I Mestieri di un tempo

Questa pagina, i mestieri di un tempo, la dedico ai nostri padri e in particolare al mio, che con sudore, fatica ed ingegno riusciva a portare a casa un tozzo di pane. La dedico anche ai giovani di oggi che, forse, non conoscono neanche l’esistenza di questi mestieri. A loro dico semplicemente che non dobbiamo di certo ritornare “ aru  curdàrә” ,”aru  pignatàrә”,… , del resto oggi improponibili, ma che, invece, bisogna lottare democraticamente per un posto di lavoro e apprezzarlo con dignità ed onestà. Un grazie particolare al prof. Enzo Cumino, a Gerardo Bonifiglio e a tutti coloro che vorranno in seguito aggiornare con i loro racconti questa pagina. Grazie

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I lavannàrә

Tra i classici antichi che tanto parlano del lavoro delle lavandaie, il libro VI dell'Odissea, il libro che canta la dolce Nausica, rimane quello più scolpito nella nostra memoria. La poesia di quel libro ha esaltato tanto il lavoro delle lavandaie che molte volte abbiamo dimenticato la dura realtà delle donne chiamate a così gravoso compito: con il caldo più arido e durante i freddi più terribili, le lavandaie dovevano recarsi al fiume, per una manciata di soldi, e rendere pulita la biancheria dei "signori" e di chi poteva "pagare". Tra la fine degli anni '50 e gli inizi degli anni '60, con l'immissione sul mercato delle lavatrici elettriche, anche questo mestiere durato millenni è scomparso. A Corigliano, le lavandaie andavano a lavare i panni nel Coriglianeto, torrente che ha avuto, attraverso i secoli, un'importanza economico-sociale rilevante per tutta la cittadinanza: le sue acque, infatti, sono state utilizzate per bere, fabbricare, lavare, irrigare; ancora oggi molti "giardini" di Corigliano vengono irrigati con le sue acque. Nel torrente ogni lavandaia aveva un "suo" posto; anche gruppi di lavandaie usavano avere come punto di lavoro sempre lo stesso posto. I posti erano i seguenti:

a) il più frequentato, nei pressi dei mulini, sotto "Cirrìa";

b) nella zona del "Cafarone";

c) sotto il "Ponte Margherita". Nel proprio posto ognuna aveva la "sua" pietra rettangolare su cui "si stricavàn'i panni" per la prima lavatura. Ogni famiglia, circa ogni quindici giorni, affidava la biancheria ad una lavandaia di fiducia. Bisognava, innanzi tutto, scegliere i capi, cioè fare la "nota" dei singoli pezzi da lavare, nota che veniva tirata fuori all'atto della consegna della biancheria lavata. Era cura della famiglia dare alla lavandaia un numero di "petrә" di sapone fatto in casa adeguato alla quantità dei capi da lavare. Si dava, ancora, alla lavandaia un fascio di legna, di ulivo o di quercia, per fare "'a lissìa" (la lisciva) e della cenere accumulata in casa durante le due settimane precedenti il bucato; infine, una ricca ed abbondante colazione che la lavandaia consumava al fiume durante la giornata. I panni venivano messi in una "sporta" (cesto) fatta di canne, dal diametro di circa cm. 100; le lavandaie usavano recarsi al fiume con il cesto sulla testa, protetta dallo "stifagnә" (cercine). Quando, a sera, la lavandaia riportava il bucato pulito alle famiglie riceveva il pagamento per il lavoro svolto. Quando nasceva un bambino, la prima biancheria della partoriente, compresa la placenta (da buttare nel torrente), veniva data, per essere lavata, alla lavandaia, alla quale il capofamiglia faceva un bel regalo, in soldi. In seguito, durante i primi 6 mesi di vita del neonato, la lavandaia andava a casa della puerpera un giorno sì e un giorno no (di sera, al tramonto, al termine della sua giornata lavorativa); portava la biancheria pulita e si prendeva quella sporca; in tal caso, la remunerazione avveniva ogni mese. Particolare importanza aveva il lavoro delle lavandaie quando bisognava "curare" il corredo delle giovani fidanzate o delle giovani spose coriglianesi. Il corredo veniva fatto al telaio. La tela uscita dal telaio, quando era tutta intera, cioè prima che diventasse lenzuola, era di colore bianco-sporco. Perciò essa veniva data alla lavandaia in piena estate, perché ripetutamente fosse lavata nelle acque del Coriglianeto e poi venisse "curata" attraverso parecchi bucati fatti a mezzo di "lissìa" (lisciva, cioè cenere di legna consumata bollita con acqua). L'acqua veniva bollita in una "vastarda" (grande pentola di rame con due manici) poggiata su due enormi pietre; la tela veniva messa in una cesta, appoggiata sempre su due grandi pietre, per fare colare l'acqua. La lisciva bolliva per circa un quarto d'ora e veniva, poi, versata sopra alcuni strofinacci che venivano posti sopra la tela, per cui la lisciva pulita, cioè senza la cenere (che restava sopra gli strofinacci) penetrava lentamente sulla tela, rendendola bianca. Per renderla ancora più bianca, le lavandaie adoperavano "'a vujna", cioè le feci morbide delle vacche; dopo di che la tela veniva stesa sulle pietre per asciugarsi ai raggi del sole. Alla fine, veniva più volte sciacquata nell'acqua limpida e pura del torrente.

(Enzo Cumino)

'U fruggièrә

'U fruggièrә era l'arte di lavorare il ferro . Si parla di arte perchè , negli anni che furono , ogni prodotto (manufatto) si realizzava manualmente. Non esistevano i laser (taglio laser) o le macchine tecnologiche di oggi. Pertanto il lavoro era molto faticoso perchè l'uomo aveva a sua disposizione solo l'acqua, il fuoco e il ferro, oltre ai pochi attrezzi rudimentali, come l' incudine, i martelli, le tenaglie ... Particolari fruggièrә erano i maniscalchi , cioè coloro che ferravano cavalli, muli, asini e provvedevano anche alla pulitura degli zoccoli con punteruoli e tenaglie. I ferri venivano  forgiati al momento, e su misura, a seconda delle necessità dei cavalli. Negli anni ’50 esercitava questo mestiere “Fofonz’ ‘u napulitanә , Alfonso Capalbo , coadiuvato dall’assistente Francesco Iannini (‘a zirra) in un piccolo e angusto locale di via Abenante (zona S.Antonio). Mastro Fofonzi, mentre cantava “ ‘O sole mijә” , arroventava la piattina di ferro nel fuoco per poi batterla con forza sull’incudine, mentre il cavallo attendeva legato ad un cerchio di ferro sul muro fuori della bottega. La comicità di questi due personaggi non era certamente di meno a quella dei più noti Totò e Peppino. Era un continuo "sfottò" di Alfonso  nei confronti di Francesco, che stava al gioco, nel senso che simulava, con la complicità di Fofonzi,  grandi litigi per la gioia dei passanti, soprattutto per noi alunni della scuola Media Garopoli.

