberto era il Salone Arena, composto di due reparti, uno molto alla buona, con una semplice sedia casalinga e uno specchietto di pochi centimetri quadrati per la plebe, mentre nell'altro reparto, messo su un po' meglio, avevano libero accesso i... galantuomini soltanto. Erano i tempi! E guai al proletario che volesse invadere l'altro campo. Il cerbero di Mastro Antonio Arena ci teneva a non fare violare i confini! In quelle bottegucce del principio di Via San Francesco vi erano i barbieri che servivano per lo più contadini e che allora, a differenza del celebre Figaro, che teneva sulla porta un lanternone, tenevano invece appeso alla porta un curioso catino d'ottone di forma ovale e dal fondo bombato, un coso insomma che il celebre Cavaliere della triste figura, il grande Don Chisciotte, prese a modello come copricapo degno di figurare sulla sua ferrea armatura. Questi altri illustri personaggi si chiamavano Pietro Cardillo, che alternava il mestiere di barbiere con quello del... pescivendolo, mastro Alfonso Marino che - siccome vecchio gli tremava la mano faceva mettere al cliente, vecchio anche lui e con la faccia rugosa, una piccola palla di legno in bocca per potere più agevolmente appoggiare il rasoio sulla pelle divenuta più liscia. La palla passava, poi, nella bocca del cliente che seguiva. Vi era ancora un altro a nome Vincenzo Schiavelli e, infine, un bel tipo alquanto burlone, a nome Domenico Scarcella. Una volta si dovevano tenere le elezioni per il Consiglio Comunale e la benemerita classe dei barbieri volle avere un suo rappresentante al Consiglio. La scelta cadde su mastro Domenico, il quale risultò eletto con un buon numero di voti. Figurarsi la gioia dei barbieri, che acclamarono il proprio rappresentante in una entusiastica dimostrazione, a cui si unirono anche gli altri artigiani e una grande folla. Fortuna per mastro Domenico che allora non erano di moda gli autografi, altrimenti ne sarebbe rimasto imbarazzato perché avrebbe dovuto firmare col... segno di croce. La folla acclamante pretese che facesse il discorso di ringraziamento agli elettori; lo issò di peso su quel coso di pietra chiamato il "menzullo" e qui mastro Domenico tenne il suo discorso, che molto opportunamente dovrebbe servire di esempio a qualche uomo politico di oggi, a quelli che tengono quei chilometrici, sconclusionati, noiosissimi discorsi che non finiscono mai: "Vi ringrazio a tutti a tutti, buona notte a tutti a tutti". Evviva mastro Domenico Scarcella! 

Don Natale Servidio

Veramente il suo cognome era Servidio, ma non ho mai capito perché ai suoi tempi lo chiamavano Marinaro.

Era un bell’uomo, alto di statura, ed aveva una possente voce baritonale che, quando parlava, spiegava a tutto volume.

Era grande amico di mio zio Antonio Cimino, e quando questi aveva ancora il negozio in piazza, don Natale, quasi tutte le mattine, andava a trovarlo per bere insieme il solito poncino al rhum; spesso interveniva anche il fratello don Peppino che aveva la Ricevitoria del Lotto “a ra gghjazza”, sempre protestando contro la carenza dei generi alimentari e specialmente della carne di capretto, che tanto piaceva a quella che chiamava la Regina Taitù e che era sua moglie, perché quella carne si vendeva allo scandaloso prezzo di lire 0,70 al chilo, ovvero meno di una lira (oggi a ben 900 lire).

Poi insieme commentavano i vari fatti del giorno e specialmente le malefatte di una lingua velenosa per quei tempi, che don Natale chiamava “murghiggiuni”; poi don Natale acquistava il “foglio”, che di solito era la Tribuna, perché allora riportava ogni giorno un meraviglioso articolo di fondo di Rastignac e andava quindi ad aprire la sua Taverna che era vicina all’attuale negozio del Signor Sinardi.

Dove è adesso il Signor Sinardi, anzi, vi era la Taverna della Sia Vittoria, una bella donna dai capelli nerissimi e graziosamente ondulati, che stava nell’esercizio al posto del marito, che nel carcere scontava una severissima pena avendo ucciso l’allora Capo Stazione, e mi pare che la Taverna di don Natale fosse il locale accanto.

La taverna allora era il negozio di generi alimentari di oggi, ma con quanta differenza circa l’ammobigliamento e la pulizia!