I mastrә carrierә

Tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del nostro secolo, Corigliano attraversa un periodo di crescita economica apprezzabile: i cuonzә, le fabbriche di liquirizia, collocano i loro prodotti persino sulle piazze più importanti d'Europa; i trappitә, i frantoi, producono qualità di olio purissimo che si afferma in tutta Italia: si sviluppano le fabbriche dei pignatàrә (vasai) e le fornaci dei mattunàrә (mattonai). Le varie attività, artigianali e non, sono legate in vario modo e sempre in maniera più forte al settore portante dell'economia coriglianese: l'agricoltura. E’ questo il periodo in cui cominciano ad affermarsi le grandi famiglie dei "massari" coriglianesi, che investono sempre più nelle attività legate alla conduzione di fondi e che hanno, perciò, sempre più bisogno di migliorare la qualità dei prodotti delle loro aziende e di inviarli, in maniera più spedita, sui vari mercati, al termine del raccolto. E' in questo clima che due giovani fratelli, Francesco e Antonio Pappacena, intraprendenti artigiani carrierә (carrai) di S. Giuseppe Vesuviano (NA) vengono in Calabria all'alba del XX secolo, attratti dalla possibilità di buoni guadagni in un settore privo di concorrenti nella nostra zona. Francesco decide di fermarsi a Castrovillari (e qui diventerà l'iniziatore di una tradizione spentasi nei primi anni del 2° dopoguerra); Antonio Pappacena (1876 1970), invece, viene in Corigliano, si sposa e mette su bottega in Via Margherita al N. 36, dirimpetto all'oleificio della famiglia Fino. Il giovane Antonio dà vita a questa attività artigianale in Corigliano e avvierà, poi, al mestiere i suoi due figli Vincenzo ed Agostino, che continueranno la tradizione di famiglia, diventando espertissimi nell'arte di costruire carri da trasporto. Il grano, la radice di liquirizia,la frutta , l'olio, tutti i prodotti della nostra terra vengono trasportati con mezzi costruiti, in oltre mezzo secolo di attività, dai mastri carrai di Corigliano. Oltre ai figli, divennero mastri alcuni discepoli di mastro 'Ntonio e come lui furono apprezzati in Corigliano e fuori: i fratelli Eugenio e Giovanni Fiore; Giuseppe Massimilla; mastro Vincenzo e mastro Giuseppe 'i ru pontә, la cui bottega era ubicata nei locali posti all'inizio della strada provinciale che dal ponte Margherita porta a S. Giacomo d'Acri. I mastrә carrierә (i mastri carrai) costruivano i mezzi di trasporto essenziali per i prodotti agricoli della nostra zona. Vediamo un po' quali erano tali mezzi:

'u carrә (il carro), utilizzato per il trasporto dei prodotti delle masserie, per i trasporti pesanti in genere, era tirato da una parìgghjә (coppia ) di buoi;

'u traìnә (il tràino), veicolo più leggero del carro, veniva utilizzato per trasporto di merci in genere ed era trainato da un cavallo, da un mulo o da un bardotto;

'a carretta (la carretta), adibita al trasporto dei prodotti provenienti da 'i vissellә, cioè i prodotti ortofrutticoli, era trainata da un cavallo;

'u carruzzinә (il carrozzino), adibito a trasporto di una o due persone e munito di cappotta, era trainato da un cavallo;

'u birocciә (il biroccio), una variante del carrozzino, costruito con materiale più leggero e più pregiato, pitturato con olio di lino, di color noce, era - in un certo senso - la fuoriserie dell'epoca, giacché il proprietario lo utilizzava nei giorni festivi, per diporto. 

Le parti principali di questi veicoli, a trazione animale, erano le ruote e le sponde. La ruota era formata da: 'u mijuolә (il mozzo), ‘i rajә (i raggi), 'i gavigghjә (legni lavorati e conformati per delimitare la circonferenza della ruota),'u circhjùnә (cerchi di ferro messo intorno alla ruota per renderla più resistente). Altre parti importanti di tali veicoli erano: 'i sdangә (le stanghe) e 'a martillina (il freno a mano), da cui l'espressione popolare: "tir'a martillina!", cioè "frena la tua loquacità!". Nella putiga (bottega) del mastro carraio, erano indispensabili : 'a forgia (la fucina), 'a 'ncugna (l'incudine),'u scannә (un attrezzo formato da quattro piedi di legno, che sostenevano due assi orizzontali, uniti da due assi verticali) che serviva per i lavori di ascia, cioè per modellare i raggi e ri gavigghjә. Tutt'intorno, alle pareti della bottega, erano messe in ordine a catastә, l'una sull'altra, pile di legno di castagno; quello di noce veniva utilizzato solo per costruire birocci. L'attività dei mastrә carrierә si affermò subito sul nostro territorio, come abbiamo già spiegato, proprio in relazione alla prosperità agricola di Corigliano, al punto che - in mezzo al popolo - essa veniva denominata 'u mmistierә (il mestiere) per antonomasia. Il lavoro dei mastri carrai era particolarmente faticoso, anche se decisamente gratificante. Il momento più alto della lavorazione era senz'altro quello in cui la ruota prendeva la forma definitiva, cioè quando 'u circhjiunә (il cerchio di ferro) veniva lavorato e modellato per essere sistemato lungo la ruota di legno. La lavorazione 'i ru circhjiunәera uno spettacolo, faticoso e creativo per l'attore (il mastro), piacevolissimo ed ineguagliabile per gli spettatori. 'U circhjiunә era un'asta di ferro lunga quanto la circonferenza della ruota e, quindi, bisognava farla arroventare, per modellarla poi alla ruota circolare. Tale ferro veniva messo su un fuoco di forma circolare (all'aperto davanti alla bottega) e lì doveva rimanere per circa tre ore (di solito dalle tre di notte alle sei del mattino); divenuto incandescente, era pronto per essere modellato e conformato alla ruota. Alle sei circa, ancora incandescente, il ferro veniva tolto dal fuoco e appoggiato su un incudine predisposta all'aperto; sopra l'incudine veniva posta una piastra di ferro su cui poggiava il cerchio; il ferro arroventato veniva sorretto - con due lunghe maniglie - dalle solide braccia di almeno due giovani apprendisti. A questo punto iniziava "lo spettacolo" vero e proprio. Mastro Vincenzo e mastro Agostino Pappacena, a suon di colpi sferrati con due potenti mazzә (martelli con assi lunghi) in maniera continua ed alternata, mentre il rumore ritmico della mazza più pesante si alternava a quello della mazza più leggera in una martellante ed assordante melodia di suoni che facevano pensare ad un crescendo sinfonico rossiniano, provvedevano a che il ferro, senza perdere la sua incandescenza, potesse essere modellato secondo l'uso ein maniera tale che i due lembi terminali fossero saldati e poi posti sulla ruota: operazione che veniva - come è facile intuire - quando il ferro era già freddo. Frotte di contadini e di massari che, sul far del giorno, si avviavano verso le fatiche dei campi, si trasformavano per un'ora (dalle sei alle sette circa) in occasionali spettatori delle capacità artigianali dei mastri carrai. Tra gli altri, c'era "don" Vincenzo Fino, proprietario di un trappitә (oleificio) ubicato di fronte alla bottega dei fratelli Pappaccna. Messo da parte ogni suo problema, si sedeva vicino alla bottega e seguiva, con attenzione e con ineguagliabile godimento, questa fase della lavorazione dei mastri carrai, che aveva un non so che di magico e di affascinante. Nella prima metà degli anni '50, con l'avvento delle automobili e dei camion, ebbe termine in Corigliano un'attività che, iniziata nei primi anni del secolo, aveva contribuito in maniera notevole allo sviluppo economico della nostra città.

(Enzo Cumino)

'U curdàrә

Nel 1930 veniva nella nostra città da Ostuni (BR) Pietro Pinto, giovane di belle speranze, e sposava nella Chiesa di S. Maria Maggiore la signorina Rosina Granata, coriglianese. I due ebbero 7 figli e, tra questi, Angelo, abitante in Via Montesanto n. 51, oggi muratore, il quale ha attivamente e gentilmente collaborato alla stesura di questo articolo. Pietro Pinto, detto "mastrә Pietrә 'u Curdarә", abitava con la sua famiglia in Via Principe Umberto, cioè "a ru Fuossә", ed è stato l'ultimo cordaio che ha operato in Corigliano. Nel 1931 venne nel nostro paese, sempre dalla provincia di Brindisi, "mastrә Peppә 'u curdarә", che ebbe meno fortuna del primo e che, abitualmente, lavorava lungo Via Cadorna, cioè "supa l'Archa". Mastro Pietro operava lungo il marciapiede della Via Nova (Via Roma) dal n. 1 fino all'imbocco di via Ospizio; da "supa l'Archә" fino all'attuale negozio di Totonno Campolo " 'u magghjarә"; ancora, "a ra fossa", dove ora sorge la Scuola Elementare di S. Antonio; soprattutto, lungo l'attuale marciapiede della Villa Margherita; negli ultimi anni della sua attività artigianale, dietro la Chiesa di S. Antonio, dallo spiazzale antistante la cabina elettrica fino a casa Scura, sul terreno ove ora sorge il palazzo Policastri e che in quei tempi era teatro delle gesta dei cavalieri che prendevano parte alla sagra della "pàpera" di Carnevale. Mastro Pietro lavorò come cordaio fino al 1954; morì a 47 anni il 9/3/ 1957. Il lavoro del "curdàrә" è antichissimo, si perde nella notte dei tempi ed ha resistito nella nostra civiltà sino alla fine degli anni '50. Per fare le corde, il "mastrә curdarә" aveva bisogno di 2-3 aiutanti, che - di solito - erano suoi figli o nipoti oppure operai regolarmente retribuiti. Il cordaio si serviva di una macchina chiamata "scannә, formata alla base da una sbarra di legno posata a terra, lunga circa m. 2 - 2,20; ad una estremità c'erano due assi di legno che sostenevano, mediante un perno di ferro, una "ruota" di legno alta circa m. 1, dal diametro di circa m. 1,10 e larga circa cm. 40; all'altra estremità c'era una sbarra di legno detta "crucә", alta circa m. 1, su cui erano posti 3-4 "fusilli" di legno (di forma rotonda, dal diametro di cm. 8 e con una scanalatura di cm. 1, attraverso la quale passava una corda della stessa misura) che giravano contemporaneamente alla ruota, mediante un sistema di corde; sui "fusilli" era sistemato un gancio di ferro. Con la macchina potevano lavorare da 1 a 4 cordai, a seconda di quanti erano i fusilli; quando la ruota veniva girata manualmente da un apprendista trasmetteva il movimento ai fusilli posti sulla "croce". Quando giravano i fusilli, il mastro iniziava a fare le corde. Per fare le corde, occorrevano cordicelle lunghe circa cm. 75 con le quali i contadini attaccavano " 'i gregnә", cioè i fasci di grano appena falciato. Dopo la mietitura, i massari si recavano con dei sacchi pieni di cordicelle dal cordaio, per ordinare, poi, altre corde di vario spessore. Inoltre, il cordaio doveva comprare la canapa presso un negozio di "ferramenta", di solito in via Roma da Raffaele Mazziotti, poi dal figlio Francesco. Il cordaio metteva 3 cordicelle sui ganci dei fusilli; muovendo la ruota, i fusilli giravano e il mastro cominciava dal gancio del fusillo a fare la corda. Le cordicelle si univano, perciò, alla canapa che era tenuta all'altezza della cintura dentro una "vanterә", cioè uno straccetto che faceva da contenitore. Il cordaio con la mano sinistra prendeva una cordicella che veniva, poi, passata sulla mano destra assieme con la canapa; quest'ultima veniva estratta dalla "vanterә" con la mano sinistra, per poi passare quasi automaticamente nella destra Per andare avanti nel suo lavoro, il cordaio si muoveva a ritroso, come il gambero, per cui era in uso (e lo è ancora oggi presso gli adulti) il noto detto che suonava quasi come una imprecazione "vò jirә avantә cum' 'u curdarә", cioè "ti auguro di andare avanti come il cordaio"; si augurava, pertanto, all'altro di non fare progressi nella vita, anzi di regredire. Il cordaio andava indietro, unendo sempre contemporaneamente le cordicelle e la canapa. Di solito "creava" corde lunghe circa m. 100 - 200. A seconda della richiesta, il cordaio creava corde più o meno lunghe e più o meno spesse. Per fare una corda dello spessore di cm. 1, doveva unire insieme 3 fili; per una corda da cm. 4, univa 4 fili da cm. 1 l'uno. Quando il filo diventava abbastanza lungo, il cordaio - per tenerlo sollevato da terra - lo appoggiava su tre piccoli "scannә", posti tra sé e la croce. Per fare il filo, il cordaio andava indietro: il filo si stendeva, si allungava, mentre gli apprendisti giravano la ruota che faceva girare il fusillo; in tal modo le cordicelle e la canapa si attorcigliavano e formavano un filo molto resistente. Per fare, poi, la corda si mettevano insieme più fili; a questo punto, c'era bisogno di " 'u frungillә", cioè un gancetto (che veniva tenuto da un giovane), atto ad attorcigliare tre o più fili e farne una corda ben resistente. Quando i fili si attorcigliavano per formare la corda, il mastro andava avanti con una "furcellә" di legno di circa cm. 20, simile a quella che i ragazzetti discoli usavano per tirare sassi ai passerotti; nella "furcellә" passava un filo, mentre gli altri due passavano tra le dita della mano sinistra. Le corde, oltre che con le cordicelle e la canapa, si potevano fare con " 'u vriellә” (giunco), materiale che si adopera abitualmente per infilare i fichi secchi; allo scopo servivano anche i peli di capre appena tosate lunghi circa cm. 10 - 15. Oltre ai massari, gli abituali committenti di corde erano tutti quegli artigiani che lavoravano nel settore dei "trasporti" di una volta: "sillàrә", "mmastàrә", "mulinàrә", ecc.; inoltre, molti contadini acresi provenienti dalle contrade Costa, "Paganìa", Baraccone, Simonetti, Piano Caruso, ecc., specialmente nel periodo bellico, acquistavano mediante baratto: chiedevano corde e davano in cambio salsicce, formaggi, fichi secchi, legumi, legna, ecc... Il cordaio diventava nei mesi autunnali " 'u fisculàrә”, giacché - su commissione dei proprietari dei frantoi - creava i fiscoli su cui veniva messa la pasta delle olive pressate. " ‘U fisculàrә" adoperava una macchina formata da un treppiede, alla sommità del quale era fissato un perno; su di esso girava una ruota di legno di circa cm. 80 di diametro, con all'interno un telaio formato da 29 chiodi laterali e 3 chiodi centrali. Tali chiodi, di forma rotonda, erano lunghi cm. 12. Un apprendista girava la ruota e, pian piano, formava la metà del fiscolo; dopo di che, il mastro, seduto, portava a termine il lavoro, intrecciando altra corda attorno alla forma già iniziata. Come "materia prima", il cordaio usava vecchie corde importate da Napoli o da Genova, precedentemente adoperate per tenere le navi al molo. Tali corde, dello spessore di cm. 8-9 venivano "sbittàtә", cioè sciolte, e diventavano corde da un centimetro l'una, sufficientemente robuste per fare il fiscolo, strumento indispensabile per la lavorazione delle pregiate olive delle nostre campagne.