Accanto all’olio vi era il petrolio, accanto al formaggio, allo strutto, ai salumi, ecc. vi era la “reda”, e non era raro che vi si vendessero anche i carboni; ma la caratteristica maggiore era costituita da una infinità di filari di fichi sulle varie pertiche che pendevano dal soffitto, bellamente esposti alla polvere, alle mosche e ai ragni, che spesso si stendevano su una leggiadra tela, insomma niente di pulizia, niente igiene; e venne quasi da pensare che questi vocaboli non erano ancora stati coniati dalla Accademia della Crusca.

Aperto l’esercizio, don Natale si sedeva fuori la porta, apriva il foglio e cominciava a leggerlo, cominciando dai resoconti della Camera, a voce altissima e con tanta velocità che oggi si direbbe ipersonica, e, cosa davvero curiosa, al nome di qualche Ministro e di qualche Deputato o di qualche Senatore, con il solito ghigno soleva aggiungere un: ih latru filatu! Ih porco filato! Ih lazzaruni filato! Ma io oggi non saprei dire a chi erano indirizzati quegli epiteti, perché gli uomini politici più in vista di allora si chiamavano Zanardelli, Giolitti, Luzzatti, Bissolati, ecc.

La gente spesso faceva crocchio e qualcuno voleva sapere che cosa di importante don Natale stesse leggendo, ma lui seguitava imperterrito nella vertiginosa lettura e solo quando si avvicinava Ciccuzzo si degnava dare qualche spiegazione.

Poi mio zio smise il negozio ed andò a impiantare l’ufficio per la direzione della sua Impresa Elettrica ai due locali sotto l’Orologiaio e don Natale fu il primo che tutte le sere andava a tenergli compagnia, subito imitato da vari altri amici che qui mi piace evocare: don Attilio Cimino col suo inseparabile Giuseppe Carbone, che in guerra aveva perduto un braccio e che mio zio appellava pomposamente “Eroe di Custoza”! Poi venivano i fratelli Pasquale e Francesco Sciarpa che facevano gli “staccatori”, ovvero i commercianti di cuoiami, l’orefice Sapia con il nipote don Peppino Mancuso, don Raffaele Leonetti, don Giovanni Fiore e spesso a portare una nota di gaiezza, don Ruggero Graziani che don Natale chiamava dò Rizzieri.

Quando mio zio aveva sbrigato i suoi affari, si avvicinava agli amici seduti intorno a un gran tavolo, venivano fuori le carte e tutti si sprofondavano nel solito tressette, tutti intenzionati a… rovinarsi e a rovinare gli altri. E difatti, dopo un’intera serata di partite, ne venivano fuori al massimo due litri di vino (40 centesimi) più due soldi di castagne cotte al forno, insomma in tutto mezza lira!

Ma il divertimento non era soltanto quello. Il maggior divertimento erano le gridate, gli strilli, i rimproveri, qualche volta esagerati, che don Natale lanciava spesso al suo compagno di gioco, perché don Natale era quello che giocava meglio di tutti, tanto che mio zio lo chiamava “il valoroso”, e i suoi compagni scalcinati erano don Raffaele Leonetti, don Giovanni Fiore, specialmente, e un po’ tutti gli altri.

Allora, invitati dalle importanti ditte della Riviera Ligure, venivano spesso a Corigliano degli esperti davvero in gamba chiamati assaggiatori d’olio, i quali col semplice assaggio sapevano determinare il grado di acidità del prodotto, e fra questi esperti mi piace di ricordarne uno veramente eccezionale, ovvero il bravo poeta di fama nazionale Angiolo Silvio Novaro, che però a Corigliano non venne mai.

Don Rizzieri allora commerciava in olio e una sera ti arriva nell’ufficio di mio zio accompagnato da uno di questi assaggiatori, per l’acquisto e preventivo assaggi di una grossa partita, e che presenta subito agli amici.

Si chiacchiera un po’, poi si dà mano alle carte, al cui gioco viene naturalmente invitato a prendere parte.

Questi poverino si schernisce, perché dice di non sapere giocare, e per sfortuna capita compagno di don Natale.

Figurarsi lo stato d’animo degli amici che conoscevano le escandescenze del “valoroso”! Ma la partita sebbene a stento procede quasi senza inciampi; ma all’ultimo un grave errore commesso dal povero ligure e che fa perdere la partita, fa scoppiare don Natale, che fino a quel momento si era sforzato di stare calmo, il quale butta per aria le carte ed inveisce contro il povero compagno: “Chi ci vò aviri na taccia ‘ntra capa! Và joca a ri stacci”!

 

Momento di grande perplessità in tutti, ma subito “dò Rizzieri” scoppia a ridere seguito dagli altri, compreso lo stesso don Natale che, pentito, chiede scusa e l’incidente viene liquidato.