(Enzo Cumino)
Da "A Citatella" di A.Russo : 'U curdari

Quannә  virә lu curdàrә fatigàrә/tienә a mmendә e nnù tti scurdàrә/ca ghillә nascә ccu ‘nna sciortә amàrә/e ‘nna figghjә ri mammә ‘u lli po’ ràrә./’U corә ‘u tenә rrannә quandә ‘u màrә e ri jettә ‘i ssa bbuonә ‘ndrizzàrә,/ma ‘na vitә ‘i stiendә lli fa ffàrә/ca sembrә arrierә arrierә ha ddi ggissàrә.

'U tilàrә

Soltanto un telaio è ancora oggi operante in Corigliano: in Vico 1° Falcone n. 27, la sig.ra Maria Pucci in Mollo, meglio nota come "Maria 'i Pippinә", a cui va il nostro sentito "grazie" per la disponibilità totale dimostrata nel corso di vari incontri, custodisce e tiene in vita una tradizione artigiana che, iniziata con la storia delle più antiche civiltà, quando l'uomo sentì l'esigenza di sostituire gli indumenti di pelle animale con abiti di stoffa, è rimasta immutata per migliaia di anni ed ha visto come protagonista la donna, la tessitrice, la quale è stata allontanata pian piano dal suo strumento con l'avvento della rivoluzione industriale (seconda metà del 1700). A Corigliano, il telaio ha avuto un ruolo di primo piano nella cultura artigiana fino al periodo precedente la prima guerra mondiale (1914-18). Tra le due guerre, il telaio ricoprì ancora un ruolo importante nell'artigianato locale, in quanto rappresentava per le tessitrici un lavoro qualificato e discretamente remunerato, mentre consentiva alle famiglie di avere tele buone e molto resistenti a prezzi accessibili. Quando anche l'Italia è divenuta potenza industriale, il telaio ha visto contati i suoi giorni. Le massaie di Corigliano ritenevano che la tela di famiglia, fatta di cotone, non si doveva comprare dal mercante di tessuti, ma doveva essere lavorata in casa, al telaio. Bisognava, innanzi tutto, calcolare quanto filo occorresse per la lavorazione, operazione che la massaia esprimeva con la frase "mintìm 'u tuocchә". Si andava, quindi dal mercante per comprare delle matasse di "tramә" e "stamә", pesanti ognuna circa 500 grammi. La "tramә" era un cotone molto attorcigliato, ritorto, mentre la "stamә" era un cotone molto morbido. Per poterlo tessere al telaio, il cotone di trama e stame si doveva preparare così: la matassa di trama si doveva " 'ncannàra a ri cànnula" (pezzi di canna messi in verticale, alti quasi cm. 30) si doveva, cioè, attorcigliare e raccogliere in parte su questi pezzi di canna. La matassa di trama si metteva "a ra nìmulә", cioè all'arcolaio, e poi si "ncannàvә" e il filo veniva rotto quando la massaia riteneva che " 'u cànnula" era sufficientemente provvisto di tela. Su ogni "cànnula" si formava come un rombo di filo. "I cànnulә", così riempiti, venivano portati dalla massaia presso l'orditrice, la quale - attraverso il suo lavoro - preparava tutto per la tessitura. L'orditrice faceva sì che si formassero due strati di cotone, l'uno sottostante all'altro. L'orditrice, poi, si recava dalla tessitrice e aggiustava il cotone alla parte esterna del telaio, arrotolando il tessuto intorno ad un palo molto grosso e lucido, posto in orizzontale, "'u sugghjә". Al centro del telaio c'erano "i lizzә", cioè due aste di legno sovrapposte l'una all'altra, ma distanti tra loro circa cm. 15. Ad ogni asta di un "lizzә" c'erano dei buchi, attraverso i quali passavano dei fili di cotone molto resistenti, grossi quasi come uno spago e morbidi. "I lizzә" venivano sostenuti dai "tommarellә", pezzi di legno di circa cm. 20, mediante corde lunghe circa cm. 30. L'orditrice, quando arrotolava il filo alla parte esterna del telaio, faceva sì che il filo si distribuisse in maniera uniforme su tutto " 'u sugghjә". Fatta questa operazione, la orditrice e la tessitrice dovevano far passare il filo arrotolato sopra " 'u sugghjә" dentro i fili dei "lizzә". Davanti "a ru scannә", cioè il sedile, lungo per quanto era la larghezza del telaio e fisso, c'era un altro "sugghjә", attorno al quale si arrotolava la tela pronta per essere lavorata. Per lavorare la tela, bisognava a questo punto -" 'ncannàrә a stamә" attraverso le "cannella", cioè pezzi di canna, fatti con la parte più fine di essa, lunghi circa cm. 10. La tessitrice metteva queste "cannellә" in un cofanetto o in una "ggistellә", una cesta, alla destra "i ru scannә". Ogni "cannellә" veniva infilata nella "saìttә", cioè un pezzo di legno lucido a forma di barchetta della lunghezza di circa cm. 12-14, con un ferro dentro che la attraversava tutta; nella parte laterale di essa c'era un buco, attraverso il quale doveva passare il filo della "cannellә", per lavorare. Quando il filo della "cannellә" finiva, la tessitrice prendeva un'altra "cannellә", faceva un nodino tra il filo lavorato e quello da lavorare, e continuava il suo lavoro. Dai "lizzә" scendevano delle corde che, nella parte bassa del telaio, venivano attaccate "a ra piràcchjlә", cioè un pedale di legno lungo circa cm. 40 e largo cm. 30. Alla sommità, " 'a piràcchjlә" era formata da cinque "jìritә", cioè cinque dita o pedalini di legno mobili, lunghi circa cm. 30, cui venivano attaccate le corde collegate con le estremità dei 'lizzә". La tessitrice, a seconda della lavorazione in corso, doveva muovere a turno questi pedalini, a piedi scalzi o, comunque, senza scarpe. Per es.: per una tela liscia, il movimento era più semplice, mentre quando veniva lavorata a tela "pintә", cioè operata, il movimento era più complesso e c'era bisogno di più "lizzә". La tessitrice, muovendo i pedalini, faceva sì che due fili dei "lizzә" si aprissero sotto e sopra, per cui la "saittә" si poteva agevolmente infilare in essi, con un movimento orizzontale, da destra verso sinistra. A questo punto, la tessitrice doveva nuovamente muovere i pedalini, affinchè un altro filo si aggiungesse al primo e la “saittә” veniva mandata questa volta verso destra. Ogni due o tre movimenti completi della "saittә", la tessitnce con ambedue le mani tirava verso di sé. Per poi allontanarla, “a tavellә" un pezzo di legno che comprimeva il filo già lavorato per rendere la tela compatta, e che sosteneva il "pettine" attraverso il quale passava il filo. Per finire, possiamo aggiungere che, oltre alla lavorazione di “tramә” e “stamә”, tutta di cotone, era diffusa pure quella di “tramә a ffilә lustrә”, cioè a filo lucido(il lino), con cui si lavoravano tovaglie da tavola, salviette, asciugamani,lenzuola e coperte, che entravano di diritto nel corredo delle giovani promesse spose.
(Enzo Cumino)

...parleremo di due tessuti particolari che "uscivano" dal telaio: la tela di canapa e la felpa. Quando ancora i contadini tagliavano il grano con la falce, attaccavano i "gregnә", cioè i fasci di grano appena falciato, con delle cordicelle lunghe circa cm. 75. Queste cordicelle, dopo essere state adoperate per la mietitura, venivano raccolte in sacchi fino ad un peso di circa Kg. 10-15 e venivano vendute alle massaie dagli stessi contadini. Le massaie dovevano "sbittàrә" le cordicelle, cioè aprirle, sfilacciarle, e in tal modo ottenevano " 'a stuppә", cioè il filo di canapa. Tale filo veniva arrotolato un po' alla volta alla conocchia, fatta di canna. La base della canna si teneva nella mano sinistra, mentre il centro della canna, lungo circa cm. 10-12, veniva tagliato in quattro parti e la "stuppә" si arrotolava attorno a questa nuova figura simile ad un rombo. La sommità della canna doveva rimanere intatta per circa cm. 5-6. La canna, ancora, doveva essere lavorata al centro quando era "verde". Col pollice e con l'indice e un po' d'acqua, (se non c'era acqua, essa veniva sostituita dalla saliva della massaia che lavorava il filo), si filava la "stuppә" e il filo che si otteneva si arrotolava al fuso. Si ottenevano, così, grandi matasse di filo di canapa, molto resistenti. Tale filo, unito al filo di trama, cioè di cotone, si lavorava al telaio. Da tale lavorazione, veniva fuori una tela molto pesante e molto resistente, con cui si facevano lenzuola per il corredo delle giovinette e strofinacci per la cucina. La tela di cui sopra era di colore bianco-sporco, per cui, quando era tutta intera, cioè prima che diventasse lenzuolo, veniva data alle lavandaie, in piena estate, perché ripetutamente fosse lavata nelle acque limpide del Coriglianeto e, poi, venisse "curata" attraverso parecchi bucati fatti a mezzo di "lissìә", cioè lisciva, ovvero cenere di legna consumata, bollita con acqua. La " lissìә " bolliva per circa 1/4 d'ora e doveva, poi, essere versata sopra alcuni strofinacci quasi inservibili, i quali venivano posti sopra la tela. In tal modo, la " lissìә " filtrata, cioè senza la cenere che rimaneva sopra gli strofinacci, penetrava lentamente sulla tela, rendendola bianca. Per renderla ancora più bianca, le lavandaie adoperavano "a vujìnә", cioè le feci morbide delle vacche; dopo di che, la tela veniva stesa sulle pietre per asciugare ai raggi del sole. Alla fine, la tela di canapa veniva più volte lavata nell'acqua corrente del torrente. E veniamo alla felpa. Tessuto di cotone assai resistente, la felpa fu introdotta in Corigliano da alcuni artigiani tarantini all'inizio dell'800, come leggiamo sulla Crono-Istoria di Corigliano di G. Amato. Lavorata prima liscia, in seguito a colori e disegni diversi, veniva usata nera, specialmente dai contadini. Esistevano in città alcune fabbriche all'inizio di Via Roma, alcune nei pressi del Ponte Canale, altre nella zona chiamata "Grecia". Nel 1884 esistevano in Corigliano 47 telai che lavoravano la felpa, tessuto di cui facevano uso i signori del luogo per andare a caccia (felpa di colore bianco). Data la qualità della produzione locale, la felpa di Corigliano veniva richiesta in quell'epoca dai mercati nazionali più importanti.

Enzo Cumino

'I Pignatàrә

IL solo vero grande cruccio di Mastro Luigi Santo, l'ultimo "pignatàrә" (vasaio) operante a Corigliano, è quello di non aver potuto trasmettere i segreti della sua arte a qualcuno dei suoi tre figli maschi (tutti professionisti) o a qualche giovane apprendista locale. Ma non dispera; forse qualche giovane si presenterà a lui dopo aver letto questo articolo o su invito di qualche insegnante di Educazione Artistica. Una volta a Corigliano i vasai erano così numerosi che addirittura il quartiere dove essi operavano viene chiamato ancora dal popolo '"i pignatàrә". Mastro Luigi, classe 1910, vive da sempre nel rione Pignatàrә ed appartiene ad una famiglia che, di generazione in generazione, ha saputo tenere viva una tradizione artigianale ormai in via di estinzione. Anche oggi, come è stato per millenni, la lavorazione viene fatta a mano, con un tornio a pedale o "rotә", composto alla base da una ruota di legno dal diametro di circa cm. 50-60 e sopra da un'altra ruota dal diametro di circa cm. 30; un asse centrale congiunge le due ruote suddette. Muovendo il pedale della base, si mette in moto “ ‘u piruòzzilә", cioè un pezzo di legno che fa girare l'asse. Mastro Luigi lavora adesso solo d'estate, mentre durante l'inverno manda avanti un "trappìtә" (oleificio) di modeste dimensioni e segue le varie fasi della lavorazione delle olive con lo stesso amore e con la stessa competenza con cui lavora la creta. E' appunto la creta la materia prima di cui si serve il vasaio. Molti anni fa la creta veniva "carriàtә" (trasportata) col ciuccio (asino), di proprietà del vasaio, da contrada Cannata fino alle botteghe dei "pignatàrә". Questa operazione veniva fatta da un garzone, il quale riusciva a portare a termine due o tre viaggi al giorno, scaricando ogni volta circa un quintale di creta. Quest'ultima veniva pestata con mazze di legno che dovevano renderla più minuta; poi, veniva squagliata in tini di legno dalla capacità di circa due quintali; veniva, poi, pestata con i piedi come l'uva. A questo punto, la creta veniva lavorata e ridotta in pastoni di varia grandezza, a seconda degli oggetti da produrre. Il pastone veniva lavorato sul tornio a pedale, sempre da "riscìpulә" (garzoni) e, pian piano, andava assumendo la forma dell'oggetto desiderato. La forma veniva fatta a mano dal "mastro". Acquistata la forma definitiva, l'oggetto veniva asciugato al sole; poi, veniva messo nella fornace per la cottura, per circa 5-6 ore. Il fuoco della fornace di mastro Luigi viene alimentato, oggi, da " ‘u rivattә " (la sansa), prodotto della spremitura delle olive. Molti degli oggetti "creati" dal mastro vengono smaltati con piombo e terra; il piombo viene squagliato nelle fornelle e impastato con la terra. Per dare una colorazione rossa agli oggetti, " ‘a grittә " (lo smalto) viene fatta solo con il piombo; lo smalto bianco si ricava, invece, dall'impasto del piombo e della "jizzә", una specie di calce che viene squagliata; per ottenere, infine, una "gritta" di colore bianco sporco, si devono mescolare il piombo, " ‘a jizzә " e "ra galanzә", una pietra nera d'argento, una volta in quantità abbondante in una cava sita in località "Argenterà" (vicino a Baraccone). Sono tantissimi gli oggetti "creati" dalle mani esperte di mastro Luigi Santo. Cerchiamo, ora, di farne un elenco il più esaustivo possibile. Siamo sicuri che molti nostri concittadini (specie i meno giovani) ritorneranno con la memoria agli anni della loro infanzia, leggendo i nomi in vernacolo di tanti oggetti una volta comuni in tutte le case del nostro paese.

 

'a vùmmulә, recipiente per l'acqua, di varie dimensioni: da 1/4 di litro fino a 10 litri; bocca piccola e stretta; due anse;

 

'u cùcchimә, recipiente per tenere fresca l'acqua d'estate; con bocca larga chiusa con diaframma di terracotta, con molti fori;

'a cannatә, recipiente per il vino, da 1 /4, 1 /2 e 1 litro; panciuta,a bocca larga e sagomata, con un'ansa;

 

'u trimmuniellә, recipiente per vino, acqua, olio; come " 'a vùmmulә ", più alto e con la bocca più grande;

'a rastә, vaso di varie dimensioni, per fiori e piante ornamentali da balcone o finestra;

 

'a ciarrә, recipiente per l'acqua; come " ‘u cùcchimә ", ma con bocca aperta, senza diaframma;

'u tarzarulә, recipiente di forma cilindrica per salare olive, pomodori e altre "provviste"; serve anche per conservare i salami nel grasso o nell'olio;

'a pisàrrә,grosso recipiente per l'olio o per le olive.Particolare curioso: la "pisàrrә",poiché era molto grande,veniva lavorata in due tempi,cioè si lavoravano separatamente le due metà e,successivamente,i due pezzi venivano saldati sempre con la creta;

 

'u carusiellә, salvadanaio per bambini;

'a campanell'i ra Maronn'i ru Carminә,con il battaglio pendente,si appende ad una corda su un balcone o una finestra e si fa suonare specie dai bambini,al passaggio della processione della Madonna del Carmine (16 luglio);

 

'u càntirә, vaso da notte, usato da tutte le famiglie quando ancora non esisteva il bagno moderno;

 

'a lucirnellә, lucerna ad olio, col "miccio", cioè il moccolo;

 

'u canilierә, portacandele, di solito per due o tre candele;

 

bottiglie, piatti e bicchieri di varie dimensioni;

'a limmә, grande piatto con cavità accentuata, per la pasta, insalata, ecc. (utilizzato anche per depositarvi i panni appena lavati);

'a pignatә, fatta con creta rossa (che meglio resiste al fuoco), per cuocere legumi;...

Ojә pignatàrә mijә, ojә pignatarә

c'a crita tu' sa bbuonә manijarә,

'ssa rota ccu ri pierә fa girarә

e rrastә, ciarrә e bbummulә sa fàrә.

Fammә a mmijә 'na cucchjә i cuccumillә

e a r'unә fammìccә 'u pisciariellә;

fa pu' ppi ffràtimә 'nu carusiellә

accussì cci mindәri trunnisiellә;

'a ssuorma 'na cambanella pp'a 'mbicarә

e a ra Maronna 'i ru Càrminә sunàrә.

'Ssa cambanella faccetta 'ndinnendә

ca ghè ppì 'nna Maronna assajә putendә.

(dalla rete)

'U scarpàrә

Mastro Francesco Lavorato a lavoro (foto di S. Grillo)
Mastro Francesco Lavorato a lavoro (foto di S. Grillo)

‘U scarpàrә, (calzolaio o ciabattino) è uno dei mestieri più antichi al mondo. Negli anni ’50 l’attività principale era quella di fare scarpe su misura (quindi calzolaio). Oggi sono pochissime le persone che si fanno fare le scarpe su misura, e solo in pochi riparano le scarpe, sostituendo un soprattacco rotto, facendo una risuola o , ma raramente, riparando i tagli sulla tomaia, con l'applicazione di piccole “pezzette” (quindi ciabattino). La presenza a Corigliano di tanti calzolai negli anni 50 e '60, come “mastr’ Ntonio i Meligènә, mastrә Ruminich’u Lannuvucchisә,… “ era dovuta all'elevato costo delle scarpe nuove di allora, pertanto la gente era costretta a ripararle. Un modo molto particolare, oggi improponibile,  per evitare il facile consumo della suola, era quello di inchiodare sulla suola stessa “i taccә” e sui tacchi e le punte “’i ferrettә a mmenzә lunә”. Un metodo del tutto opposto a quello di oggi circa l'applicazione di striscette antiscivolo sulle (poche) scarpe con suola. Lo ricordo molto bene, perché ancora oggi riporto i segni delle numerose cadute, dovute alle gare di chi arrivava prima sulle ripide discese "i ru vicinanzә". Quando andava bene, si andava a sbattere contro qualche muro, e non ci lamentavamo mai, anzi, al contrario, eravamo felici per aver scoperto i moderni “skateboard”. Anche se, per la verità,  'i scarpә cuìi taccә aiutavano a camminare bene sulle strade sterrate, bagnate e scivolose perché favorivano una maggiore aderenza della scarpa. Altri tempi. Ma ritorniamo “ 'a ru scarparә ” e ai suoi attrezzi. “U scarparә” svolgeva, ma svolge anche oggi, il suo lavoro seduto davanti ad un piccolo tavolo di legno, indossando un ampio grembiule di pelle che arriva un po’ sotto le ginocchia e fissato sul davanti con delle stringhe di cuoio al collo e dietro la schiena. Sui ripiani di uno o più scaffali erano alloggiate le diverse forme (di varie misure) per allargare e modellare le scarpe e la materia prima: cuoio e gomma. Un bravo calzolaio era anche in grado di eseguire semplici lavori di ortopedia creando plantari e tacchi finalizzati alla correzione della postura.

Un breve elenco di attrezzi " 'i ru scarpàri" :

L'incudine metallica a forma di piede rovesciato viene fissato su apposito sostegno di ferro, appoggiato sulle ginocchia. L’incudine, detto anche semplicemente piede, permette di inchiodare le semenze ('i simingiә) sulla suola delle scarpe.

 

Tripiede (‘u trippier'i fierrә). Un'incudine triplice metallica, oltre a quelle singole per le scarpe degli uomini, serve per inchiodare le tre misure più comuni di scarpe per bambini.

Trincetti sono le lame sottili di acciaio, affilatissime, larghe circa 2 dita. Vengono affilate frequentemente con la pietra levigatrice.

Lesine (sugghjә)sono degli utensili in acciaio, con manico in legno, di forma curva, diritta, rotonda e piatta, necessari per la perforazione a mano degli strati da cucire con lo spago.

 

Perforatrice multipla. Utile per praticare dei fori per l'inserimento degli occhielli metallici per il passaggio dei "lacci".

 

Martello ('u martiell'iri scarpàrә). Un martello particolare, a penna liscia, per fissare con i chiodi corti quadrati i tacchi in cuoio.

La tenaglia ('a tinagghjә)a due ganasce, simmetriche ed articolate mediante un perno centrale, serve a togliere i chiodi rotti dalle scarpe che devono poi essere riparate.

Raspe Con quella a denti radi e grossi si sgrossano sommariamente i bordi esterni della suola e gli strati di cuoio che formano i tacchi, mentre con quella a denti fitti e piccoli ,il raspino, si rifinino le superfici. 

Altri oggetti che utilizza il calzolaio sono i pezzettini di vetro per pareggiare l'orlo delle suole, la colla , le forbici, lo spago, le spazzole,....

‘U Mmastàri

Il bastaio, a differenza del sellaio, “creava” basti per animali da soma, come muli, ciucci (asini), bardotti.

Anche il bastaio utilizzava le pelli lavorate dal pellaio, ma decisamente meno pregiate. A lui era affidato il compito di provvedere a realizzare tutti gli arnesi e le bardature ad uso degli animali da carico: bardelle, cavezze ordinarie, gabbie di corda o di sparto, da adattarsi al muso dell’asino o del mulo.

Il basto era formato da due legni duri (quercia, rovere o cerro) incrociati, sui quali il sellaio cuciva un sacco contenente paglia, stoppie e peli di animali.

In effetti, anche a Corigliano, la bottega del sellaio e del bastaio era unica: l’artigiano che costruiva selle era capace di realizzare anche basti e viceversa.

Tra gli artigiani che si distinguevano in tale arte, bisogna citare i componenti della famiglia Passerini: mastro ‘Ntonio (Antonio) e i figli Bruno e Domenico.

Gli attrezzi indispensabili di cui si servivavo ‘u sillàri e ru mmastàri erano: il banco (una tavola rettangolare, ben salda, ampia e lunga, su cui l’artigiano stendeva e, poi, tagliava le pelli e i cuoi per lavarli) e la “tavola a morsa”, ossia un cavalletto a quattro gambe, sul quale, a uno dei capi, era impiantata, in senso verticale, una grossa morsa di legno, fra le cui “bocche” si stingevano le pelli e i cuoi, maneggiati dall’artigiano, seduto a cavalcioni.

In pratica, tantissimi erano gli attrezzi adoperati da sellai e bastai durante il loro lavoro. Quelli usati comunemente erano: le forbici, chiamate “forbici a grossa”, per tagliare le pelli; la “lesina”, un ferro sottile, molto appuntito, con un piccolo manico di legno tornito (la lesina poteva essere diritta, curva, tonda o a spigoli); la “mannaia a lunetta”, ferro a forma di semidisco, tagliente dalla parte curva, con manico corto dalla parte opposta (l’artigiano l’adoperava, spingendolo davanti a sé); la “stampa”, un ferro utilizzato per praticare fori nelle “corregge” che, poi, dovevano essere affibbiate; lo “stampo”, un arnese di ferro che serviva per stampare sui lavori di cuoio o di pelle fregi, fiori o ornamenti vari; il “punteruolo”, un ferro conico ed appuntito, per allargare e tondeggiare i fori praticati nel cuoio con la lesina.

Normalmente, ogni due o tre mesi, il sellaio e il bastaio diventavano ambulanti, perché si recavano nelle varie fiere della provincia, per vendere i loro prodotti finiti. La fiera era un’occasione d’oro da non perdere, perché era proprio lì che questi artigiani riuscivano a vendere la maggior parte dei loro prodotti.

Dopo aver caricato la loro mercanzia su uno o più asini, verso le prime ore del giorno (cioè tra l’una o le due di notte) il sellaio ed il bastaio si recavano presso le fiere di Bisignano (Soverano), San Sosti (Madonna del Pettoruto), Acri (Beato Angelo), Cerchiara di Calabria (Madonna delle Armi), Cariati (San Cataldo).

Alle prime ore del mattino, invece, si avviavano per vendere i loro prodotti nelle due fiere locali che si svolgevano a Schiavonea (Ascensione e Morti).

In tutti questi appuntamenti fieristici, la parte più importante del mercato era proprio quella riservata all’acquisto o alla vendita di animali e, conseguentemente, anche di tutti quegli utensili che servivano per gli animali da carico.

Una curiosità: nel corso di una fiera, di solito della durata di tre giorni, il bastaio faceva “affari” con gli zingari, particolarmente attivi nell’acquisto-vendita di animali da soma. Gli scambi e la frequentazione portavano, talvolta, zingari e bastai a “stringere” delle amicizie. Non era raro, perciò, il caso di bastai che apprendevano l’idioma degli zingari.

A tale proposito, vale la pena citare un episodio accaduto metà degli anni Settanta del Novecento. Mastro Bruno Passerini aveva, con gli anni, cambiato attività: vendeva oggetti vari per la casa. Un giorno, nella sua bottega, entrarono due zingare. Presero degli oggetti e li nascosero sotto le gonne, scambiando, però, tra di loro delle frasi di intesa.

Mastro Bruno capì tutto, perché aveva appreso benissimo la lingua dei rom ed era capace anche di esprimersi nel loro idioma. Fece finta di nulla, ma, nel momento in cui le due zingarelle stavano per superare l’uscio della bottega, le apostrofò nella loro lingua e le invitò a pagare. Le due donne, stupite e con un sorriso forzato, furono costrette a saldare regolarmente il loro conto.

(tratto da "I mestieri di una volta a Corigliano Calabro" di Enzo Cumino)
(libro in vendita presso la Libreria "Il Fondaco"-Corigliano Calabro Via Nazionale 1/C-)

I venditori i “fichipaletti”
(di Gerardo Bonifiglio)
Un’altra “attività commerciale”, di pura sussistenza aggiungo io, molto diffusa verso la fine degli anni ’50, inizi ’60 era quella dei venditori di fichi d’India, (fichipaletti).
Ve ne erano tanti che esponevano la loro mercanzia nei punti strategici, cioè quelli dove c’era movimento di persone.
L’attività normalmente iniziava di pomeriggio tardi, quasi mai di mattina anche perché la mattina presumibilmente serviva per andare a raccogliere il frutto quasi sempre a piedi o raramente in bicicletta o su di un asino.
Le nostre contrade erano piene di queste piante che spesso venivano usate per delimitare i confini tra le proprietà ma anche senza ragione apparente disseminate ai bordi delle strade interpoderali comprese quelle statali o provinciali.
Le zone più ricche erano quelle appena fuori paese verso la costa, seguendo il corso del torrente “coriglianeto”, ma anche verso l’Ariella prima che venisse urbanizzata, ed anche verso “u valluni i don Fidirichi” dove scorrevano le acque reflue e per questo motivo si chiedeva al venditore di turno se per caso non fossero state raccolte in quella zona e pertanto chiamate “fichipaletti i ra pisciazzella”. Naturalmente tutti negavano e bisognava fidarsi.
I punti dove veniva esposta, normalmente una sola cassetta, che io ricordi, erano: “a ra gghjazza” esattamente al bordo che delimita la villa Compagna con via Tricarico, oppure tra il palazzo Fiore e quello Abenante. Inoltre all’Acquanova normalmente appena inizia la salita di San Francesco dove c’era anche un Vespasiano oppure sotto i cartelloni cinematografici all’angolo destro di palazzo Bianchi.
Un altro punto strategico era a San Francesco proprio sotto il muro della Chiesa in direzione del campanile.
Accanto alla cassetta era sistemato un secchio d’acqua dove il frutto veniva buttato a volte indicato singolarmente e scelto dal cliente, prima di essere venduto per togliere qualche spina, ma qualcuna finiva sempre sulle mani del venditore che ogni tanto con l’aiuto del coltello cercava di toglierle.
I prezzi praticati erano veramente popolari, io ricordo di averle comprate anche ad una lira l’una. Dopo si vendevano a due cinque lire o a tre dieci lire fino a quando non arrivarono quelle “i Pulineri” che erano decisamente più grosse della altre e di un bel colore arancione che costavano cinque lire l’una. Sul sapore, a parte la dolcezza non saprei dire. Le dimensioni probabilmente erano dovute al fatto che in quegli anni il Consorzio incominciava a distribuire più acqua in pianura ai primi grandi agrumeti e quindi anche i fichi d’india, notoriamente non bisognosi d’acqua, si gonfiavano, un po' come i fichi di pianura “arracquatizzi”, rispetto a quelli di montagna più piccoli ma più dolci e saporiti.
A latere della vendita vorrei ricordare un episodio legato ai fichi d’india. Spesso proprio “a ra Gghjiazza” c’era un ragazzo di nome Mario che abitava a Santoro e che per puro divertimento e stravaganza e per dimostrare la sua bravura, buttava in aria a qualche metro di altezza un frutto, naturalmente sbucciato, e si piazzava sotto in direzione della caduta per farselo arrivare direttamente in bocca. Una volta però, ricordo, che il frutto gli rimase conficcato nella gola e rischiò di morire soffocato. L’intervento di alcuni presenti che lo aiutarono con manovre opportune gli salvarono la vita.
Per concludere vorrei ricordare anche la vendita “i ra mura ceuza”. Verso fine agosto quando il frutto era ben maturo di un colore sangue scuro, un ragazzo passava con un paniere pieno ed un bicchiere che vendeva a cinque lire. Lo riempiva con destrezza per non schiacciare il frutto e poi lo svuotava nel “trentacarrini” (piatto medio).
All’epoca a Corigliano ancora sopravvivevano alcuni esemplari della pianta di gelso che un tempo invece era molto presente sul territorio.
Forse non tutti sanno che la Calabria fin dal tardo medio evo era uno dei maggiori centri italiani per la produzione della seta (le foglie di gelso servivano per allevare i bachi). Catanzaro era famosa in tutto il mondo per la qualità del prodotto e per la sua lavorazione. Anche a Corigliano c’era una discreta produzione anche se non eccessiva come per es. nella vicina Rossano o Castrovillari.
Mio padre mi raccontava che verso i primi anni del novecento quando lui bambino si recava a Schiavonea a piedi o chiedendo un passaggio a qualche carro, i bordi della strada provinciale che collega lo Scalo a Schiavonea erano due filari ininterrotti di piante di gelso poi sradicati per diversi motivi.
Ed anche la produzione dei bachi da seta è passata nel mondo dei ricordi.
Gerardo Bonifiglio
I munzielli i ri cucummiri
In questo periodo verso la fine degli anni ’50, inizi ’60 a Corigliano in due zone della città c’era un’attività commerciale particolare. La vendita “i ri cucummiri”.
La prima zona era “u Funnichi”, la seconda San Francesco. Si scaricavano quintali di cocomeri e si aspettava che i clienti, passanti allora numerosissimi nelle due zone li comprassero.
I cocomeri non erano come quelli che conosciamo oggi chiamati “lunghe striate” il cui cultivar fu selezionato negli Stati Uniti e che da noi arrivarono un po' dopo. Questi cocomeri raggiungono pesi straordinari. Mio padre che agli inizi degli anni ’60 era stato chiamato per costruire “’na Turra” verso “Polinare” da un certo Sig. Mas imprenditore non originario di Corigliano, un giorno portò a casa un esemplare che pesava sui venticinque chili.
Ma torniamo al nostro racconto. Dicevo che i cocomeri di allora erano diversi, cioè rotondi, con la buccia più sottile di un colore verde scuro quasi omogeneo e al massimo potevano arrivare a pesare due o tre chili.
Purtroppo non erano sempre maturi al punto giusto e ogni tanto qualcuno all’interno era bianchiccio e quindi poco saporito. La maggior parte però erano di un bel colore rosso fuoco ed avevano un sapore decisamente più buono di quelli attuali. A proposito mi piace ricordare una canzone napoletana dell’epoca di Renato Carosone che faceva riferimento al fatto che il matrimonio somigliava al cocomero che poteva “uscire” anche bianco: “se il mellone è uscito bianco mò cu cchi t’avò piglià”.
In ogni caso per ovviare a questo inconveniente e quindi garantire la merce al cliente ci si era inventata una tecnica che si chiamava “a prova rischji” cioè a prova di rischio. Consisteva nel praticare un piccolo foro, un tassello quadrato (“u trastielli”) che estratto ad arte veniva fatto assaggiare al potenziale cliente.
I venditori per non abbandonare il prodotto, ricordo che di notte per tutto il periodo della vendita vi dormivano accanto.
Le campagne di Corigliano, allora, non erano tutte votate alla monocultura agrumicola come oggi.
C’erano distese di campi coltivati a pomodori i cosiddetti “sammarzano” oggi difficile da trovare perfino a San Marzano nell’agro sarnese da cui erano originari. Pomodori buonissimi con la buccia sottile adatti sia per insalata sia per preparare “a cunserba”. A Corigliano attratti dalla quantità e dalla bontà del prodotto erano arrivati imprenditori anche dalla Sicilia ad impiantare due fabbrichette per la trasformazione. Ricordo solo quella di Pensabene.
Ma la nostra campagna era anche ricca di coltivazioni di meloni e soprattutto di cocomeri della qualità sopra descritta e di tanti prodotti orticoli.
Oggi si vanta il prodotto a Kilometro zero, noi l’avevamo e lo abbiamo abbandonato.